Nuovi scenari per lo sviluppo rurale [di Benedetto Meloni e Domenica Farinella]

friuli

La nuova centralità della questione rurale. Oggi la questione rurale è tornata  sempre più attuale. Si parla non a caso di Nuova agricoltura e di nuovi contadini, per intendere un modello innovativo di imprese autorganizzate e multifunzionali che si allontanano dall’agroin­dustria per differenziarsi e produrre qualità, ma anche beni collettivi in stretta relazione ai luoghi di azione, considerati come sede (ethos) del proprio mestiere. Inoltre si assiste all’emergere di nuove dinamiche di sviluppo rurale, che necessitano di differenti politiche territoriali, ma anche di metodi e strumenti per l’analisi dei processi. Diventa così importante rivolgere l’attenzione al ruolo dei sistemi locali e delle filiere territoriali, alla centralità di una governance territoriale e della produzione di beni collettivi, all’importanza dei saperi locali e del capitale relazionale, alla ridefinizione dei confini tra rurale ed urbano, alla ruralità come spazio di azione per politiche integrate, alle nuove forme di multifunzionalità agricola.

La questione rurale era stata centrale anche negli anni settanta, in cui si era assistito ad una vivace stagione di studi e ricerche sull’evoluzione del settore agricolo, con un dinamico dibattito interdisciplinare, volto ad individuare i meccanismi generali di sviluppo e la mutevole composizione sociale, con particolare attenzione al ruolo dell’azienda contadina (si pensi, ad esempio, agli studi di Daneo, Barberis e Siesto, Mottura e Pugliese, Bertolini e Meloni). Tuttavia, dopo questa stagione,  l’agricoltura è uscita per lungo tempo dalle attenzioni degli studiosi dello sviluppo. Scarsa attenzione le è stata dedicata persino da quell’ondata di ricerche empiriche e di riflessioni teoriche che nascono a partire dalla metà degli anni ‘70 (con la scoperta del modello distrettuale), e che un decennio più tardi costituiranno il paradigma dello sviluppo locale. Lo stesso Becattini (2001), che può essere considerato come uno degli ispiratori di questo filone di studi, sosteneva l’impossibilità di assimilare l’organizzazione dell’azienda agricola alla forma distrettuale.

La trasposizione del paradigma distrettuale al settore agricolo pone per Becattini non pochi problemi: sarebbero proprio le “condizioni” che favoriscono i distretti industriali a mancare nell’impresa agricola, in quanto questa è protesa esclusivamente agli obiettivi interni  e all’utilizzo razionale e completo della sua forza-lavoro. La realizzazione dell’autosufficienza aziendale comporta cioè la necessità di integrare verticalmente all’interno dell’azienda stessa le operazioni produttive e non permette quella suddivisione progressiva del lavoro e del processo produttivo (o dei processi produttivi) in fasi distinte che è alla base della costituzione spaziale dei distretti. In questo senso, il modello di distrettosarebbe possibile solo in quelle zone e settori dove la produzione sia scomponibile in fasi produttive, attorno alle quali si possono individuare processi complementari e strumentali.

Va però sottolineato che, pur riconoscendo una serie di differenze tra le zone di agricoltura di qualità e il distretto industriale, Becattini osserva che alcune ricerche degli economisti agrari, hanno precorso, spesso inconsapevolmente, l’approccio distrettuale. In questo senso, il territorio agricolo viene inteso come una forma di proto-distrettualità, più antica di quella industriale, proprio per il forte legame che tradizionalmente lega le imprese del settore primario con il territorio e la società locale. Il rapporto tra agricoltura e sviluppo, rimasto circoscritto negli ultimi anni all’interno dell’ambito degli studi della sociologia rurale e soprattutto della economia rurale, solo di recente è diventato progressivamente un tema interdisciplinare tra coloro che si occupano di sviluppo locale. I mutamenti recenti hanno fatto emergere alcune dimensioni di sviluppo, anche istituzionali, che cambiano profondamente il quadro delineato dall’affermazione di Becattini.

