In agricoltura sarebbe meglio che la giunta di centro sinistra operasse diversamente [di Carlo Arthemalle]

pesche

I dati statistici sull’agricoltura in Sardegna, pubblicati da tempo, disegnano un futuro inaccettabile per l’isola, ma gli addetti ai lavori si guardano bene dal fare commenti; le organizzazioni professionali continuano ad occuparsi solo  di assistenza; i politici continuano a fare trecce all’acqua mentre  i pochi che conoscono i dati, quando ne parlano, si esprimono in “latino”, muovendosi come se passeggiassero sulle uova.

Intanto qualche domanda. Quanti sono i sardi che vivono di agricoltura? Per l’ISTAT 120.000, che racconta anche che nel decennio 2.000/2.010 il settore ha perso due milioni di giornate di lavoro ogni anno mentre il Piano Regionale di Sviluppo Agricolo, di più recente formulazione, riporta dati in leggera crescita nel fatturato e nell’occupazione. La contraddizione potrebbe essere solo apparente e le discordanze dipendere da tempi e metodologie diversi nella raccolta dei dati. In realtà, nonostante l’esercito di burocrati in carico alla voce agricoltura, non c’è certezza sulla situazione esistente.

La contraddittorietà nei dati  non  riesce a nascondere che l’agricoltura è la risorsa più importante della Sardegna ma anche quella più malamente utilizzata. A suffragare l’affermazione basta ricordare che nella nostra SAU (Superficie Agraria Utile) è compresa la quota più estesa, a livello nazionale, di terreni classificati come idonei  alle colture biologiche la cui resa è irrisoria perché la proprietà che li detiene ne mortifica la potenzialità sottoponendoli ad usi impropri quali seminativo e pascolo puro e semplice.

Ma la testimonianza più eclatante sull’utilizzo sconsiderato della risorsa agricola  è  ignorare che  il comparto dalle maggiori possibilità di crescita è quello delle ortive che, nonostante abbia raggiunto fatturati non lontani da quelli dei latticini, non cattura l’attenzione della politica e dell’opinione pubblica. Investimenti relativamente modesti nella logistica e nella  commercializzazione  consentirebbero alla nostra orticoltura di competere con le regioni della Spagna e del mezzogiorno d’Italia, dominanti nel mercato europeo. Gli osservatori più avvertiti sono convinti che ad impedire alla nostra orticoltura di ottenere performance alla sua portata siano retaggi di culturali e le lobby  che difendono con le unghie e con i denti le quote di sovvenzione pubblica che si sono accaparrate.

Oggi, nonostante le sue potenzialità, il territorio agricolo sardo non produce che il  30/35 % di quanto è necessario per nutrire la scarsa popolazione isolana ed i turisti. I dati delle ultime rilevazioni informano che la  situazione va peggiorando. Denunciano impietosamente che nella  lotta che ha  visto contrapposti per secoli coltivazione e pascolo la vittoria stia piegando a favore di quest’ultimo. Nel decennio preso in considerazione la percentuale di SAU investita a seminativi è calata dal 40,4% al 34,1%, con una diminuzione pari a 18.000 Ettari e una penalizzazione in  grano ed orzo che ci fa dipendere ancora di più dall’esterno per l’alimentazione umana ed animale.

Tra le colture industriali resiste il pomodoro da industria mentre la barbabietola da zucchero è stata cancellata da tempo. Negli ultimissimi anni vigneti e uliveti sono cresciuti di alcune centinaia di ettari ma la misura POR che ha favorito l’evento si può considerare come un pannicello caldo. Infatti anche le colture arboree, in Sardegna, oggi si presentano drasticamente ridimensionate: vite e ulivo coprono una superficie che è la metà di quella di cinquanta anni fa mentre, dal 2000 al 2010,  gli alberi da frutto sono calati di  2.000 Ha, gli agrumeti  sono diminuiti del 30% e il mandorlo è sparito quasi del tutto.

L’ultima rilevazione statistica  presenta una Sardegna con un’agricoltura profondamente cambiata. Il mutamento riguarda in primo luogo la SAU che, in controtendenza con il resto del Paese, è aumentata, in dieci anni  del 13%; ma il cambiamento interessa  anche la destinazione delle superfici, la struttura delle aziende e la forma del possesso.

