La globalizzazione distrugge la democrazia? [di Nicolò Migheli]

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Bisognerebbe leggere e rileggere fino allo sfinimento La ribellione delle èlite, il tradimento della democrazia di Christopher Lasch, pubblicato nel ‘95 agli albori della presidenza Clinton.

Prestare attenzione ad uno dei tanti passi meritevoli di quel libro: «Tutto ciò non promette niente di buono per la democrazia [la scomparsa della classe media ndr], la prospettiva si fa ancor più cupa se prendiamo la degenerazione del dibattito pubblico. La democrazia esige un vigoroso scambio di idee ed opinioni. Le idee, come la proprietà, hanno bisogno di essere diffuse nella più larga misura possibile. Eppure molti esponenti del ceto “superiore”, come si autoproclamano, sono sempre scettici sulle capacità del cittadino normale di affrontare questioni complesse ed esprimere giudizi critici. Il dibattito democratico, dal loro punto di vista, degenera troppo facilmente in una sorta di rissa in cui la voce della ragione raramente riesce a farsi sentire.»

Un classico diventato libro profetico. Una sorta di Apocalisse dell’Occidente. Queste parole mi ritornavano in mente durante gli ultimi mesi, quando leggevo con scandalo- sì, è la parola giusta- le rivendicazioni oligarchiche del presidente emerito Napolitano, di Scalfari e giù per li rami anche di miei amici che ho sempre considerato sinceri democratici. Una sfiducia profonda nei meccanismi fondanti del nostro sistema sociale, un esaltare la decisione, considerata superiore ad ogni partecipazione, quest’ultima vissuta come orpello inutile, solo come strumento di consenso.

La velocità, il totem a cui sacrificare ogni coesione sociale.  Se la  decisione resterà valore assoluto, è bene dare tutto in mano ad un algoritmo. Sulla velocità è imbattibile. Anche le oligarchie hanno prospettive brevi. Il governo dell’erede di Hall 9000 è un futuro probabile. Il vulnus della nostra democrazia è la rottura del contratto sociale, dell’eredità illuministica, che ha permesso di creare società che aspiravano ad essere ineguali e con pari opportunità per tutti.

Tutto ciò deve essere cancellato, costa e quindi è insostenibile per i bilanci pubblici. Una fabbrica continua di esclusioni, di nuove povertà anche culturali. L’aspetto più evidente è la scomparsa del lavoro, sostituito da miriadi di lavori con contratti differenti che alimentano una continua precarietà in ampie fasce di popolazione. Si sono innescate disparità di genere, territoriali, generazionali, tra chi ha un titolo di studio e chi no, tra immigrati e cittadini del Paese.

Paura del futuro, incapacità a progettarlo. Il risultato è un mondo risentito, stressato da una competizione continua, che dà voce ai sentimenti peggiori: razzismo e ostilità nei confronti di chi possa, anche solo teoricamente, attentare a quel minimo di benessere sopravvissuto.

Le èlite del capitalismo assoluto tentano di riciclarsi. Le èlite transnazionali della globalizzazione finanziaria e commerciale stanno cominciando a perdere riferimenti trentennali. L’elezione di Donald Trump e prima il Brexit, sono segnali pesanti. L’intero Occidente di trova davanti a scadenze elettorali che potrebbero cambiarlo per lungo tempo. Il 4 di dicembre il referendum italiano.

Per quelle èlite non è solo quel che è: accettare o no delle riforme costituzionali. Quella consultazione stata caricata da loro di significati anti- sistema, la vittoria del no viene vissuta come una sorta di Italexit. Nello stesso giorno l’Austria potrebbe trovarsi con un presidente dichiaratamente neo- nazista. Tra il 2017-18 ci saranno elezioni in Olanda, Francia, Germania, Cechia e Danimarca. In tutti questi paesi potrebbero andare al potere o influenzare il governo, partiti di estrema destra anti Europa e xenofobi, come in Polonia e Ungheria. L’Unione Europea sarà diversa. Il primo segno è il telefono muto di Junker.

Trump non chiama. Non potrebbe essere diversamente visto che il neo presidente si circonda di un gabinetto di transizione che ha in disprezzo le istituzioni internazionali. Gli unici interlocutori per lui saranno gli Stati nazione. Mentre la globalizzazione, la finanza, le imprese che de-localizzano vorrebbero abbattere tutte le frontiere, i popoli le vivono come necessità e protezione.

La xenofobia è la risposta irrazionale allo spostamento di grandi masse di migranti e alle esclusioni. Costruire muri, cercare di riportare le imprese in patria restituirà i posti di lavoro perso? No. No perché nel frattempo l’elettronica e la robotica hanno fatto passi da gigante.

Secondo l’Onu nel prossimo futuro scompariranno il 60% dei lavori attuali. Altri li sostituiranno, però l’esperienza degli ultimi cinquant’anni dimostra che i nuovi lavori sono sempre inferiori per numero di addetti rispetto a quelli persi.

A chi andrà la ricchezza prodotta? Quasi sicuramente ai fabbricatori di robot e alle imprese che li useranno. Una società da fine del lavoro come farà a reggersi? Chi potrà consumare i nuovi oggetti? Chi finanzierà quel che resta del welfare? Forse bisognerà riconsiderare il reddito di cittadinanza sotto occhi nuovi, non liquidarlo solo come proposta demagogica. Altrimenti per una società che si vorrebbe democratica si prospetta un tempo molto più difficile di oggi; potrebbe non reggere a tensioni così profonde. Il revival nazi-fascista è già dietro l’angolo.

 

One Comment

  1. Gianfranco Sollai

    Non può esserci globalizzazione senza partecipazione di tutti i popoli e democrazia

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