“M5S? Banale chi lo riduce a populismo” [di Luca Sappino]

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L’Espresso, 07 ottobre 2016. Parla il filosofo Massimo Cacciari. A cui abbiamo chiesto se quella attraversata dai pentastellati è una crisi o una metamorfosi. E da domenica in edicola sull’Espresso il nostro approfondimento con una “Critica della Ragion Grillina“.

La morte di Casaleggio, la sfida di Roma e Torino, un nuovo statuto. Quella attraversata dal Movimento 5 stelle nell’ultimo anno è una crisi o solo una metamorfosi, come la definiamo nella copertina che dedichiamo al Movimento, in edicola da domenica?
«Non vedo né una crisi né una metamorfosi. Il Movimento 5 stelle sta semplicemente proseguendo il suo percorso, dritto sulla sua linea. Che è l’unica che può percorrere, peraltro, un movimento dalla natura così composita, che mette insieme diverse culture, diversi orientamenti politici, diverse classi sociali e anche diverse fasce anagrafiche, perché mi dovreste anche spiegare cosa c’entra Beppe Grillo con i suoi giovani attivisti. Niente, ecco cosa. Ma Grillo, che è un prodotto degli anni ’80, un leader un po’ situazionista e anarchico, è riuscito a trovare un collegamento e tenere tutto insieme con questa sorta di religione del web, di cui lui per primo si è dovuto convincere».

Giuliano Ferrara sul Foglio dà una lettura radicale, ma per molti fondata, della crisi romana. «A Roma», dice l’ex direttore, «non è in crisi solo una sindaca e un’assessora. È in stato patologico un intero progetto antipolitico fondato sul pressappochismo, la demagogia, l’inettitudine, l’obliquità, l’uso sbagliato del congiuntivo». C’è del vero?
«Quelle di Ferrara sono le parole di un avversario politico. Sono banali. Non c’è analisi ma solo demonizzazione, un po’ come quando si accusa il Movimento di populismo».

Che però è sicuramente una cifra del Movimento, peraltro spesso mischiato a una buona dose di bufale. No?
«Ma non è una cifra anche di Renzi quando tira fuori ponti e tredicesime per vincere una campagna elettorale?»

L’Espresso in edicola dal 9 ottobre Sono tempi farciti di populismo e retorica, in effetti. Siamo condannati alla semplificazione imperante?
«Lo siamo perché la politica è impotente e si rifugiata nelle frasi fatte. La politica contemporanea ricorre ossessivamente alla retorica, in un modo stucchevole, perché oggi, nel mondo, è difficilissimo impostare una strategia politica complessiva e quindi complessa. È l’impotenza della politica che genera il populismo e poi l’antipolitica, che non è, come si pensa, l’avversione per questa o quella casta, per i deputati o i consiglieri che rubano. Lo è superficialmente, sì, ma in realtà l’antipolitica è la rabbia contro una politica impotente, che non risponde alle domande della gente, che nel frattempo si sono anche moltiplicate».

Che il Movimento 5 stelle sia un movimento antipolitico è però innegabile.
«Lo è perché non ha capito i termini della crisi politica che stiamo vivendo. I 5 stelle non capiscono che intendendo l’antipolitica come anticasta stanno segando lo stesso ramo su cui sono seduti, perché il tema della politica e delle istituzioni impotenti riguarda anche loro. E se ne stanno accorgendo a Roma, ad esempio, dove non poteva che andare così».

Non poteva che andare diversamente il debutto di Virginia Raggi?
«Chiunque a Roma avrebbe combinato quel che sta combinando Raggi, cioè niente. E la ragione è la stessa per cui a Torino, invece, chiunque se la sarebbe cavata come pare se la stia cavando Appendino. È la stessa ragione per cui a Milano Sala avrà vita facile. La complessità di Roma, e la disfatta della sua elité dirigente, fa uscire fuori tutta l’impotenza della politica».

Che però dovrebbe riuscire a nominare almeno i suoi staff…
«Le difficoltà nella nomina degli staff o nella ricerca di un assessore sono sempre il frutto della natura composita del Movimento. Che ovunque, ma a Roma ancora di più, ha messo insieme anime diversissime. Le difficoltà sugli staff altro non sono che difficoltà di sintesi, di sintesi politica tra la destra e la sinistra che si vorrebbero tenere insieme».

Non attraverso un’ideologia, ma il Movimento 5 stelle è uno dei più vasti esempi di mobilitazione e partecipazione, in Italia. Cos’è che tiene insieme gli attivisti 5 stelle?
«A me pare che molti Paesi, in Europa e non solo, abbiano avuto un loro movimento simile, anche se altrove, come in Spagna o in Grecia, si è caratterizzato più a sinistra. In tutti questi casi, però, a tenere insieme attivisti e elettori non è il movimento o il partito che poi li rappresenta ma la rabbia stessa, l’insoddisfazione, i bisogni e i desideri a cui non si trova risposta. Oggi i movimenti politici sono infatti variabili dei movimenti sociali – e qui sta la differenza fondamentale con i partiti di massa novecenteschi».

Per il sociologo Biorcio il Movimento 5 stelle si sta istituzionalizzando, si sta facendo un po’ partito nel confrontarsi con l’esigenza di un’organizzazione imposta dall’avvento al potere e dal fallimento dello strumento del Direttorio…
«Qualunque organizzazione scelgano di darsi, il grande pericolo è che questi pseudo-partiti non siano comunque in grado di metabolizzare la protesta sociale. Che è una funzione fondamentale dei partiti a cui questi hanno in effetti rinunciato. Hanno rinunciato alla funzione educativa e di filtro che i partiti hanno sempre rappresentato le molteplici domande che arrivano e le istituzioni. Loro preferiscono inseguire, che in effetti è più comodo».

«Eravamo orgogliosi di avere solo un megafono, ora molti si dicono contenti di avere “finalmente” un capo», dice Pizzarotti. Grillo non è riuscito – ammesso che mai abbia voluto – a fare il passo di lato. Ci si può sottrarre oggi alla politica leaderistica?
«Si può, teoricamente. Ma i leader sono il surrogato di tutto quello che i partiti non sono più, e che non è quindi il Movimento. Grillo ha capito che senza di lui manca un centro, che se togli il leader carismatico non c’è più un punto di orientamento. Vale per il Movimento, vale per Forza Italia con Berlusconi, vale per il Pd».

Per il Pd?
«C’è qualcosa di simile nelle zucche di Bersani e Renzi?».

Sembrerebbe di no. Ma allora il problema, si dovrebbe dire, è stato fare il Pd, tenere insieme due culture politiche diverse, fare un contenitore che potesse, un po’ come il Movimento, raccogliere l’intera società…
«No, no. È semplicemente la nostra epoca. Culture diverse possono convivere se poi ci sono anche gli strumenti per fare sintesi, gli strumenti che avevano i partiti, e se la proposta politica si può mantenere complessa. Oggi non è così».

 

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