Una recensione narrativa del libro di Marta Fana [di Alberto Prunetti]

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Lavoroculturale.org 24  novembre 2017.  “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza, 2017) è il libro di Marta Fana uscito il 5 ottobre e già diventato un caso editoriale. «Che bello che riesci a scrivere libri, io infatti devo smetterla di scrivere sui giornali… ci sono troppe cose più serie da dire».

Ricevevo questo messaggio nell’aprile del 2016 e sembra quasi uno scherzo rileggerlo adesso. Me lo mandava dal suo profilo twitter una giovane ricercatrice di economia di cui leggevo di tanto in tanto gli articoli che firmava per «il manifesto». Non sapevo ancora che aveva già messo in difficoltà il ministro Poletti sui numeri del jobs act e che in tv – che non guardo mai – le stavano cucendo addosso il vestito della “ragazza dei numeri” per il suo debunking statistico dei dati del governo.

Mi disse che era una dottoranda italiana che faceva ricerca a Parigi e io colsi l’occasione per chiederle un suo parere su alcune osservazioni relative al rapporto tra classe media e classe lavoratrice. Si trattava, spiegavo, di cose che mi servivano da tradurre in narrativa per un manoscritto a cui stavo lavorando con fatica. Quando riassunsi i punti del mio ragionamento, commentò: «Ma questa è proprio la mia tesi di dottorato!» Mi sorprese questa sintonia, la ringraziai e continuai a leggerla con interesse sui quotidiani, soprattutto quando un suo pezzo epistolare indirizzato a Poletti mi fece fare un balzo sulla seggiola.

Non ebbi più contatti con lei fino a quando non la incontrai a una presentazione del mio libro Amianto a Modena, un anno fa. Complici i tempi stretti e un treno da prendere al volo per tornare a casa in serata, feci un passaggio un po’ troppo rapido sulla coscienza di classe del nuovo precariato, dando per scontato il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé. A quel punto una ragazza che stava al centro della sala, tutta vestita di nero, alzò un ditino e con un sorriso che non sapevo se fosse ferro o fosse piuma mi fece notare che l’avevo fatta troppo facile.

Mi ci vollero dieci minuti abbondanti per recuperare il turno di  parola e capirete subito, perché non fa mai così, che avevo finalmente conosciuto Marta Fana. Col tempo ci siamo incontrati altre volte. La scorsa primavera mi disse che si era addottorata e che stava scrivendo un saggio per Laterza sul lavoro. Aveva tempi stretti di consegna e mi chiese di fare il lettore-cavia. Per una buffa coincidenza, l’anno precedente avevo fatto una cosa simile per Wu Ming 1 e per il suo saggio ibrido uscito per Einaudi, Un viaggio che non promettiamo breve.

Quell’esperienza di lettura mi aveva anche proiettato dentro alle pagine del libro e, come un feedback circolare, mi aveva spinto, nel mio manoscritto in corso d’opera, a inserire nella linea narrativa dell’antagonista un effetto soprannaturale che lo stesso Wu Ming 1 aveva usato nel suo libro e di cui avevamo parlato in una fantomatica triangolazione epistolare apocrifa con H.P. Lovecraft. Accettai, ma dentro di me, anche se a Marta non lo dissi, ero un po’ preoccupato: i tempi di consegna erano troppo brevi, doveva essere una sorta di istant book, genere dove spesso anche i migliori finiscono per farsi superare dagli eventi che non sanno o possono prevedere e i risultati nella maggior parte dei casi sono modesti.

Consigliai comunque a Marta di chiudersi da qualche parte e di scrivere 22 ore al giorno, come aveva fatto con energia da amanuense il mio compagno Wu Ming 1. Nei giorni successivi, seguendo Marta su facebook, mi resi conto che aveva preso alla lettera il mio suggerimento: ogni 24 ore prendeva un treno, ogni 48 un aereo, quasi ogni sera partecipava a un evento pubblico o faceva irruzione in un dibattito o in una tavola rotonda e per non farsi mancare nulla divenne anche la protagonista di una celebre querelle televisiva con Farinetti, che mi spinse a prendere posizione con un articolo pubblicato su Giap.

Quando Marta mi mandò il primo broglio del suo libro, lo aprii con curiosità e, nonostante avessi altre cose da leggere, il preambolo – scritto all’imperfetto con una connotazione che storicizzava eventi della cronaca recente – era così forte, narrativamente forte, che mi obbligò a rimanere attaccato al testo fino all’ultimo capoverso. C’erano refusi, ripetizioni, tutte le cose di un cantiere di scrittura in divenire, ma era molto chiaro e spiazzante. Mi aspettavo tanti numeri e invece Marta si lanciava sull’analisi.

Aveva un approccio agonistico molto deciso, eppure conservava sempre il rigore della ricercatrice e comunicava le sue osservazioni con una lingua mai retorica. Anzi, dove il senso comune del giornalismo economico offriva verità senza pezze d’appoggio, lei le smontava coi numeri.

E quando da lei ci si aspettava le cifre, portava invece storie di lavoratori in carne e ossa, nomi di persone e volti umani, non numeri, che aveva incontrato nel suo pendolarismo tra Parigi e i poli della logistica dello stivale. E tra le righe spuntavano citazioni da De Andrè e cambi di passo stilistici molto intensi. Sembrava un’inchiesta, a tratti, nel suo peregrinare diceva di essere ora a Nogara davanti alla Coca cola o nel parcheggio di un qualche polo della logistica nelle piane nebbiose del settentrione.

Inseriva quelle storie empiriche di lavoratori per smontare le narrazioni dei nuovi Candide che nel capitalismo vedono il migliore dei mondi possibili e non incontrano mai le mani di chi ha lasciato un dito sotto una pressa.