I dati indicano che i prati permanenti e quelli a pascolo sono aumentati del 32% passando dal 51% al 60,1% del totale e che, nel frattempo, la superficie media delle aziende agricole è diventata la più alta d’Italia, toccando la vetta dei 19 Ettari. Il fatto, poi, che le aziende con una superficie media superiore ai 30 ettari siano aumentate di oltre un terzo evidenzia, in modo eloquente, il processo di concentrazione aziendale che è in corso. In quanto è accaduto, e sta ancora accadendo, è difficile trovare i tratti di quella agricoltura mediterranea tanto sbandierata a parole. Si sta realizzando sotto i nostri occhi un processo di concentrazione della proprietà ed insieme di estromissione del fattore lavoro dal territorio. Da  tutto. Da quello delle zone marginali e da quello dei Campidani irrigui.

In Sardegna bisogna opporsi alla tendenza perché il modello di sfruttamento estensivo del territorio rappresenta un regresso su tutti i fronti.  Perché coltivare con giudizio la terra, da sempre, produce più ricchezza e più occupazione che mandare le pecore al pascolo. Perché  affidarsi, mani e piedi, al pecorino romano, una monocoltura  il cui valore  è sempre quello fissato dall’acquirente, è un rischio che bisogna evitare.

La negatività economica della scelta in atto,  è evidenziata anche dal fatto che il processo di concentrazione ha investito persino il mondo dell’allevamento ovino, all’interno del quale il lavoro partecipa in misura sempre più limitata tra i fattori di produzione.  Infatti tra il 2.000 e il 2.010 gli allevamenti si sono ridotti a poco più di 16.000,  con l’espulsione di circa 5.000 unità produttive, nonostante il numero degli animali allevati sia rimasto invariato.  Da quest’ultimo dato risulta che i nuovi agrari vogliono solo pecore tra terra e cielo.  Il loro modello è Nuova Zelanda, ma per la Sardegna un modello di quel genere suona come una bestemmia.

Quanto sta accadendo sul nostro territorio  è certamente figlio  della congiuntura economica ma anche della Politica Agricola Comunitaria – la PAC – e del regime di pagamenti diretti introdotto dalla riforma Fiscler del 2005 che lega  le politiche di sostegno comunitario essenzialmente ai titoli storici che vengono riconosciuti al conduttore.  Nel passato, con l’Agenda 2.000 c’erano altre regole ma oggi il Pagamento Unico Aziendale (PUA) viene riconosciuto anche per le superfici a pascolo permanente a condizione che per ogni ettaro di SAU siano presenti due capi di bestiame adulto (UBA). L’acquisizione dei diritti PUA – si badi bene – può avvenire anche in via definitiva, trasformandosi così in una rendita fissa pagata col denaro pubblico.

Ci chiediamo se le sovvenzioni europee siano la sola molla che spinge i nuovi agrari ad accaparrare territorio o, per esempio, anche l’interesse delle economie più forti ad impedire che in zone marginali crescano agricolture competitive, o le due cose insieme. Il ricordo del premio per l’espianto dei vigneti è lontano ma non così remoto da farci dimenticare che in quella occasione gli imperi enologici dell’Europa continentale utilizzarono le risorse comunitarie per sbarazzarsi di un concorrente che si chiamava Sardegna  e che, allora, coltivava 70.000 Ha a vigna.

Non sarebbe male se qualcuno si prendesse la briga  di tracciare il profilo di questi nuovi agrari per sapere chi sono, da dove vengono e che mestiere fanno perché il loro modo di destreggiarsi tra le disposizioni della CE e quelle della Regione sarda a tutto  fa pensare meno che a una regia gestita da “gambali e mastrucca”.  Un funzionario della RAS assicura che a condurre trattative e acquisti sono in genere dei notai che operano per conto terzi ed è noto che questa categoria benemerita opera solo per clienti che sono in grado di onorare la parcella.

Non sarebbe neppure male se la Regione sarda esprimesse il suo parere su quanto sta accadendo e lo facesse schierandosi, nelle nostre campagne a favore dell’allargamento della base produttiva piuttosto che a fianco dei nuovi agrari assenteisti.  Proprio in questi giorni si è resa operativa l’asta per trasferire ai privati una grande proprietà pubblica nel sassarese: l’azienda “Surigheddu e Mamuntanas”.

Ecco, sarebbe stato meglio che una giunta regionale di centro sinistra avesse operato diversamente, magari utilizzando quel pezzo  di territorio fertile e già infrastrutturato per aiutare giovani volenterosi a cimentarsi con l’antica e nobile arte di coltivare la terra.

One Comment

  1. Giovanni Pisu

    Egregio Arthemalle, sono talmente d’accordo con quanto scrive che mi preocupo per Lei
    Cordialmente, Giò Pisu.

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