Lo Piparo contro Lo Piparo [di Silvano Tagliagambe]

Orgosolo

In un articolo pubblicato il 30 maggio dal Corriere della Sera e ripreso da questo sito Franco Lo Piparo “svela” alcuni fatti che, a suo giudizio, orientano verso l’idea  che a favore di Gramsci, una volta condannato, si sia formata una specie di rete protettiva governata direttamente da Mussolini. Tra questi la circostanza che egli possa disporre di una cella tutta sua, piuttosto grande, che gli sia concesso di usare carta, penna e libri diversi da quelli della biblioteca del carcere e che dodici dei trentatre  quaderni a noi pervenuti siano stati interamente redatti nelle cliniche in cui fu ricoverato a partire dal dicembre 1933 fino alla morte, nell’aprile del 1937, prima a Formia e poi “nella costosa clinica romana Quisisana”.

Da qui l’invito a riesaminare i rapporti tra Gramsci e il fascismo senza pregiudizi ideologici e a rititolare, per correttezza filologica, la sua raccolta di appunto, testi e note Quaderni del carcere e delle cliniche.

Alla fine del mese di aprile, nell’ambito del ciclo “Omaggio a Gramsci” Lo Piparo è stato invitato a Cagliari per parlare di un suo libro di due anni fa di sicuro interesse, Il professor Gramsci e Wittgenstein, nel quale, riprendendo e approfondendo un filone di ricerche inaugurato dal premio Nobel per l’economia nel 1998 Amartya Sen, propone, con buoni argomenti, l’ipotesi che Gramsci, per il tramite di  Sraffa, abbia inciso in modo significativo sulla svolta epistemologica che indusse uno dei più grandi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein, a passare dalla teoria del linguaggio esposta nel suo Tractatus logico-philosophicus, pubblicato in lingua tedesca nel 1921 e in inglese l’anno successivo, alla prospettiva che è al centro delle Ricerche filosofiche, pubblicate postume nel 1953.

La funzione di Sraffa in questo mutamento di prospettiva è posta in primo piano dallo stesso Wittgenstein, il quale nella prima versione dattiloscritta delle Ricerche, che porta la data agosto 1938, gli rivolge un caloroso ringraziamento in termini poi ripresi dall’edizione a stampa: “debbo gratitudine alla critica che un insegnante di economia nazionale di questa università, P. Sraffa, ha incessantemente esercitato sul mio pensiero. A questo stimolo debbo i più fecondi pensieri qui contenuti”.

Dato che Sraffa poco sapeva di filosofia del linguaggio e nulla ha mai pubblicato su questo tema Lo Piparo suppone che a far da attivo mediatore tra i due e a stimolarne il dialogo sia stato Gramsci e che alla base del “riorientamento gestaltico” operato da Wittgenstein nella seconda fase della sua attività filosofica vi sia la frequenza a distanza con il pensiero dell’autore dei Quaderni dal carcere tramite Sraffa. A ulteriore sostegno di questa ipotesi vi è anche la contiguità temporale del Quaderno 29 di Gramsci, dedicato alla nozione di grammatica (aprile 1935) e della stesura da parte di Wittgenstein delle Ricerche (prima versione manoscritta 1936).

In maniera sorprendente per chi lo aveva invitato Lo Piparo a Cagliari ha parlato di tutto fuorché del suo libro che doveva costituire il tema dell’incontro, nonostante le sollecitazioni che gli sono pervenute, nel corso della presentazione e  del dibattito, a parlare, ad esempio, del ruolo che la prassi, correttamente interpretata, ha nella formulazione dell’idea di «gioco linguistico», che è al centro delle Ricerche filosofiche. A dirlo è lo steso Wittgenstein, il quale nel § 34 delle sue Osservazioni sopra il fondamenti della matematica, del 1943-44, scrive: “Per descrivere il fenomeno del linguaggio si deve descrivere una praxis, non un processo eccezionale qualche che sia”. E in una delle sue ultime riflessioni del 1950 egli annota che parole e relativi concetti non sono rispecchiamenti del mondo vissuto e immagini, ma apparati formali, usi e pratiche in cui e con cui il mondo viene vissuto.

Del resto già indicativi ed esaustivi in questo senso sono passi delle Ricerche come il seguente: “Il termine «gioco linguistico» ha lo scopo di mettere in evidenza il fatto che il parlare il linguaggio è una parte di un’attività o di una forma di vita” (§23). L’idea che nei giochi linguistici il linguaggio sia parte non separabile di una praxis non linguistica è al centro delle riflessioni sviluppate nel Quaderno 20, che riprende e approfondisce in modo originale i problemi nei quali il giovane Gramsci si era precocemente imbattuto nei corsi di Glottologia dell’università di Torino del suo maestro Matteo Giulio Bartoli.