La questione rurale è tornata più che mai attuale e lo sviluppo rurale costituisce oggi nuovamente un punto di osservazione privilegiato per coglierne gli snodi problematici, le dimensioni del mutamento e dell’innovazione economica e sociale, sia a livello locale che globale.

La nascita dello sviluppo rurale è da attribuire, in primo luogo, alla “base” del mondo rurale, alle sue pratiche e dinamiche interne. Le politiche di sviluppo rurale sono nate in un secondo momento, come conseguenza di questa “scoperta”. I fattori di mutamento, l’emergere di nuove pratiche di gestione e produzione non sono infatti una semplice conseguenza del cambiamento della normativa e delle politiche in generale, considerato che le aree rurali non possono essere semplicisticamente intese come recettori passivi della legislazione elaborata ai diversi livelli istituzionali. Piuttosto le modifiche in campo normativo cercano di guidare e indirizzare processi già in atto, e solo parzialmente riescono a determinarli.

Bisogna quindi adottare  nell’analisi un’ottica sistemica, che sia effettivamente territoriale piuttosto che settoriale e categoriale. Ciò significa superare quelle dicotomie che hanno finito per impoverire il discorso sociologico e che risultano sempre più inadeguate alla descrizione dell’attuale contesto socio-economico. Ci riferiamo in particolare, alle dicotomie “urbano/rurale” e “città/campagna”, che si affiancano a quelle di “comunità/società” e “tradizionale/moderno”, come pure alla riduttiva coincidenza tra spazio rurale e spazio agricolo, tra azienda imprenditoriale ed azienda contadina. In breve, oggi, più che in termini di contrapposizione, lo spazio è analizzabile lungo un continuum che va dall’urbano al rurale, in cui sono possibili combinazioni differenziate, che comportano modelli insediativi variabili e usi del territorio che investono, accanto ai residenti, altre popolazioni che a vario titolo gravitano attorno agli spazi rurali ed urbani.

Pure la coincidenza tra spazio rurale e spazio agricolo rischia di essere fuorviante: da un lato l’agricoltura investe oggi in vario modo anche la città e molte imprese agricole scelgono l’area periurbana per avviare le proprie produzioni; dall’altro, nelle aree rurali, non necessariamente l’agricoltura è il settore che garantisce la maggiore fonte di reddito o di occupazione, anche se essa è sicuramente un’attività complementare ed integrativa rispetto ad altre, e impegna larga parte della popolazione rurale che, nonostante tutto, mantiene sempre un qualche piede nella campagna. È questo un dato importante perché proprio su tali reti è possibile generare forme economiche alternative, che oltre a produrre valore sul territorio, vi promuovono relazioni, rappresentazioni ed identità, stili di vita e di consumo. In questo modo il sapere locale può riprodursi e all’interno delle comunità locali attraverso le pratiche. Analogamente, non è corretta la coincidenza tra azienda imprenditoriale, esclusivamente orientata alla redditività di mercato ed all’efficienza produttiva, come è intesa nei termini dell’economia classica, e quella contadina, che basa la sua forza sul lavoro vivo e diretto dei diversi membri della famiglia.

Quest’ultima, analizzata secondo i parametri economicisti risulterebbe un’impresa improduttiva e fuori mercato; al contrario, come sottolinea anche Van Der Ploeg (2008),  riesce a “sopravvivere”, nella misura in cui si regge su una serie di attività e di scambi non direttamente monetizzabili, perché orientati al circuito dell’autoconsumo, dell’autoproduzione, dello scambio reciproco, contribuendo alla produzione di valore aggiunto.


Le nuove dinamiche di sviluppo rurale.Come si è sottolineato, sono in atto, nelle agricolture europee, alcuni fattori di mutamento che riguardano la “base” del mondo rurale e le sue pratiche. Tali fattori caratterizzano la fase di evoluzione e transizione che prende avvio a partire dagli anni novanta, in seguito alla crisi del modello di modernizzazione agricola. Essi sono: la riemersione del modello contadino, l’affermarsi della multifunzionalità agricola, il nuovo rapporto tra agricoltura e specificità dei luoghi, l’evoluzione del rapporto rurale-urbano e le nuove pratiche di consumo, maggiormente attente alla sostenibilità ambientale. Vediamoli brevemente.

