I sardi hanno sommerso di NO il Presidente della Regione [di Massimo Dadea]

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L’Italia ha bocciato Renzi, la Sardegna ha bocciato i “professori”. I sardi hanno sommerso di NO il Presidente della Regione che, durante la campagna referendaria, si è speso in prima persona per svendere la nostra Autonomia speciale. La differenza è che Renzi si è dimesso, Pigliaru ha invece accolto la bocciatura con una  ineffabile alzata di spalle.

Nel frattempo la giunta e la maggioranza di centro sinistra, sovranista e, pare, indipendentista, hanno iniziato a perdere pezzi e già si preannuncia una serrata contrattazione tra i partiti per definire il preannunciato rimpasto. Tutta la vicenda certifica la distanza che separa il governo regionale dalla Sardegna reale. Un distacco che è proprio di chi è abituato a guardare alla società sarda attraverso le lenti deformanti di un cannocchiale, per di più impugnato al contrario.

La Sardegna, i sardi, con il loro NO, hanno voluto difendere l’Autonomia speciale, o almeno quello che di essa rimane, nella convinzione che questo sia l’unico modo per poter definire un assetto istituzionale più avanzato e più rispondente ai bisogni di autogoverno e di autodeterminazione che si agitano all’interno della società. Ecco perché il risultato del referendum deve rappresentare un punto di partenza e non di arrivo.

Appare oramai ineludibile l’avvio di una nuova fase costituente, con un programma finalizzato ad ammodernare il nostro assetto istituzionale. Intanto la riconferma del titolo V della Costituzione impone alla giunta e al consiglio regionale di dare concreta attuazione all’articolo 15 dello Statuto (così come modificato dal titolo V).

Ad iniziare dalla predisposizione di una legge “fondamentale” Statutaria che consenta di riscrivere parti importanti del nostro Statuto senza doverle contrattare con il Parlamento. Una legge che definisca la forma di governo, il rapporto tra esecutivo e legislativo, la partecipazione dei cittadini attraverso i referendum, l’ineleggibilità e la incompatibilità, il conflitto d’interessi, la partecipazione paritaria di uomini e donne.

Il secondo adempimento è l’approvazione di una nuova legge elettorale che spazzi via la “porcata” voluta nella scorsa legislatura dal PD e dal PDL. Una legge vergognosa studiata per escludere nuove aggregazioni e nuovi movimenti, per marginalizzare le donne. Un artifizio legislativo, o meglio un “trucco”, che nega la rappresentanza ad una parte importante della società sarda.

Il terzo è la riscrittura dello Statuto. Senza impantanarsi nella eterna diatriba su quale sia lo strumento più adatto – la Consulta Statutaria o l’Assemblea costituente – la nuova carta costituzionale  dei sardi deve essere espressione dell’intera società sarda, anche di quella parte che non si sente rappresentata da questo Consiglio regionale.

Il quarto è legato alla necessità di mettere mano alla obsolescenza della legislazione regionale. Un solo esempio. L’organizzazione della Amministrazione regionale, la composizione della giunta, il numero e le competenze degli assessorati, sono normati da una legge che risale alla seconda metà del secolo scorso: la  n. 1 del 1977. Una legge pensata in un’epoca storica in cui non c’erano ancora i computer, non c’era la Rete, non c’era Internet e la televisione era in bianco e nero. Alla faccia della modernità e della innovazione.

Una fase costituente che porti a compimento, attraverso un pieno coinvolgimento delle forze vive della società sarda, poche, indifferibili cose che potrebbero dare un senso ad una legislatura che, sino ad oggi, un senso non l’ha avuto.

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