Riflessioni sulla pastorizia e sulla Sardegna[ di Carlo Arthemalle]

formaggi

La pastorizia in Sardegna è una questione che non riguarda solo le aziende del settore. E’ una vicenda di interesse generale e costituisce uno dei nodi irrisolti della questione sarda, uno dei grumi che ha impedito all’Isola di decollare e di raggiungere il livello di sviluppo del nord Italia e dell’Europa.

Facciamo un po’ di storia, stando lontani – se possibile – dai luoghi comuni che ricorrono ogni volta che si affronta questo argomento: la gran parte della superficie agraria dell’isola è stata, per oltre un secolo, dedicata a fornire l’alimentazione alla popolazione ovina;  fino a pochi anni fa si parlava di un milione di ettari e di 3 milioni di pecore; ora queste cifre sono largamente ridimensionate. Tutto è cominciato nell’Ottocento, quando le esigenze del mercato nordamericano hanno fatto incontrare gli interessi dei caseari/commercianti laziali con quelli della grande proprietà assenteista sarda.

 Oltre  il 90% del latte prodotto diventava pecorino romano e veniva venduto negli “States”  come semilavorato.  Gli americani lo hanno sempre comprato perché lo pagavano poco e noi lo abbiamo sempre venduto tranquillamente perché con la lira debole nei confronti del dollaro, con i premi CEE all’esportazione e le provvidenze regionali che in vari modi arrivavano si riusciva comunque a fare cassa. Finché la proprietà terriera è rimasta sulla scena erano i latifondisti a mettere le mani sulla gran parte della ricchezza prodotta ma quando è arrivata la legge che imponeva l’equo canone sui pascoli (la De Marzi – Cipolla) sono stati i pastori ad assumere il controllo del territorio.  Lo hanno fatto con le buone maniere e, qualche volta, anche usando le maniere cattive.

Da quel momento, per gli allevatori, sono scattati decenni di relativo benessere: è aumentato il numero delle imprese e dei capi allevati, nei paesi dell’interno si è rinnovato interamente il parco case e la pastorizia ha dilagato anche nelle più fertili terre di pianura, occupando gli spazi  che prima erano coperti dalle colture cerealicole. Il benessere (relativo) è arrivato anche perché attorno ai pastori che mungevano e tosavano si è andata perfezionando la macchina degli incentivi e delle sovvenzioni al mondo agricolo.   Della montagna di soldi che ogni anno si stanziava per  il settore primario la maggior parte veniva dirottata a beneficio della cosiddetta Agricoltura di città, la mostruosa macchina degli enti inutili che qualcuno si ostinava a chiamare enti strumentali.  Ma qualcosa comunque arriva anche in campagna, soprattutto ai pastori e soprattutto attraverso le politiche clientelari.

 La pastorizia sarda, da decenni ormai, non è in grado di stare sul mercato contando soltanto sulle sue forze.    La sua struttura produttiva è così fragile e il prodotto che esita così elementare che senza le stampelle del pubblico denaro è impensabile la sua sopravivenza.  Ma, dal momento che “pecunia non olet” , il settore è sempre stato difeso con molta grinta e intelligenza dagli operatori addetti e da quanti stavano loro attorno.  Il mondo pastorale ha fatto sistema come nessun’altra categoria in Sardegna, ha schierato i suoi cantori, diffuso miti e bugie ed è riuscito persino a far credere a gran parte degli italiani che Sardegna e pastorizia fossero una cosa sola.

Che questa attività economica fosse una monocoltura, che sfornasse un solo prodotto e lavorasse per un solo cliente è stato sempre accuratamente nascosto, così come è stato nascosto che la pastorizia ha impedito di utilizzare razionalmente il territorio, ha ostacolato lo sviluppo di altre attività quali l’agricoltura, il bosco e persino certe forme di turismo.  Tommaso Moro diceva che nell’Inghilterra del ‘500 le pecore si erano mangiati gli uomini.  In Sardegna è avvenuta la stessa cosa, ma nel secolo ventesimo.

Ma veniamo all’oggi:  soltanto un irresponsabile può pensare di chiudere la partita cancellando 13.000 aziende e un’attività che apporta più della terza parte dei valori prodotti dal primario in Sardegna.   L’allevamento ovino non va cancellato ma profondamente cambiato, mettendo in campo progetti, ricerca, managerialità e anche soldi.  Il punto di partenza è capire che non si può continuare a vivere producendo pecorino romano e chiedendo alla comunità di coprire i buchi di bilancio.   Tra l’altro bisogna tener conto di quanto sta accadendo negli ovili, con la tendenza a nutrire il bestiame con mangimi composti anziché col pascolo naturale.   Negli allevamenti senza terra esiste una legge conclamata secondo la quale è il mangimista che decide come spartire gli utili.  In un futuro molto prossimo, quindi, dare soldi ai pastori significherebbe soltanto darli ai mangimisti, che risiedono tutti fuori dall’Isola.

I posti di lavoro in agricoltura si possono difendere solo utilizzando diversamente il territorio, rilanciando alcune coltivazioni, sviluppando altre forme d’allevamento, organizzando il bosco, sfruttando le possibilità che offrono in il turismo e l’energia da biomasse.    Come abbiamo già detto anche l’allevamento ovino può fare la sua parte ma a condizione che si capisca che il mercato col quale dovremo competere non è quello  “povero” del  formaggio da grattugia degli Stati Uniti ….. dovremo misurarci in Europa, e vedercela con l’emmental, i 500 formaggi francesi, il gorgonzola e il parmigiano.

Credo che la maggioranza dei pastori sardi sia cosciente della situazione e sappia che intestardirsi a difendere su connottu” è una via senza uscite.  Ma …. c’è un ma ! I pastori, da soli, non sono in grado di riformare la filiera economica nella quale operano. Le lotte alle quali hanno dato vita esprimono la loro disperazione ma anche l’elementarità di un movimento che non sa andare oltre la richiesta di sovvenzioni per aggiustare conti economici sballati. Le sovvenzioni, oggi, hanno un senso solo se sono intese come strumento per consentire al settore di sopravvivere in attesa di misure di riforma capaci di trasformare la pastorizia sarda in allevamento moderno, con una agricoltura  capace di alimentare la stalla e un’industria casearia capace di lasciarsi alle spalle la monocoltura del pecorino romano.

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