Gramsci “maestro” di Wittgenstein [di Silvano Tagliagambe]

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Le ragioni che spinsero uno dei più grandi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein, a compiere una significativa svolta epistemologica dalla teoria del linguaggio esposta nel Tractatus logico-philosophicus, pubblicato in lingua tedesca nel 1921 e in inglese l’anno successivo, alla prospettiva che è al centro delle Ricerche filosofiche, pubblicate postume nel 1953, sono oggetto di un denso dibattito che dura tuttora.

Al centro della discussione c’è anche il ruolo che in questa svolta ebbe Piero Sraffa, che nel 1925 vinse giovanissimo, a soli 27 anni, la cattedra di Economia politica all’università di Cagliari anche in virtù dei suoi solidi collegamenti scientifici internazionali soprattutto con l’ambiente culturale inglese e con Keynes, di cui tradusse l’opera A Tract on Monetary Reform, uscita in edizione italiana da Treves, sempre nel 1925, con il titolo La Riforma monetaria.

La funzione di Sraffa è posta in primo piano dallo stesso Wittgenstein, il quale nella prima versione dattiloscritta delle Ricerche, che porta la data agosto 1938, gli rivolge un caloroso ringraziamento in termini poi ripresi dall’edizione a stampa: “debbo gratitudine alla critica che un insegnante di economia nazionale di questa università, P. Sraffa, ha incessantemente esercitato sul mio pensiero. A questo stimolo debbo i più fecondi pensieri qui contenuti”.

Questo riconoscimento, tutt’altro che usuale nell’autore del Tractatus,  solitamente molto avaro nel riconoscere i propri debiti scientifici, è giustificato dalle numerose conversazioni private tra i due, dopo le quali, secondo una confidenza ricevuta dal filosofo finlandese Georg Henrik von Wright direttamente da  Wittgenstein, quest’ultimo si sentiva “come un albero al quale fossero stati tagliati tutti i rami”, immagine che evoca l’effetto vitalizzante e di rinascita provocata dalla potatura degli alberi. La cosa strana è che Sraffa poco sapeva di filosofia del linguaggio e nulla ha mai pubblicato su questo tema.

Per spiegare l’arcano Franco Lo Piparo, in un denso libretto pubblicato due anni fa da Donzelli con il titolo Il professor Gramsci e Wittgenstein, avanza l’ipotesi che a far da attivo mediatore tra i due e a stimolarne il dialogo sia stato Gramsci e che alla base del “riorientamento gestaltico” operato da Wittgenstein nella seconda fase della sua attività filosofica, vi sia la frequenza a distanza con il pensiero dell’autore dei Quaderni dal carcere tramite Sraffa.

Questa pista era già stata aperta dal premio Nobel per l’economia nel 1998 Amartya Sen il quale pensa che nei suoi incontri con Wittgenstein Sraffa si sia avvalso dei contenuti delle discussioni filosofico-linguistiche avute a Torino con Gramsci nella redazione dell’«Ordine Nuovo». Lo Piparo aggiunge di suo a questa ricostruzione storica l’idea che l’economista italiano, amico di Tania, la cognata di Gramsci, dalla quale riceveva regolarmente le lettere dal carcera a lei indirizzate, abbia portato all’attenzione dell’amico a Cambridge i più recenti percorsi di pensiero e i risultati delle ricerche del grande pensatore sardo esposti nel Quaderni.

Gli indizi che Sraffa venisse subito a conoscenza del contenuto di questi ultimi sono così tanti da costituire una prova ben fondata. Ecco quindi che acquista un significato difficile da sottovalutare la seguente cronologia: il primo manoscritto delle Ricerche è datato novembre 1936. Si presume che il testo sia stato redatto nel corso degli anni 1935-36. Il Quaderno 29 di Gramsci, dedicato al linguaggio e alla grammatica, è stato scritto in un breve lasso di tempo, probabilmente nell’aprile del 1935.

La successione temporale dei manoscritti su questo tema di Gramsci (1935) e Wittgenstein (1936) autorizza a pensare che Sraffa abbia potuto leggere e, forse, trascrivere il piccolo quaderno di dieci pagine dell’amico rinchiuso in carcere quasi in tempo reale e che ne abbia potuto usare il contenuto come base per le discussioni con Wittgenstein.

A sostegno di questa ipotesi non c’è la sola concomitanza nei tempi. Ci sono fatti ben precisi quali la convergenza su temi significativi tra i due pensatori, soprattutto sull’idea che vita, senso e grammatica siano realtà coestensive, per cui risulta difficile fuoriuscire dalla grammaticalità, che definisce una cultura, una prassi e una forma di vita più che una lingua. La novità di maggior rilievo dell’approccio di Gramsci nel Quaderno 29 è il passaggio dal linguaggio come oggetto teorico autonomo, regolato dalla grammatica, alla coppia inscindibile lingua-parlanti.

Questi ultimi non sono semplici esecutori di regole, ma parti costitutive attive delle regole medesime, in quanto le trasformano in norme, e così facendo non stanno fuori dalle lingue ma diventano il motore della grammatica.

Anche in questo aspetto della riflessione gramsciana, come in tutti gli altri, è centrale il concetto di praxis, che non a caso entra nel lessico teorico di Wittgenstein a partire dal 1936 ed è alla base delle nozioni e dei termini su cui sono incardinate le Ricerche filosofiche: “gioco linguistico” e “forma di vita”. Nella sua opera il filosofo austriaco fornisce in proposito la seguente definizione: “chiamerò «gioco linguistico» la totalità: il linguaggio e le attività con le quali il linguaggio è intrecciato”. E ancora, a proposito della relazione tra le due nozioni: “il termine «gioco linguistico» ha lo scopo di mettere in evidenza il fatto che il parlare il linguaggio è una parte di un’attività o di una forma di vita”.

Queste definizioni risultano in perfetta sintonia con l’idea di Gramsci della non autonomia e della non strumentalità dell’universo delle parole, così forte da stimolare in lui l’esigenza di estendere la grammatica della parola «linguaggio» in modo da includervi l’insieme dei valori e delle attitudini di una praxis e di una civiltà nel suo complesso.

Ecco perché la convergenza, secondo Lo Piparo tutt’altro che casuale, tra Gramsci e Wittgenstein può essere sintetizzata dicendo che per entrambi risulta centrale la convinzione che nei giochi linguistici il linguaggio costituisca una parte non separabile di una praxis non linguistica. È proprio in virtù di un simile legame che questi giochi non si reggono sulle loro regole, ma sul consenso dato a esse dai giocatori, cioè sulla fiducia e/o credenza dei giocatori in un fondamentale pilastro non-linguistico: la legittimità delle regole con cui stanno giocando. “Seguire la regola” presuppone quindi credere che la forma di vita che genera e giustifica quella regola ed è alla base di essa sia al riparo di ogni dubbio.

Queste convinzioni, tenute al riparo da qualsiasi incertezza riguardo la loro legittimità ed efficacia, formano il senso comune e la forma di vita degli attori del gioco linguistico. Gramsci era approdato, prima di Witggenstein, a questa conclusione, come dimostra questo passo dei Quaderni: Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o unomini-collettivi” (Q. 11, 1932-1933, p. 1376).

Ed è per questo che Lo Piparo, che verrà a presentare questo suo libro a Cagliari alla Fondazione di Sardegna giovedi 28 aprile alle 18:00, nel titolo ha voluto fare un esplicito riferimento all’influsso che il “professor Gramsci” ha esercitato su Wittgenestein.

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