Una guida nel bosco del sapere e della vita [di Silvano Tagliagambe]

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Una storia, semplice e affascinante, quella di Giulio Angioni. La storia di un bambino nato e cresciuto in un posto dal quale tutti gli dicono che deve fuggire, se vuole avere qualche speranza per il futuro: un paese agricolo della Sardegna dell’immediato dopoguerra. E in effetti da quel paese lo fanno uscire, dopo le elementari, per andare in Piemonte, dai preti, a frequentare le media, il ginnasio e un inizio di I liceo.

Quando le risorse per sostenere questa emigrazione forzata vengono meno il bambino, ormai adolescente, rientra nella terra da cui lo avevano indotto a separarsi con una certezza incrollabile che diventa la sua bussola per orientarsi nel bosco della vita: che non avrebbe comunque smesso di studiare. Si prepara così da solo per la maturità (quella durissima di allora), dà l’esame da privatista in città, al liceo Dettori di Cagliari, e lo supera senza sforzo.

S’iscrive all’università, alla facoltà di Lettere e Filosofia del capoluogo della sua regione, e qui s’imbatte in un miracolo: due grandi studiosi venuti da fuori, Ernesto De Martino e Alberto Cirese, lo mettono di fronte a una prospettiva rovesciata: il mondo dal quale provieni, il tuo mondo, quello contadino e pastorale, non è l’inferno dal quale devi fuggire, un’esperienza da superare e lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle, ma un vissuto che merita di essere conosciuto e quindi studiato. Perché gli uomini hanno, da sempre, forme di vita e stili di pensiero diversi, e non esiste una forma di vita e uno stile di pensiero che possano essere assunti come metro per misurare gli altri e giudicarli degni o meno di essere coltivati.

Da quel momento in poi la sua vita diventa una storia di immersione ed emersione: conoscenza diretta, e quindi autentica e profonda di una cultura, quella di provenienza, e capacità di guardarla con un occhio diverso, la visione distaccata, lo sguardo da lontano dello studioso che vede di più e meglio di chi è incorporato in quel vissuto. Un’eterocromia, come quella dell’Alexandros di Pascoli: l’«occhio nero, come morte» per «lo sperar più vano» e l’«occhio azzurro, come cielo» per «il desiar più forte».

Una sorta di ossimoro dello sguardo che insegna il rispetto: rispetto per l’ambiente dal quale si proviene, che non va né demonizzato, né esaltato come unico e irripetibile, ma conosciuto e valutato per ciò che è nella sua realtà e può dare; e rispetto per le forme di vita degli altri, che vanno anch’esse studiate e conosciute per quello che sono. Lo sguardo dell’antropologo, che lo mette al riparo dalla tentazione di essere anti, di cadere nella tentazione di crearsi un nemico sul quale riversare tutto il proprio livore, si tratti «del natio borgo selvaggio» o delle terre e culture altrui.

Questa sua storia di vita gli fa capire cosa e come deve essere l’università. Non un parco giochi, con frecce e indicatori che non solo mostrino il cammino, ma inducano, quasi obblighino a seguirlo, proponendo itinerari prêt-à-porter, precotti, che ci si deve limitare a digerire senza lo sforzo di masticare: ma un bosco, una serie molteplice e intricata di sentieri selvaggi nel quale si deve andare alla ricerca di una guida e di una bussola, di qualcuno e di qualcosa che insegni a orientarsi, a scegliere la propria via: come erano stati per lui De Martino e Cirese e come, da quel momento in poi, egli ha saputo essere non solo per il migliaio di studenti di cui è stato a sua volta timoniere, come relatore della tesi di laurea, ma anche per le decine di migliaia che hanno avuto la fortuna di seguire le sue lezioni.

Alle università alla moda, quelle di maggiore richiamo e di più elevata capacità attrattiva, che danno allo studente che le frequenta l’illusione, che è terribile se si trasforma in certezza, di uscirne avendo imparato tutto ciò che è necessario sapere per avere successo nella vita Giulio Angioni ha sempre contrapposto, come modello da seguire, l’università che insegna a muoversi nel campo sterminato del sapere, che è socratica, perché, anziché alimentarla, vuole liberare lo studente dalla presunzione di sapere. Per esercitare in modo credibile questa salutare ironia bisogna, ovviamente, che il docente liberi innanzi tutto sé stesso da un’eccessiva e mal riposta presunzione di sapere e di potere.

Se si segue la «via socratica» della maieutica, alle proposte educative cristallizzate in forme di sapere rigidamente predefinite e che ci si deve limitare a «trasmettere» subentrano il confronto dialogico e lo stimolo creativo fatti non solo di confutazione, di quel procedimento, cioè, attraverso il quale si conduce l’ interlocutore alla consapevolezza della fallacia o della parzialità delle sue opinioni, ma anche e soprattutto della disposizione a stimolare in lui la ricerca di quegli interessi e di quelle capacità che egli spesso non è consapevole di possedere, facendoli  emergere sotto l’impulso del dialogo educativo.

Ai giovani, da scrittore asciutto ed efficace e fortunato autore di romanzi di raro spessore, ha insegnato che bisogna diffidare dei profeti che spacciano per verità la loro parola, perché, come leggiamo ne L’oro di Fraus, «la verità resta in balia dei giochi di forza, e perciò ci tocca spesso fingere di sapere solo ciò ch’è permesso di sapere». Una cosa tuttavia la possiamo sapere con certezza: che non abbiamo la libertà di non essere uomini del nostro tempo, per cui non disponiamo della possibilità e del diritto di vivere nel passato, con la nostalgia, o nel futuro, con una sterile utopia.

Dobbiamo vivere nel presente, nel nostro presente, e accettare questa condizione: una volta che si è capito questo si è certamente più liberi. E nello stesso tempo dobbiamo nutrire questo presente dello spessore e della profondità che deriva da una visione, dalla capacità di immaginare e sognare, dall’illusione di essere immortali, perché, come dice un verso di Sandro Penna, che egli amava citare, «ognuno è nel suo cuore un immortale».

Giulio Angioni ha saputo insegnare ai giovani questo tipo di libertà: così l’ho conosciuto quando, nel 1973, sono giunto a insegnare a Cagliari, nella stessa Facoltà di cui lui era già autorevole docente, e così, da preside di quella stessa Facoltà, ho potuto apprezzarlo come maestro, impegnato e appassionato.

2 Comments

  1. Stefano Gensini

    Apprezzo molto questo ricordo di Giulio Angioni formulato da Silvano Tagliagambe. Anch’io, giunto da Roma a Cagliari nel 1987, ho avuto modo di conoscerlo come collega e amico, imparando a apprezzarne la personalità complessa, piena di sfumature, e la creatività di scrittore celata dietro l’apparente distacco – o riserbo – della persona. Il mio lungo amore di non sardo per la Sardegna, per la cultura sarda, per un modo di essere sardi che guarda al mondo, deve moltissimo a Giulio, Grazie dunque a Tagliagambe che ha saputo scriverne benissimo.

  2. Solo un sardo come Silvano Tagliagambe, che non è nato qui, ma ha deciso di esserlo, poteva scrivere in poche righe un ritratto così profondo di Giulio Angioni.

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