L’auto-crocefigge degli stereotipi [di Nicolò Migheli]

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Nella notte tra il 9 e il 10 di maggio a Basilicagoiano, frazione di Montechiarugolo a due passi da Parma, Mohamed Habassi  viene ucciso a bastonate dopo lunghe torture. Gli autori, due di mezza età del posto che capeggiavano un comando composto da rumeni. Solo dopo un’ora di urla lancinanti che si spargevano per il paese qualcuno ha avuto il coraggio di telefonare alle forze dell’ordine. Quando queste sono intervenute hanno trovato morto Habassi. Il movente? Pare che l’espatriato non pagasse l’affitto di casa. Gli autori del delitto sono stati arrestati e i due capi dello squadrone della morte rei confessi.

Dopo un anno di indagini vengono arrestati i supposti assassini di Gianluca Monni di Orune e probabili autori della scomparsa di Stefano Masala di Nule. Delitti che hanno sconvolto due comunità e tutta la Sardegna. Anche in questo caso i moventi sembrerebbero futili: i complimenti pesanti ad una ragazza, conseguente rissa, una poesia satirica fatta circolare su WhatsApp. In più il tradimento di un amico troppo ingenuo.

Cosa lega il delitto di Parma con quelli di Orune e Nule? A prima vista nulla. Nel primo caso, giornali locali e reti sociali hanno espresso giustificazioni, quasi simpatia per gli autori dell’assassinio di Habassi, d’altronde è solo un immigrato e come tale colpevole di qualcosa. Nel nostro caso invece, per fortuna, le simpatie sono andate tutte alle vittime. Lo sconcerto resta alto, nella stampa e nelle reti sociali, ci si interroga, ci si chiede come fatti del genere possano accadere ancora. Non avendo chiavi di lettura aggiornate ritorna il pregiudizio: la società barbaricina è naturalmente predatoria.

Le società pastorali sono abituate alla violenza, uccidono gli agnelli – in tempi animalisti è la peggiore accusa- sono omertosi perché  vorrebbero farsi giustizia de sé o peggio, complici. Nel contempo però quelle comunità vengono raccontate come resistenti. L’ultimo baluardo di una Sardegna che si vorrebbe immutabile, premoderna, perché se no il fine settimana in agriturismo non ha lo stesso sapore.

Si immaginano comunità bloccate nel tempo, senza sapere che tutti i gruppi umani sono il frutto delle relazioni di chi li compone, che spesso, la sera le strade dei nostri paesi sono deserte e i rapporti affidati a Fb e Whats’App;  che la televisione accesa dal primo mattino è colonna sonora della giornata e produttrice continua di  immaginario.

Tutto questo pare che non conti, si citano Antonio Pigliaru e Michelangelo Pira per sentito dire. Il codice barbaricino, a questo punto, come mito tossico che non spiega più e restituisce una immagine falsa della realtà. Per spiegare Basilicagoiano non si usa la categoria dell’omertà, eppure la presenza mafiosa nella civilissima Parma ci dice che anche lì,  paura e a volte complicità, sono l’humus per comportamenti simili. Così come avviene in certe valli alpine o nel resto della Padania, quando fatti orrendi squassano quelle comunità. Parma, Orune e Nule, in fin dei conti sono frutto della medesima cultura, niente di arcaico e molto di post moderno.

Tarantino e il cinema splatter spiegano di più degli studi socio-antropologici sui fenomeni di lunga durata. Quanto i video sulle esecuzioni dell’Isis costantemente riproposti dalla rete e dalle tv, abituino all’idea della violenza? Quegli assassini sono i figli di quella cultura; sono figli di propensioni alla violenza che sono diventate rappresentazione sociale. Dobbiamo convincerci che anche noi siamo contemporanei. Viviamo in un modo segnato dalla modernità anche nei suoi aspetti deteriori. Tutto ciò però pare che non serva.

L’auto-crocefigge dei sardi è diventato categoria con la quale leggere i nostri sentimenti ondivaghi. Vittime del sardianialismo, l’orientalismo con cui siamo stati letti dallo sguardo straniero; etnia criminale che diventa etnia combattente a secondo la bisogna dell’Italia. Un racconto che ha finito per colonizzare il nostro immaginario. Però se si è combattenti, lo si è tutti – l’epica della Brigata Sassari è un esempio- , se si è criminali, invece, l’area va spostata, non ci tocca, è sempre  il nostro vicino, per noi ci sono sempre ragioni e scuse.

In questo caso: Barbagia e Goceano, la pastoralità come incubatrice di nefandezze. Un immaginario, il nostro, che si nutre di pregiudizi come l’invidia, l’impossibilità a fare squadra, l’individualismo che blocca l’imprenditorialità – ossimoro meraviglioso-.

Il sardinialismo applicato alla quotidianità. Mettiamocelo bene in testa, noi non siamo né migliori né peggiori degli altri, siamo figli del nostro tempo e l’auto-crocefigge alimenta solo il nostro disagio di essere al mondo. Ci neghiamo, non ci riconosciamo. Tonti ed infelici.

2 Comments

  1. Giuseppe Pulina

    Caro Nicolò, ti leggo volentieri e ti apprezzo. Ma questa volta ho perso il filo. Potresti tentare una sinossi semantica? Grazie.

  2. Sardegnasoprattutto

    Caro Giuseppe, grazie per l’apprezzamento. Volevo semplicemente sottolineare che ogni qualvolta nelle aree interne o negli ambienti pastorali avvengono fatti simili, si ricorre a vecchi strumanti di analisi che ormai non riescono più a leggere una realtà fortemente influenzata dalla contemporaneità. Spesso i primi a ricorrere alle categorie di omertà, balentia ecc… siamo noi per primi. Questo non solo non ci aiuta ma agisce come confermativo del sentirsi inadeguati, del disprezzare quel che siamo. Tutto qui.

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