1.La rinascita del modello contadino, a partire dal concetto di Nuovi contadini su cui insiste Van Der Ploeg (2008), rompe con lo schema dell’agroindustria attraverso un processo di differenziazione che favorisce quelle imprese autorganizzate, che massimizzano la resa del capitale lavoro e ecologico, isolando così il circuito della riproduzione dalle logiche del mercato. Non si tratta solo di una semplice riemersione del modello contadino in termini più adatti al contesto, ma si potrebbe forse parlare di un vero e proprio “rinascimento” che,  in un orizzonte temporale ampio, investe le modalità culturali con le quale si ridefinisce il rapporto tra produzione-territorio-consumo. Tutto ciò rafforzato dal riaffacciarsi in agricoltura delle giovani generazioni, che assicurano il ricambio  generazionale, anche attraverso modelli produttivi emergenti e innovativi, come ha messo in evidenza Cersosimo (2012) in una sua recente indagine.

2.L’affermarsi di un ruolo multifunzionale dell’agricoltura si articola nella presenza congiunta delle commodity, i beni tipici delle produzioni agricole, e soprattutto delle non commodity prodotte simultaneamente dall’agricoltura. Le esternalità generate dall’agricoltura si caratterizzano come beni collettivi (paesaggio, qualità delle acque, biodiversità, cultura e ricreazione). La focalizzazione per l’agricoltura del rapporto tra  luoghi, allocazione di  fattori naturali e storici, assetti originari dell’organizzazione delle campagne, evidenza l’esistenza di specificità locali non solo di tipo agroalimentare ed enogastronomico e di saperi connessi che si strutturano come vantaggi  comparati, capaci di migliorare la competitività del territorio. Questo aspetto chiama in causa anche alcune caratteristiche dei distretti agroalimentari quali il collegamento organizzativo tra le imprese, quello socio-istituzionale tra imprese e società ed enti locali, il tutto “cementato” dalla presenza di un senso di appartenenza e di identità, fondato sulla condivisione dei valori e della cultura  locali, che crea le condizioni per produrre, scambio di informazioni, relazioni fiduciarie tra imprese, persone, istituzioni e favorisce i processi di apprendimento e innovazione.

3.Le sinergie interne al rurale si accompagnano all’evoluzione del rapporto tra rurale e urbano. Il ruolo dello sviluppo rurale in Europa è fondamentale anche per le aree urbane, perché dal mondo rurale emergono le risposte a una serie di richieste provenienti da tutta la società (beni ambientali e cibi più sani, di qualità e sicuri), che rafforzano nuovi legami tra la città e la campagna, anche attraverso lo sviluppo di varie forme di filiere corte e nested market (mercati “nidificati”).

4.Nel rapporto tra produzione e consumo si assiste alla centralità crescente della relazione con i mercati locali, della distribuzione tramite filiere corte, della costruzione sociale di pratiche di consumo sostenibile come nel caso dei Gruppi di Acquisto Solidale (GAS). Si tratta di comportamenti e strategie che sono connesse al  cambiamento dei modelli di consumo, in particolare alle pratiche “alternative” al circuito distributivo dominante. Parallelamente emergono nuovi modelli di  produzione agricola, più sostenibili, ecologici e durevoli, che integrano la riproduzione dell’impresa contadina con la tutela della biodiversità, la pluralità delle culture produttive, le reti di co-produzione e d’impresa, i nuovi rapporti col territorio (come nel caso dell’agricoltura sociale).

L’insieme di questi fattori e comportamenti costituiscono un contributo rilevante al nuovo paradigma di sviluppo rurale  che è territorialmente fondato, in cui sono centrali la rivitalizzazione delle aree rurali e l’affermarsi di regimi alimentari diversi. Inoltre permettono ai produttori di conservare una parte maggiore del valore aggiunto prodotto, diminuendo la loro dipendenza da quegli attori economici più forti (come gli intermediari della distribuzione), che nelle filiere lunghe e nella grande distribuzione riescono ad appropriarsi della maggior parte del valore e causano un impoverimento dei produttori agricoli.

