Quelli che…i Cie erano campi di concentramento [di Silvia d’Onghia]

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Il Fatto Quotidiano 16 gennaio 2017. I centri di identificazione degli immigrati assomigliano «a dei campi di concentramento, tanto è vero che il Parlamento ha negato che la permanenza possa essere aumentata a sei mesi». Peccato che il governo, ponendo la fiducia, abbia prolungato la permanenza nei Cie fino a sei mesi”. Parola di Marco Minniti, quando ancora non era ministro dell’Interno. Era il Marco Minniti responsabile sicurezza del Pd, il 19 maggio 2009: al governo c’era Silvio Berlusconi. Forse è la stessa persona? Chissà.

Certo di acqua ne è passata sotto i ponti in quasi otto anni: si è andati a votare nell’ormai lontano 2013, i governi sono cambiati, l’immigrazione è tornata a essere un’emergenza dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum e, soprattutto, dopo le stragi terroristiche che hanno colpito l’Europa.

E allora si vede che il remoto ricordo dei Cie come “campi di concentramento”, in cui i migranti si cucivano le bocche o davano fuoco alle strutture per protesta, è svanito nel nulla (il nostro è un Paese dalla memoria corta) o è stato ammorbidito dalle rassicuranti parole del nuovo Minniti: “Non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c’entrano nulla perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l’accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi”, ha detto il neo ministro dell’Interno lo scorso 5 gennaio, poco dopo aver tirato fuori il coniglio dal cilindro.

Memoria corta, dicevamo. Del resto non tutti ricordano che i Centri di identificazione ed espulsione furono istituiti dalla legge 40 del 6 marzo 1998, passata alla storia come Turco-Napolitano. L’allora ministra per la Solidarietà sociale e l’allora collega agli Interni previdero per la prima volta di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in appositi Centri definiti “di permanenza temporanea e assistenza”, poi trasformati nel 2011 in Centri di identificazione ed espulsione.

Il Testo Unico sull’immigrazione ha subìto negli anni alcune modifiche: prima con la Bossi-Fini (2002) e poi con il cosiddetto “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi, che nel 2008 ha introdotto il reato di immigrazione clandestina. Nel 2014 il Parlamento ha delegato al governo la riforma del sistema sanzionatorio dei reati (l’irregolarità del soggiorno non dovrebbe avere più rilievo penale), ma ad oggi, nonostante vi siano almeno sei proposte di legge ferme, nonostante la Corte Europea abbia stabilito che gli ingressi irregolari di migranti non possano essere sanzionati con il carcere e nonostante il richiamo – lo scorso anno – del presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio (“un reato inutile e dannoso”), nessuno ha fatto nulla.

L’articolo 14 del Testo Unico del ’98 prevede che “quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera” (e su questo giornale abbiamo visto le difficoltà della polizia a farlo), il questore “disponga che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario” presso un Cie. Il “tempo necessario”, inizialmente di 30 giorni (Turco-Napolitano), è diventato di 60 con la Bossi-Fini, di 180 con il “pacchetto sicurezza” del 2008 e addirittura di 18 mesi nel 2011; è tornato di 90 giorni nel 2014, ma un decreto legislativo del 2015, in attuazione di una direttiva europea, ha previsto in alcune circostanze il trattenimento fino a un anno per il richiedente asilo che “costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza” e per il quale sussiste “rischio di fuga”.

 

Attualmente sono sei i Cie funzionanti (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Roma e Torino), anche se il sito del Viminale, fermo a luglio 2015, ne elenca soltanto cinque. Diventeranno molti di più, piccoli e in ogni Regione, se il nuovo Minniti andrà avanti per la sua strada. Giovedì prossimo il ministro incontrerà i governatori per illustrare le proprie intenzioni: “Proporrò strutture piccole, che non c’entrano nulla con quelle del passato, con governance trasparente e un potere esterno rispetto alle condizioni di vita all’interno”.

E dire che, all’epoca, Minniti non era il solo del suo schieramento a pensare che i Centri dovessero essere chiusi. Nel giugno 2011, mentre Roberto Maroni faceva approvare – tre giorni dopo Pontida – il decreto legge che innalzava a 18 mesi la permanenza nei Cie, l’attuale sottosegretario piddino Sandro Gozi solennemente commentava: “Il ministro Maroni ha voluto solo mostrare il pugno duro, ma è propaganda con le gambe corte, buona solo per Pontida e conferma che il governo affronta il fenomeno dell’immigrazione solo con politiche repressive”.

 

Si vede che adesso che è al governo anche lui, le politiche repressive hanno le gambe più lunghe. Nel 2012, il Forum Immigrazione del Partito Democratico affrontava le “linee programmatiche a breve e media scadenza: dalla abrogazione del reato di clandestinità al superamento dei Cie. Occorre superare il diritto speciale dello straniero e tornare a un sistema di espulsione che sia coerente con la nostra Costituzione”.

E solo tre anni e pochi giorni fa, il 18 dicembre 2013, il vice ministro dell’Interno, Filippo Bubbico (incarico del premier Letta, poi confermato da Renzi e Gentiloni), a proposito del Centro di Lampedusa tuonava: “Bisogna riformare il prima possibile quelle norme, bisogna chiudere il Cie”. La notte dei governi, evidentemente, porta consiglio.

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