La specialità è l’invisibilità [di Nicolò Migheli]

colonialismo

Sergio Rizzo qualche sera fa ad Otto e mezzo, il programma della 7, si chiedeva del perché una regione come la Sardegna dovesse essere autonoma. Il giornalista del Corriere della Sera comprendeva le ragioni del Sud Tirolo territorio tolto all’Austria, ben diverso da Sardegna e Sicilia. Rizzo insieme a Gian Antonio Stella, da anni scrive contro gli sprechi della spesa pubblica e della politica. Prese di posizione che, grazie alla popolarità dei due giornalisti, sono diventate sentire comune e fondo ideologico per il neo centralismo.

L’assunto è: siccome gli enti locali, tutti, hanno speso troppo e male bisogna abolirli. Ancor di più le regioni autonome. Rizzo non è un giornalista qualsiasi, è organico alla classe dirigente italiana e ne condiziona l’agenda. Certo, non si può chiedere a lui una conoscenza più approfondita del perché della specialità della Sardegna; ai suoi occhi siamo una regione italiana marginale. Però se si chiedesse a molti sardi perché la nostra isola è regione autonoma, c’è da esserne sicuri che pochi troverebbero le giuste ragioni. Anzi gran parte di questi se sottoposti ad una campagna di stampa efficace, ne chiederebbero l’abolizione così come è avvenuto per le province.

Negli stessi giorni a Firenze si sono tenuti i primi Stati Generali della lingua italiana. Si è scoperto che nel mondo la platea di interesse per l’italiano è pari a 250 milioni di persone. Limes intitola una sua edizione speciale: “La lingua è potere”. La stessa rivista intervista il sottosegretario agli esteri Mario Giro, che dichiara che la lingua italiana è strumento geopolitico. Lo è in quanto softpower, lo strumento culturale con il quale si crea consenso e attrazione verso un determinato paese. E’ la lingua che favorisce scambi non solo culturali ma economici. Suscita attrazione al voler essere italiani. Una bella risposta a chi considera la lingua un fatto neutro, che non determina le identità personali e sociali.

Negli stessi giorni la Regione comunica che per la lingua sarda non ci sono più finanziamenti. Si sa, bisogna tagliare. Si comincia con il non finanziarie quello che viene considerato un orpello, una quisquilia folkloristica. Ritorna la domanda, quale è la nostra specialità nei confronti dell’Italia. Cosa siamo? Una espressione geografica, una terra redenta ad occidente, o una nazione senza stato? Non piace l’espressione? Un popolo con caratteristiche uniche va bene? D’altronde cosa ci si potrebbe aspettare da una èlite che non è mai riuscita a diventare classe dirigente, ad interpretare il proprio popolo, a dare senso ad un reale che ne ha estremo bisogno.

Un caso di trahison des clercs da letteratura. Come al solito la fuga. Ci eccitiamo per la grandezza dei Giganti di Mont’e Prama e non riconosciamo la nostra. Perché l’unica misura sono standard economici e non culturali. Siamo appesi ad una modernizzazione immaginaria. Non riusciamo a vedere le nostre potenzialità e quando le intravediamo sono solo motivo di frustrazione perché ci troviamo impotenti nelle capacità di valorizzazione. La conseguenza è la negazione di tutto ciò che ci rende unici. A cominciare dalla lingua per finire con le nostre aree agricole migliori consegnate agli speculatori del sole e del vento. Si insegue una omologazione in un mondo che esalta la differenza. Si magnificano le esportazioni quando non siamo capaci di sostituire le importazioni come nell’agro alimentare. Si vorrebbe essere sempre in un altrove. Fuori dall’isola naturalmente.

Ritornano alla memoria le parole di Frantz Fanon a proposito dell’Africa francese: l’intellettuale colonizzato vorrebbe essere più parigino dei professori della Sorbona. Come tutti i popoli colonizzati oscilliamo tra l’esaltazione e la depressione. Riduciamo le nostre tradizioni a folclore però ci esaltiamo con il mito della costante resistenziale. È vero, abbiamo resistito a molte cose però ci siamo arresi alla tv. Le nostre èlite hanno contrattato intermediazione e dipendenza, provocando in noi il senso dell’incompletezza. Siamo diventati una società del “quasi”. Quasi moderni, quasi sviluppati, quasi un continente. Rispetto a che o che cosa non si sa. Ognuno trovi la sua risposta.

Non a caso siamo una terra che consuma molti psicofarmaci. Il nostro disagio non è solo la modernità, è la non accettazione di quel che siamo. “Noi siamo passati attraverso una lunga serie di dominazioni esterne e abbiamo sofferto l’arroganza di molti tipi di potere, ma, prima di oggi, non era mai capitato che la nostra identità diventasse una cosa da cancellare e da far cadere nell’oblio” Lo scriveva il compianto Placido Cherchi. Il risultato dell’oblio è la nostra invisibilità ai nostri occhi. Vogliamo essere italiani, iperitaliani. Se siamo invisibili a noi stessi come possiamo pretendere che un Rizzo ci veda?

Eppure in questo panorama disperante ci sono segni di mutamento che inducono a pensare che è ancora possibile farcela. Sono imprese giovani, è innovazione nell’ITC e nell’agroalimentare, è fare turismo, artigianato e cultura con l’occhio rivolto alla nostra differenza. In queste realtà ci si riconosce. Nuove sensibilità che avrebbero bisogno di una politica forte, di un progetto che metta in relazione la nostra capacità di fare rete e gli restituisca il senso. Questo però è un altro discorso.

2 Comments

  1. Giuseppe Pulina

    Caro Nicola, la Sardegna è stata semplicemente “mollata” , è uscita dalla cronaca per cui rischia di uscire dalla storia. Tuttavia, rispetto ad altre vicende coloniali da te citate, la nostra Patria (si può ancora usare questo termine senza essere infilzati?) ha subito una retrogressione praticamente unica: acquisita dai Savoia come regno, sopravvissuta fin dentro alla modernità e assorbita nel maggiore (autoproclamato) regno di Italia, mantiene ora una debole e controversa autonomia. Sarebbe il caso, come ho già scritto, che chi di dovere convocasse gli Stamenti e ci si avviasse finalmente su un percorso di autodeterminazione del proprio destino dentro una Europa dei popoli e un’Italia coesa nelle sue identità.

  2. Alessandro Mongili

    Siamo tutti quanti “chi di dovere”. Dobbiamo tutti quanti assumerci le nostre responsabilità, ad iniziare dallo smettere di sostenere formazioni o progetti politici che sono dipendenti da centri decisionali sostanzialmente ostili ai nostri interessi.

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