C’è poi un ulteriore elemento delle dimensioni del mutamento e fa riferimento al ruolo dell’agricoltura a livello globale: i movimenti contadini in America latina e alcune esperienze di agricoltura contadina in Africa testimoniano della rinnovata ricerca di modelli di sviluppo alternativi, dove la relazione terra-produzione-consumo pone nuove sfide interpretative alle scienze sociali. Tra i temi di studio si segnalano i sistemi territoriali del cibo tra filiere corte e globalizzazione, le cause della fame e della crisi del sistema agroalimentare a livello globale, i legami tra investimenti agricoli e fenomeni di land grabbing, che riguardano non soltanto il “furto” della terra da parte di grandi multinazionali, ma l’impoverimento e la colonizzazione di interi sistemi agricoli di zone più deboli.

Quali politiche? In questo quadro, le politiche locali e sovralocali chiamano i territori  a progettare percorsi di sviluppo rurale, attraverso cui garantire nuove forme di coesione e inclusione sociale, in cui integrazione e partecipazione diretta degli attori locali costituiscono una caratteristica essenziale. Diventano caratteristiche essenziali delle azioni di sviluppo il coinvolgimento e la partecipazione diretta degli attori locali. L’ancoraggio delle politiche ai luoghi ed alle comunità che li abitano, permette di porre al centro dei processi produttivi quelle specificità dei territori uniche e “non riproducibili” (siano esse prodotti, competenze, saperi locali, tecniche, assetti istituzionali, culture, valori) che individuano dei veri e propri vantaggi comparati naturali e permettono di competere sul mercato globale attraverso una via “alta” allo sviluppo (fondata sui concetti di “distinzione” e “differenziazione”), piuttosto che seguendo una via “bassa” (consistente nella compressione dei costi di produzione e nello sfruttamento intensivo della forza lavoro e della terra).

Ma la progettazione dello sviluppo locale non deve essere soltanto orientata alla “messa a valore” del locale per la competizione sul mercato globale, deve avvenire anche all’interno di un percorso che diminuisce la dipendenza dei territori da quest’ultimo. Questo significa valorizzare le variegate forme di resilienza che stanno emergendo nei territori, proteggerne la varietà istituzionale e naturale (biodiversità), preservarne le risorse ambientali e sociali, con la consapevolezza che esse rappresentano dei beni collettivi locali da riprodurre e non consumare opportunisticamente. Inoltre, significa pensare rapporti alternativi tra produzione e consumo, orientati a meccanismi di localizzazione, autoproduzione e autoconsumo, potenziando quelle economie relazionali, non necessariamente rivolte allo scambio di mercato, ma basate sulla fiducia, sulla reciprocità e sull’importanza assegnata agli aspetti simbolici e relazionali delle transazioni.

Questi temi sono approfonditi, con particolare attenzione al caso della Sardegna, nel volume “Sviluppo rurale alla prova”, a cura di Benedetto Meloni e Domenica Farinella, 2013, Torino, Rosenberg e Sellier

 http://www.rosenbergesellier.it/Products/macro_d.lasso?nav=n5&id_macro=2&keyID=488

 Bibliografia

Becattini G., 2001, Metafore e vecchi strumenti. Ovvero: della difficoltà d’introdurre “il territorio” nell’analisi socioeconomica, in Becattini G. et al (a cura di), Il caleidoscopio dello sviluppo locale. Trasformazioni economiche nell’Italia contemporanea, Torino, Rosenberg & Sellier, pp. 9-27

Cersosimo D., 2012, Tracce di futuro. Un’indagine esplorativa sui giovani Coldiretti, Roma, Donzelli Editore.

van der Ploeg J.D, 2008, trad.it I nuovi contadini, Roma, Donzelli Editore.

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