Il bisogno e il coraggio di regredire [di Silvano Tagliagambe]

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Durante tutta la sua vita Luigi Mazzarelli si è battuto con passione per il recupero della semantica, per ridare attualità al significato, restituendo un senso all’arte e alle sue espressioni. La sua era certamente una battaglia nobile e giusta.

Oggi però i significati sono sempre più abusati e sfregiati, vittime come sono di esercizi linguistici che li mortificano quotidianamente nelle pagine dei giornali e, soprattutto, negli sfoghi umorali affidati alla rete e ai social network. Il linguaggio, orale e scritto, diventa sempre più spesso una palestra di pessimo gusto, di esternazioni biliose in cui le parole scorrono appiccicate l’una all’altra, senza concatenazione, senza struttura, senza logica, e ciò che dovrebbero esprimere suona casuale e diventa spesso un optional.

La semantica, la nobile teoria del significato ne esce colpita a morte, vittima sacrificale delle aggressioni verbali di chi usa il linguaggio come una clava per colpire alla cieca, per il solo gusto di far male.

Di fronte a questa situazione bisogna avere il coraggio di regredire: fare un primo passo indietro dalla semantica alla sintassi, per recuperare il gusto dell’organizzazione, dell’articolazione, della connessione intelligente, fatta non solo di coordinazioni ma anche e soprattutto di subordinazioni e implicazioni, in una parola di una gerarchia ordinata e di una trama.

Solo così si può sperare di cominciare a recuperare, almeno in parte, quell’ordine delle parole e delle frasi mediante il quale lo scrivente e il parlante pongono in mutuo rapporto gli elementi lessicali per la costruzione di un’espressione compiuta e ben formata.

E fare anche un secondo passo indietro: dalla semantica alla sintassi e da questa alla fonetica, per tornare a riassaporare il gusto del suono delle parole. Quel suono che esprime l’intrinseca musicalità del linguaggio, ciò che D’Annunzio chiamava “l’infinito e innumerabile ritmo”, individuandone la “natività nell’esemplar corpo umano”.

Quel suono che, se usato nel modo dovuto, mette in rilievo ed esalta la natura di “gesto corporeo” e di azione che la voce esibisce e che ne fa, prima ancora che uno strumento di emissione e comunicazione di segni, la magica espressione di un “ritmo“, di una “sequenza motoria” che struttura il succedersi di sonorità e gli dà forma prima ancora dell’intervento del “senso” e anche in assenza di esso.

Quel suono che è manifestazione dell’arte nobile dell’intonazione, direttamente collegata al movimento fisico, in quanto basato sul ritmo del respiro, che ci fa sentire il pulsare originario del nostro corpo e ci mette in sintonia con esso.

Ho pensato a tutto questo, al bisogno e al coraggio di questa duplice regressione assistendo a “Fili di pace”, l’emozionante concerto per Emergency andato in scena ieri sera al Teatro delle Saline. Tre grandi della musica Filomena Campus, Gavino Murgia e Antonello Salis hanno trasmesso non solo emozioni profonde, ma significati autentici e ricchissimi utilizzando il pianoforte, la fisarmonica, il sassofono e la voce come strumento tra gli strumenti senza pronunciare una sola parola veicolo di significati. Senza semantica, dunque, esaltando la fonetica, l’arte del suono, e la sintassi, la costruzione formale del linguaggio musicale.

Se ciascuno di noi sapesse usare la teoria del significato in una percentuale anche minima della maestria e della competenza nell’uso della fonetica e della sintassi mostrata da questi tre straordinari artisti, allora sì che varrebbe la pena tornare a battersi per il recupero della semantica.

A onor del vero la semantica c’era nello spettacolo: era presente nei brani di Gramsci, di Constantino Nivola, di Giuseppe Dessì, di Gino Strada, di Mimmo Risica, di Erri De Luca,  letti con il consueto talento da Giacomo Casti, e di Pinuccio Sciola, al quale ha dato voce la figlia Maria.

Brani dai quali i significati sgorgavano in modo così appropriato, ricco, coerente e potente da rendere imbarazzante e impietoso l’implicito confronto tra ciò che si può e si sa dire scrivendo, se si hanno idee, emozioni, passioni e valori, e l’uso sempre più vuoto, sciatto e privo di senso delle parole dalle quali siamo bombardati quotidianamente senza tregua e pietà.

Ciliegina sulla torta di questa splendida serata Maria Jole Serreli con il suo filo rosso che, unendo gli artisti sul palco e il pubblico presente, ha tracciato un percorso sottile che raccontava una storia di speranza: quella delle tante piccole monadi, dei singoli individui che riempivano il teatro in ogni posto trasformati, grazie a una perfomance artistica, in un unico soggetto collettivo coeso e solidale.

Capace, per una volta, di provare e gustare il legame reciproco non solo tra le persone presenti nella sala, ma tra ognuna di esse e i piccoli pazienti dell’ospedale pediatrico di Bangui, capitale della Repubblica Centraficana, al quale è destinato l’incasso dello spettacolo: e, per loro tramite, si spera, in grado di tornare a sentire quel senso di fratellanza tra gli uomini, rispettandone le diversità, che non dovrebbe essere soltanto un fuggevole proposito per il giorno di Natale.

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