Perché direi “si” al Brexit? Un’opinione provocatoria a pochi giorni dal voto [di Nicola Ortu]

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Premetto da subito di essere un europeista convinto: ho preso parte a numerose iniziative europee, non ultima  un periodo di volontariato per la campagna anti Brexit, a Londra. Durante questi mesi ho ascoltato entrambi gli schieramenti, ed ho sviluppato un’opinione che, per quanto radicale, potrebbe portare benefici ad entrambe le parti.

In una serie britannica di satira politica risalente agli anni ottanta, “Yes, Minister”, un particolare episodio fa ancora scalpore per la sua attualità. In una conversazione fra un ministro del governo di Sua Maestà ed un alto funzionario britannico, si dice che il Regno Unito ha avuto gli stessi obiettivi di politica estera per almeno gli ultimi cinquecento anni: creare una “Europa disunita”. Fra ironia e realtà, i pilastri della politica comunitaria britannica sono stati ben delineati da Richard G. Whitman nell’ultimo numero della rivista International Affairs:

1) mantenere ed ampliare il mercato unico

2) aumentare il numero di stati membri presenti all’interno dell’Unione

3) fermare o quantomeno rallentare il più possibile la formazione di un’unione politica

4) fare in modo che Londra mantenga un ruolo decisionale nelle decisioni comunitarie a discapito dell’asse Parigi – Berlino.

Recentemente ho avuto modo di presenziare a numerosi eventi di ricerca e propaganda politica che si rifanno all’altra sponda ideologica del Brexit, ossia, le motivazioni degli euroscettici, sempre più numerosi in Inghilterra. Proprio nei giorni scorsi, mi ha scosso un evento organizzato dal Bruges Group – si definiscono un Think Tank neoliberista che si batte contro il federalismo europeo e la partecipazione britannica in un singolo stato europeo. Oratori della serata, due membri del parlamento britannico e Lord David Owen, ex segretario di stato e socialdemocratico peculiarmente a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

In un’atmosfera da ideologia risalente più ai tempi della guerra fredda che al ventunesimo secolo, vengo accolto in una sala dopo aver pagato dieci sterline per entrare.  Mi accomodo nelle prime file, pronto ad ascoltare. Mi guardo intorno: sono circondato da una gremita platea di anziani euroscettici e pochi giovanotti perbene in giacca e cravatta che hanno l’aria di non saper bene dove e perché si trovino lì, accompagnati dalle loro madri, e tutti facenti orgogliosamente vanto di grandi spille di latta che recitano la scritta “vote leave” (vota per uscire).

Di fronte a me, sul podio, quasi come una divinità da venerare, una fotografia in bianco e nero autografata di Margaret Thatcher, la lady di ferro, da cui il Think Thank trae ispirazione. In questa atmosfera surreale, sento parlare per un’ora di disegni europeisti volti a rubare la sovranità britannica, di burocrati che in quel di Bruxelles non farebbero altro che inculcare una narrativa deviata nelle menti dei funzionari britannici (il Community Method) e di un’Europa come nemico della gloriosa storia britannica. Lascio la sala per le otto, e mi infilo in un pub, gioca la Nazionale italiana agli europei di Francia.

Trasudano paura, i nazionalisti britannici, ma forse non sanno nemmeno loro per quale motivo. Non contano che, cercando di distruggere l’Unione Europea, potrebbero distruggere l’unione nazionale, con gli indipendentisti scozzesi già pronti a scendere per le strade in caso si esca dall’UE, e richiedere un nuovo referendum.

Attacchi ideologici di un gran disegno federalista aspettano chiunque abbia solo per un attimo intenzione di votare “remain” il 23 giugno, conditi da inneggi alla paura di un collasso economico dell’Eurozona, fra cui, quasi profeticamente, dicono che l’Italia potrebbe collassare sotto il peso del suo debito nel giro dei prossimi tre anni.

La platea è molto influenzabile, la classica espressione di un corpo sociale non informato: da un lato cupa, pensierosa, dall’altro euforica, quando si inneggia alla libertà dagli oppressori europei. Sembra di essere tornati a settanta anni fa, quando in Europa si combatteva tutti contro tutti, in cui si, era lecito definire i nostri vicini i nostri nemici, e la paura aveva ragione di penetrare le menti di giovani e vecchi.

Vorrei tanto che le paure di questi signori, attaccati alla grande storia e alla sovranità della loro patria come fanciulli alle loro madri durante un forte temporale, fossero almeno in parte fondate. Nessun disegno federalista è dietro l’angolo, almeno per ora. Hanno però ragione a dire che l’UE va cambiata, e lo dico anch’io, da convinto europeista.

L’Europa si nutre di integrazione, e non possiamo più aspettare i tempi di Londra. Comunque vada il 23 giugno, bisognerà rispettare il volere dei cittadini britannici come scelta democratica sovrana. Potessi, voterei leave, non tanto perché al Bruges Group siano riusciti a discostarmi dalle mie posizioni europeiste, ma proprio perché ho ancora a cuore il futuro dell’Europa.

Un’ulteriore integrazione su modello federalista, tanto ostacolata dal Regno Unito, allenterebbe non di poco alcuni dei grandi problemi di oggi, dai problemi di bilancio degli stati membri al fenomeno della duplicazione delle istituzioni comunitarie rispetto a quelle nazionali. Uniti nella diversità, recita il motto dell’Unione, con o senza Londra.

* Studente del Department of War Studies – King’s College London

 

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