Gli italiani e i sardi non amano le avventure istituzionali [di Nicolò Migheli]

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Troppe interpretazioni sulle motivazioni del rifiuto delle riforme istituzionali finiscono per essere un velo che nasconde la motivazione principe di quel no. Renzi ha giocato tutto per il tutto e ha perso. Su di lui si sono scaricate tensioni che nulla avevano a che fare con i referendum. Presidente del Consiglio non eletto in parlamento, ha cercato l’ordalia che lo legittimasse davanti all’elettorato, l’ha avuta.

Succede quando si personalizza. Si è andati oltre le predicazioni salviniane e dell’M5S, oltre la frustrazione e il rancore di chi è vittima dell’impoverimento, dei giovani che sbarcano il lunario tra un voucher e l’altro, del malessere che si è impadronito di una società che non riesce più a sperare. Tutta questa cacofonia di messaggi, ha nascosto la verità. Gli italiani non vogliono che la loro Carta Fondamentale venga stravolta. Nel 2006, regnante Berlusconi era avvenuto lo stesso e con dati quasi identici. 20016: Sì 40,9%, No 59,1%- 2006 Sì 38, 71% No 61,29%.

 Anche allora quel referendum venne caricato di significati altri, anche allora si voleva che Silvio Berlusconi andasse via, ma l’ex cav. non si dimise. Renzi paradossalmente dovrebbe essere contento, è riuscito a fare meglio del suo mentore ed ha tenuto i voti che il PD ebbe alle ultime europee. La conferma del dato dovrebbe diventare lezione appresa. Non si può cambiare la costituzione in modo così profondo, si possono fare aggiustamenti come è avvenuto più volte negli ultimi sessant’otto anni, non si può procedere come elefanti in un negozio di chincaglierie.

Questo è alla fin fine il messaggio. È sperabile che in futuro passi questo desiderio insano delle classi dirigenti di mettere mano ad una Costituzione che nel bene e nel male ha assicurato al Paese decenni di stabilità. Sì stabilità, perché questo valore a cui sono sensibili i mercati è dato dalle istituzioni e non certo dai governi.

Nella Prima Repubblica, gli esecutivi duravano in media pochi mesi, ma l’Italia era uno dei paesi più stabili dell’Occidente, perché saldi erano i suoi ordinamenti. Ora chi in Italia e all’estero affastella il voto del NO in un indistinto populismo non vuole rendersi conto, o lo fa in maniera deliberata, che la ragione prima è stata la difesa della Carta. È  responsabilità delle classi dirigenti avere trasformato una crisi della politica in crisi istituzionale.

Sono loro i populisti che facendosi forti di post-verità rilanciate da tutti i mezzi di informazione e dalle reti sociali, hanno tentato di scaricare sull’elettorato la loro contraddizione. Sono loro che si sono inventati la categoria del nemico da rottamare, non volevano con-vincere ma vincere, ed hanno perso. L’altro versante di interesse per noi, è come il referendum sia stato vissuto in Sardegna, che risulta la regione dove il rifiuto delle modifiche costituzionali ha raggiunto i valori più alti, questa volta maggiori anche del 2006. 2016, Sì 27,7%, No 72,3%-2006 Sì 38,71%, No 61,69. Eppure la critica all’istituto regionale e alla sua autonomia in questi anni ha raggiunto quasi il parossismo.

Basti pensare alle campagne di stampa dove giornalisti di chiara fama hanno accusato le regioni di essere luoghi con la spesa senza controllo. Il disastro della regione siciliana usato come indicatore di un fallimento generale. Nonostante questo, e le critiche legittime che in Sardegna si fanno, alla fine la stragrande maggioranza dei sardi ha votato perché quell’istituto, benché incompleto e deficitario permanesse. Non è servito a nulla il racconto del Presidente Pigliaru e della ministra Boschi.

Nessuno ha creduto che il Titolo V rimanesse, o che l’autonomia venisse rafforzata. Anche nel voto sardo hanno pesato il malessere e le disattenzioni governative, la lontananza di questa giunta dai bisogni dei sardi, ma a mio avviso oggi come nel 2006 la difesa dell’autonomia è stato il collante unitario. La clausola di supremazia dell’interesse nazionale era presente nella riforma berlusconiana come in quella di Renzi, e in entrambi i casi rifiutata.

Oggi, rispetto al 2006 la Sardegna ha un problema in più, è governata da un presidente che ha agito e si è mosso per negare il suo ruolo e per impedirlo ai suoi successori. Posizione che non ebbero i presidenti delle province quando si fecero i referendum per la loro abolizione; loro lottarono fino all’ultimo per difendere l’ente che rappresentavano pro tempore. Tutto questo è populismo? Oppure è una sana difesa degli istituti democratici? È evidente che si tratta di democrazia, la migliore. Nessuno abbandona una casa imperfetta se non ha di  meglio con cui sostituirla.

Meglio un’Autonomia imperfetta alla Nova Perfetta Fusione. La Sardegna oggi è governata da una giunta che non è riuscita a cogliere il sentire intimo di chi dovrebbe rappresentare e dovrebbe agire di conseguenza: dimettersi. Però non lo farà. I referendum sono cosa diversa dalle elezioni politiche o amministrative, quel 72,3% del No in Sardegna non è possibile intestarlo ad una forza politica, molti sono gli autori di quel successo.

Domenica si è espressa una grande sfiducia in chi ha voluto mettere mani alla Carta e in chi in Sardegna se ne è fatto testimone e araldo della rinuncia all’Autonomia. Per chi ha a cuore il nostro riscatto di sardi, il nostro bisogno storico di autogoverno, è un dato da cui partire. Va costruito, i segni sono forti. Bisogna coglierli.

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