Il Lo Piparo de Il professor Gramsci e Wittenstein sottolineava, secondo me a ragione, l’incidenza che queste idee di Gramsci, pervenute a Wittgenstein attraverso Sraffa, hanno avuto nella svolta epistemologica dell’autore del Tractatus. Ora, a distanza di due anni, il Lo Piparo dell’articolo sul ‘Corriere della sera’ attira la nostra attenzione sul fatto che il Quaderno 29, che è alla base di questo influsso, essendo del 1935 in realtà non è stato scritto in carcere, ma nella clinica Cusumano, a Formia, dove il suo autore fu ricoverato a partire dal dicembre 1933 fino al 24 agosto del 1935, quando (udite udite) venne trasferito in una clinica “frequentata dalla buona borghesia romana”, la Quisisana.

Benissimo, ne prendiamo atto: ma ciò toglie in qualche modo rilevanza all’importanza delle riflessioni contenute in quel Quaderno e ridimensiona l’incidenza che esse ebbero sul pensiero di Wittegenstein? E l’influsso del criterio della praxis sulla nozione di «gioco linguistico» viene forse sminuito per il fatto  che le finestre della stanza in cui Gramsci appuntava i suoi pensieri non erano più protette da grate e inferriate di sicurezza?

Insomma quale dei due Lo Piparo ha ragione? Quello che sottolinea la profondità e l’attualità del pensiero di Gramsci e che invita a ripensare in una chiave diversa da quella usuale il criterio della praxis? Quello che lega questo criterio al fatto che un gioco linguistico non è totalmente determinato dalle regole, in quanto in esso ha una parte determinante il consenso dato dai giocatori alle regole medesime, e quindi la loro fiducia e/o credenza nella legittimità delle norme che stanno seguendo, per cui l’assenza del dubbio fa parte dell’essenza del gioco linguistico?

Quello che, di conseguenza sottolinea l’importanza dell’indagine gramsciana relativa alle modalità di formazione del senso comune, in cui hanno una parte decisiva le certezze, tenute al riparo dal dubbio, la fiducia e la forma di vita degli attori del gioco linguistico? Quello che conclude questa sua analisi sottolineando che “praxis qui non può avere altro significato che quello gramsciano di praxis propria di una formazione socio-culturale ossia di una comune forma di vita”, indicando una prospettiva interessante di riflessione?

O invece il Lo Piparo impegnato a misurare i metri quadri della cella nella quale questi pensieri sono stati elaborati e seriamente turbato dal fatto che il loro sviluppo e approfondimento si sia compiuto altrove, nelle camere di due cliniche? Al Lo Piparo che si appassiona di questi aspetti al punto da considerarli  “un capitolo fondamentale della storia d’Italia” da esplorare perché, a settantanove anni dalla morte di Gramsci, è giunto ormai il tempo di farlo vorrei ricordare la lezione di Michail Bulgakov e del suo straordinario romanzo Master i Margarita,  cui egli lavorò dal 1928 fino al 1940, anno della sua morte, e che uscì nella rivista “Moskva” tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967.

Quest’opera  può infatti essere legittimamente considerata una delle più belle e incisive rappresentazioni che ci siano mai state offerte della forza creativa e dell’efficacia della cultura, del dominio peculiare della letteratura, grazie alle quali il protagonista, il Maestro, riesce a superare l’angustia spaziale e, soprattutto, spirituale della Mosca del suo tempo e a librarsi nell’infinita ampiezza e libertà dello spazio senza confini dei mondi possibili e del fantastico, che nel romanzo prende forma e consistenza grazie alla dimensione introdottavi da Satana-Woland e dai suoi coadiutori.

Di questo, fossi in Lo Piparo, mi preoccuperei: dell’angustia spirituale e culturale del nostro tempo e degli insegnamenti, tuttora attuali, che ci possono venire, per superarla, da un uomo che ha trascorso quasi undici anni della sua vita, gli ultimi, nello spazio fisico angusto della cella di una prigione prima e poi delle camere, concediamolo pure, un poco più ampie, di due cliniche dopo.

Personalmente, infatti, continuo a pensare che la storia d’Italia debba oggi fare i conti soprattutto con la crescente contrazione degli spazi della politica, della democrazia e della cultura, dimostrata anche dal fatto che ci appassioniamo di quisquilie  e sembriamo sempre più attratti da quelle che Totò chiamava “bazzeccole e pinzillacchere”, irridendole giustamente, anziché dai tanti e ben più gravi problemi che rischiano di minare alla base i principi della nostra convivenza sociale. Questo sì è “il capitolo fondamentale della storia d’Italia” di cui sarebbe il caso di appassionarsi seriamente.

 

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