Società 4.0. fine del lavoro umano? [di Nicolò Migheli]

ABI-TANTI 7

L’innovazione e il progresso tecnologico sono inarrestabili. In quello che chiamiamo convenzionalmente Occidente lo sono da almeno mille anni. Se qualcuno troverà profitto e convenienza in una nuova tecnologia, se essa corrisponde ad un qualche bisogno, anche non espresso, finirà con l’imporsi. I telefoni portatili sono un caso studio. Prima dell’avvento del cellulare solo in pochissimi avevano l’esigenza di essere sempre raggiungibili, è bastata l’innovazione delle carte prepagate per fare in modo che sia presente nelle tasche di ognuno di noi.

Un bisogno e qualcuno che in esso intravveda una occasione di profitto, fanno in modo che l’innovazione si imponga. È già così per l’automazione e la robotica. Siamo dentro una rivoluzione non solo scientifica, ma che già condiziona la nostra esistenza ed in futuro lo farà sempre di più. Il report dell’ONU Robot and Industrialization in Developing Countries, sostiene che il 66% dei lavori svolti nei paesi di nuova industrializzazione già oggi può essere sostituito da robot. Il che comporterà la fine delle delocalizzazioni ed il rientro di molte produzioni in Occidente. Tranne Cina ed India, dove si stanno facendo passi consistenti nel settore.

Secondo la società di consulenza McKinsey, solo il 5% dei lavori attuali non è robotizzabile. Se questo non è ancora avvenuto è perché, allo stato attuale, la robotizzazione comporta una perdita di qualità del lavoro svolto, le macchine non sono ancora in grado di comprendere e processare il linguaggio naturale umano. Più sale la complessità e l’alto valore aggiunto delle attività, minore è il rischio di automazione. Ora siamo ancora dentro la teoria dei colli di bottiglia: certe attività non sono robotizzabili perché il costo della elaborazione degli algoritmi è superiore al beneficio ottenuto, però negli ultimi trent’anni quel costo è diminuito costantemente, di conseguenza tra non molto il collo di bottiglia verrà eliminato.

Per cui un docente universitario robot, un cantante lirico, un sociologo o un scrittore cyborg  sono dentro un futuro possibile. McKinsey nello studio citato afferma che negli Usa, già oggi solo il 4% dei lavori ha bisogno di creatività. Siamo dentro la distopia di Norbert Wiener che nel New York Times già nel 1949 aveva profetizzato con il dominio delle macchine una rivoluzione industriale di assoluta crudeltà.

Il sociologo Bruno Manghi che da oltre trent’anni studia l’impatto dell’automazione negli ambienti di lavoro, intervistato da Rai News 24 affermava che l’ottimismo della liberazione dal lavoro per merito delle macchine, tipico dei decenni scorsi, si sta trasformando nel pessimismo della scomparsa del lavoro e confessava la sua impotenza nell’immaginare soluzioni.

Il refrain che ha accompagnato il progresso tecnologico è stato: i lavori persi verranno riguadagnati in lavori di maggior qualità. Di conseguenza basta investire in istruzione, spostare l’asticella insomma, e i lavori non scompariranno. È pur vero che ci sarà bisogno di figure professionali nuove, che sappiano progettare e dialogare con macchine sempre più sofisticate, però quante saranno nel mondo? Visto che già oggi giganti come Google progettano intelligenze artificiali resilienti, che imparano dai propri errori, che si adattano all’ambiente e che tra non poco sapranno progettare intelligenze simili? In un articolo del The Guardian del novembre del ’15 si stimava che nel mercato della robotica in dieci anni è ipotizzabile una crescita dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti.

Già  oggi ne vediamo i frutti, quella che viene definita l’uberizzazione del lavoro umano fa passi consistenti: frammentazione delle attività date in appalto, smantellamento dei salari con l’imperversare dei micro pagamenti. Foodora che a Torino paga i suoi fattorini tre euro l’ora è sui giornali in questi giorni, ma i voucher di Renzi vanno in quella direzione.

Fino ad ora, gran parte dei consumatori hanno colto solo l’aspetto positivo della riduzione del prezzo e della comodità, ma tra non poco saremo in fase del Grande Disaccopiamento,  secondo Brynjolfsson all’Harvard Business Review: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.

Il che pone problemi seri sulla tenuta delle società contemporanee in termini di PIL, sanità pubblica, previdenza sociale. Nessun settore verrà escluso da questa rivoluzione, neanche quello pubblico che fino ad ora ha risentito poco dell’automazione. Sono scomparse solo le dattilografe o poche altre figure professionali. Non a caso imprenditori di primo piano come Elon Musk di Tesla, Bill Gates ed altri propongono di tassare i robot.

Il Parlamento Europeo con 396 voti a favore, 123 contrari e 85 astensioni vota nelle settimane scorse una risoluzione con cui si propone di dare ai robot personalità giuridica. Lo fa per ragioni etiche. Se un’auto a guida autonoma causa un incidente, di chi è la responsabilità? Del padrone del veicolo? Del costruttore? Di chi ha fatto la manutenzione? È anche però il primo passo verso quello che alcuni definiscono reddito di cittadinanza, altri reddito universale. In Finlandia lo si sta già sperimentando con piccoli numeri.

Matteo Renzi torna dalla California e prospetta un lavoro di cittadinanza. Come spesso gli accade fa la figura dello studente che si presenta all’esame sulla base del sentito dire. Forse il segretario dimissionario del PD non ha chiari i termini del problema e fa confusione. Tutte queste proposte sono la via? Come Bruno Manghi confesso di non saperlo. Di sicuro il lato economico, benché decisivo, non è il solo ad essere importante.

È il concetto stesso di lavoro come autorealizzazione dell’individuo ad essere in crisi. Dalla Riforma Protestante in poi, questo, sia dipendente che autonomo, ha rappresentato l’identificazione dell’individuo rispetto alla rendita vissuta come attività parassitaria. Oggi assistiamo al contrario, la rendita, specie quella finanziaria, viene esaltata ed il lavoro mortificato da tasse e balzelli, da remunerazioni da fame. Un orizzonte che rischia di stravolgere le esistenze di tutti, di provocare rivolte che avranno bandiere luddiste se va bene.

Pensare poi che la nostra Sardegna, in quanto periferica e con attività che si crede non robotizzabili sia indenne, più che ingenuità è incoscienza. Un futuro di pastori cibernetici è dietro l’angolo.

One Comment

  1. Mariano

    In effetti un grande salto è già stato fatto con il passaggio dalla classica mungitura a mano a quella meccanica: le pecore vengono attirate dal cibo nelle mangiatoie dove vengono bloccate al collo da un meccanismo e munte con delle pompe applicate alle mammelle. L’operatore deve riempire le mangiatoie, applicare le tettarelle e fare le pulizie, ma non deve più massacrarsi gli avambracci come con la mungitura manuale. Per ora siamo ancora nella fase rudimentale delle macchine per la mungitura. , Possiamo immaginare che fra gli attuali impianti e quelli futuri ci sarà la differenza che, per analogia, c’è fra i primi treni a vapore ed i treni a levitazione magnetica senza conducente. C’è da aspettarsi che anche per la tosatura, dopo il salto dalla forbice alla macchina tosatrice, che comporta ancora manualità, si finisca per inventare delle macchine completamente automatiche. Intanto anche la trasformazione morfologica della pecora è in atto attraverso la selezione dei i caratteri più adatti alla mungitura meccanica.
    Dietro l’angolo non c’è solo un futuro di pastori cibernetici, ma anche di pecora cibernetiche, che magari potranno ordinarsi il fieno schiacciando un bottone.

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