Poi tornava alle statistiche del Jobs Act: prendere un posto di lavoro con un contratto protetto dall’articolo 18 e spezzarlo in tre lavoretti part-time precari faceva muovere le statistiche delle assunzioni e peggiorare la qualità del lavoro. Denunciava anche il progetto di sostituzione di lavori veri con lavoretti mal pagati e vidi nelle sue parole quel che stava accadendo dalle mie parti: a Piombino la politica aveva chiuso l’altoforno e qualcuno diceva che il futuro era il turismo.

Ossia sostituire un lavoro a tempo indeterminato con lavoretti in nero che durano tre mesi, raccattando le briciole cadute dalle tavole di quelli che vanno all’Isola d’Elba. Le diedi qualche feedback e lei mi rimandò dopo qualche settimana il manoscritto con una versione quasi definitiva.

Ovviamente aveva continuato a scrivere dal suo “ufficio”: sull’autobus, nella metro, in fila al banco del check-in o in una stazione fantasma in cui il suo treno era rimasto bloccato, tutte occasioni per fare inchiesta sulle condizioni dei trasporti coi piedi nel mondo reale e non nelle torri d’avorio, dove ci si isola dalla realtà per perdersi in un oceano di numeri, scegliendo solo quelli che confortano le proprie ideologie.

Ormai quello di Marta era un saggio che mordeva la realtà e aggrediva il Capitale nella sua intelligenza di organismo in continuo mutamento: alla forza multicefala del Capitale Marta opponeva passione, dati, scrittura e i piedi per terra che la spostavano continuamente nelle sue ricerche. Faceva vedere come con la crisi i salari si comprimevano mentre i profitti si estendevano (l’opposto di quanto era successo negli anni Sessanta, quando – certo – l’economia era in fase espansiva ma le lotte operaie avevano fatto espandere i salari quasi più dei profitti) e denunciava quella che non era un’aberrazione casuale ma un progetto strategico: la nuova frontiera dello sfruttamento era il lavoro non pagato.

Mi chiesi come avesse fatto in così poco tempo a scrivere un saggio così profondo. Le avevo addirittura consigliato di rielaborare alcuni suoi articoli, perché pensavo che non avesse modo di rispettare i tempi di consegna. Suggerimento che per fortuna lei non ha degnato neanche di prendere in considerazione, scrivendo ogni riga in forma inedita.

Non avevo capito che Marta non stacca mai: se vai con lei in pizzeria, cerca di capire come pagano il pizzaiolo che le prepara la pizza, che contratto ha, come percepisce i rapporti coi datori di lavoro e coi camerieri. Quando va in tivù, si informa sulle truccatrici che le mettono la matita agli occhi.

Non smette mai di fare inchiesta e scrive in piedi mentre fa la fila per montare su un aereo. Il resto è storia recente. Il libro di Marta è uscito il 5 Ottobre e dopo una settimana era già in ristampa. È il libro di cui tutti parlano, perché parla a tutti, agli accademici come alle casalinghe, ai precari del nuovo millennio come agli esodati: parla ai molti che lavorano sfruttati e che non sanno trovare le parole per denunciare lo sfruttamento che patiscono lavorando. Quelle parole che Marta ha trovato e ha scritto con profondità e semplicità.

Una semplicità che si costruisce con l’abilità e la capacità di ascoltare i dannati del lavoro, siano le commesse di Zara o i facchini rumeni della logistica. È un libro che apre orizzonti: non parla solo di fatti, è esso stesso un fatto. Una pietra miliare per ricominciare a usare parole come classe, capitale e operai (in particolare operai del commercio e della logistica), per rilanciare una campagna di alfabetizzazione sul lavoro per chi ormai non capisce neanche più i contratti che firma. Un nuovo tassello per un immaginario working class da riformare.

Detournando Clausewitz, è la continuazione della narrativa working class con altri mezzi: i mezzi della sociologia e dell’economia, assunti da un punto di vista operaio e subalterno. Questo saggio pubblicato da Laterza l’ha scritto la stessa donna che un anno e mezzo fa mi era apparsa come una studentessa stanca di consegnare articoli che voleva scrivere un libro «perché ci sono cose più serie da dire e fare», che si lamentava di non poter usare all’università il temine “classe” senza trovarsi muri di carta davanti. Altri si sarebbero fermati, oppure avrebbero cercato un ambito di ricerca meglio supportato dai professori e dai finanziamenti.

Lei no, ha buttato giù i muri a spallate. Imparando a conoscerla, ho capito che fa sempre così. Intanto il suo libro è entrato anche nella classifica Nielsen dei titoli più venduti di saggistica. Cosa farà adesso Marta? Alla fine, mi son reso conto che non ha senso darle consigli (“chiuditi a scrivere” o “riposati” o “cercati un lavoro” o cose del genere) perché fa sempre di testa sua ed è questa la sua forza. L’unica cosa che posso dirle adesso – che voglia scrivere ancora o fare mille presentazioni in un anno o sfidare a una tavola rotonda il presidente della Cina per dirgli che il socialismo è un’altra cosa – è che quel primo messaggio di un anno e mezzo fa, dove sembrava una timida studentessa, mi fa quasi tenerezza.

Marta ormai è unchained e come a Django possiamo dirle solo, nel frastuono di fiamme e dinamite che l’accompagna tra un treno in ritardo e un aeroporto congestionato dai tagli del personale, di continuare a correre, a studiare, a capire, a scrivere e interpretare e trasformare quel mondo che finora gli economisti hanno fatto camminare secondo i fantasmi che stavano dentro le loro teste, gonfie di ideologie liberiste: finalmente, col suo libro working class, quel mondo Marta lo fa camminare sui propri piedi.

 

 

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