Diamo sangue nuovo al nostro sistema culturale. Intervista a Salvatore Settis [di Silvia Truzzi]

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Il Fatto Quotidiano 4 gennaio 2017.

Professore, sul Fatto qualche settimana fa ha scritto che le nostre città si stanno trasformando in un “agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico e le circostanti campagne”. Cosa si può fare per arginare il fenomeno?
Il trionfo delle periferie ha una conseguenza particolarmente negativa nello svuotamento dei centri storici, i quali più si spopolano più sono oggetto di operazioni di gentrification, cioè di mutazione commerciale. Si stanno creando confini interni alla città, che sono confini di natura sociale. La questione non può essere risolta né dal punto di vista della tutela, né da quello del turismo. Bensì creando occasioni di lavoro, soprattutto per i giovani, che abbiano a che fare con i centri storici e politiche abitative che incoraggino a vivere nei centri. L’ho scritto nel mio libro su Venezia, ma vale per tutte le città.

Il ministero si sta occupando molto della valorizzazione del patrimonio in chiave turistica. Trova dei limiti a questa politica?
In Toscana si vede ricorrere dappertutto a una dizione, anche a Pisa, “centro commerciale naturale” che poi sarebbe il centro storico. Cioè la forma urbana, in cui vivevano Dante, Michelangelo, Giotto e Ariosto, sarebbe l’anticipazione dei centri commerciali all’americana: una perversione che si sta diffondendo. Al turista bisognerebbe offrire in primo luogo la civiltà italiana che non è fatta di monumenti vuoti, è fatta di centri storici e delle persone che li vivono. L’unico vantaggio – ma di questo non abbiamo ancora visto nulla – dell’aver accorpato il ministero dei Beni culturali con quello del Turismo, lo avremmo se la promozione turistica partisse dall’autocoscienza dei cittadini che abitano le città; non certo trasformando le città in luna park per turisti.

Che si può fare?
Non puntare sulle mete turistiche già famose, come Pompei o Firenze, ma distribuire i flussi turistici in tutto il Paese. Non solo Venezia, ma anche Vicenza.

Il Mibac sta promuovendo le aperture straordinarie dei Musei e sembra che i numeri gli diano ragione. È la direzione giusta?
Certo, tenere aperti i musei il più possibile è giusto. Ma dovrebbe valere anche per le biblioteche e gli archivi che sono parte di un sistema unico, ma che non hanno un trattamento simile. La Biblioteca universitaria di Pisa, per motivi misteriosi, è stata chiusa dopo il terremoto in Emilia. I volumi sono stati deportati a Lucca: per un numero imprecisato di anni saranno inutilizzabili. E poi: quali musei? Parliamo solo degli Uffizi? Se sì non mi va bene. Dovremmo esplorare i magazzini dei nostri musei che sono vere e proprie riserve auree da cui si potrebbero estrarre nuove opere da esporre. Sono tutte cose che si fanno, ma si fanno ancora troppo poco.

Mancano le risorse.

Sì, ma attenzione: non solo economiche, anche umane. Il ministero ha subito una pesantissima emorragia di personale. I 500 nuovi assunti, che dovrebbero diventare operativi in questo anno, non bastano a coprire nemmeno un quarto dei pensionamenti degli ultimi anni. Ci sono tantissimi laureati in Storia dell’arte e Archeologia che devono cercare lavoro all’estero e potrebbero essere impiegati qui. Questo sangue nuovo potrebbe essere immesso nel nostro sistema della tutela e dei musei: da loro potrebbero nascere nuovi progetti, e non solo più turisti.

Le Soprintentenze sono state accusate di essere la causa di ogni male, alimentando la burocrazia a dismisura e facendo lievitare i tempi d’intervento. Poco prima del referendum, Maria Elena Boschi ha detto in tv che il ministro Franceschini le sta smantellando: una vecchia idea di Renzi.
Il ministro sta attuando a rate una riforma mai annunciata nel suo insieme: l’interpretazione che ne ha dato la Boschi rischia di essere quella giusta. Le Soprintendenze sono state svuotate di personale, trasferito alle istituzioni museali a scapito della tutela del patrimonio diffuso sul territorio. Bisogna invece calibrare le risorse umane delle Soprintendenze in base ai compiti di tutela che hanno, mentre in questi anni è accaduto l’inverso. Addirittura poi con l’abolizione delle Soprintendenze archeologiche accorpate a quelle “olistiche” – parola vuota – la tutela archeologica del territorio, che richiede una presenza capillare, praticamente non esiste più.

Lunedì ci sarà una riunione del Consiglio superiore dei Beni culturali in cui il ministro annuncerà il suo piano di spaccare in due la Soprintendenza di Roma, per “isolare” le competenze su Colosseo e Fori imperiali perché è lì che si fanno i maggiori incassi. Ma è uno sbaglio clamoroso: almeno dai tempi di Augusto Roma è sempre stata una, e l’area archeologica centrale va integrata nello spazio urbano, non tagliata via. Anche per non moltiplicare gli interlocutori nel dialogo, necessario, con la Sovrintedenza che dipende dal Comune. Mi pare che così si accentui la burocrazia, anziché ridurla. Inoltre, il vicesindaco Bergamo qualche giorno fa sul Corriere ha detto che visto che gli introiti di quest’area sono molto alti, il rischio è che quanto eccede la sua gestione- circa 40 milioni di euro – venga redistribuito fuori Roma.

È favorevole al mecenatismo dei privati? L’ultimo caso è quello del restauro, avvenuto con fondi privati, della scalinata di Trinità dei Monti. Si è parlato addirittura di una cancellata.
Sono contrarissimo: se sotto il Pantheon ci sono due persone che dormono in sacco a pelo immagino che negli ultimi Duemila anni sia accaduto un numero di volte incalcolabile. Più che mettere inferriate, meglio sarebbe fare in modo che le persone non debbano dormire all’addiaccio. In Italia c’è grande confusione tra sponsorizzazione e mecenatismo, che è l’uso di capitali privati per iniziative culturali, senza profitto. Un’ottima cosa, che qui accade molto meno rispetto ad altri Paesi perché i meccanismi di defiscalizzazione sono arretrati. In Francia funziona bene perché i vantaggi fiscali ci sono anche per le micro-donazioni: il segreto è questo. Proviamo a copiarli.

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