“Donne morte senza riposo”. Che cosa fare contro il “muliericidio”. Raccogliere l’invito del libro di Nereide Rudas all’impegno (3) [di Federico Palomba]

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Anche in Italia tanti 25 novembre sono passati senza risultato perché essi si sono risolti in qualche declamazione sterile, qualche lacrimuccia, un drappo rosso alla Camera dei deputati: ma niente più. Ma nel frattempo delle cose sono accadute: ogni 25 novembre si fanno i conti delle donne morte l’anno prima. Dai numeri degli ultimi anni emerge che il fenomeno è trasversale e non conosce età, etnia e stato sociale. Esso viene perpetrato ad opera prevalentemente di un maschio, convivente o ex partner; e quasi sempre per gelosia o per volontà di possesso.

Uno degli ultimi (non si fa in tempo a scrivere che già altri ne accadono) è l’omicidio, per mano del marito, di una signora di 68 anni avvenuto a Porto Santo Stefano. Stupisce il fatto che, probabilmente essendo i coniugi insieme da tempo, data la loro età ci si poteva aspettare, di fronte a problemi di coppia o a difficoltà contingenti, un atteggiamento più riflessivo e una maggior capacità di dialogo e, perché no, di sopportazione; senza arrivare, comunque, alla soppressione fisica.

Ne emerge il quadro di un Paese disattento, come per gran parte dei problemi che riguardano l’essere e non l’avere. Se ne ricava un senso di rabbia per l’atteggiamento di scarso interesse delle nostre istituzioni, che fanno qualche legge insufficiente, cui peraltro non danno seguito, solo perché pressate dalle sedi internazionali che ci chiedono che cosa è stato fatto in attuazione di qualche Convenzione sovranazionale. Il presidente della repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento ha fatto un accorato riferimento a questo grave fenomeno.

Ma non sono stati registrati reale coinvolgimento o partecipazione. Un po’ all’italiana: passato il momento della celebrazione o dell’adempimento di obblighi internazionali, tutto passa nel dimenticatoio, soprattutto quando si tratta di temi attinenti all’essere e non all’avere (verso il quale, invece, l’attenzione è sempre vigile).

Eppure da tempo sono stati sottoscritti tanti importanti ed impegnativi documenti sovranazionali. In particolare vanno richiamati: 1) la Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW) adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979; 2) la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata senza voto da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993; 3) l’11 maggio 2011, poi, è stata adottata a Istanbul l’importante Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77 e quindi strumento internazionale giuridicamente vincolante.

Nereide e Collaboratori riproducono integralmente quest’ultimo documento; ed a ragione, perché anche a me esso appare come il testo più completo e profondo che gli organismi internazionali abbiano saputo produrre. Da quei documenti emerge che la questione del muliericidio, come lo definiscono Rudas e Collaboratori (altri lo chiamano femminicidio o femicidio), può e deve  essere seriamente affrontata. Basterebbe darvi attuazione  in maniera convinta ed integralmente, con un sussulto di solidarietà vera ed efficace.

Mi sono perciò fatto la convinzione che occorre una manovra complessiva, e non parziale e frammentaria, che copra contemporaneamente diverse  aree di intervento. La prima è rappresentata dall’aspetto preventivo sul piano socioculturale. Occorre seguire seriamente le moltissime e importanti indicazioni della Convenzione di Istanbul per una politica organica ed integrata di interventi educativi volti a scardinare lo stereotipo del maschio padrone e a far crescere la cultura della parità tra i generi e del rispetto verso i bambini, inclusi programmi di educazione alla gestione del conflitto in modo che questo evolva verso forme di componimento e non di risoluzione violenta.

Tali programmi devono riguardare tutte le istituzioni a cominciare dalle strutture educative, compresi corsi approfonditi di formazione degli educatori, ed i mezzi di comunicazione, che devono veicolare messaggi di parità e di rispetto di genere e non di violenza e di sopraffazione. La seconda attiene al piano legislativo, che a sua volta si differenzia in diversi aspetti.

Il primo è rappresentato dal piano repressivo, che pure ha un aspetto pedagogico perché indica quali sono i beni giuridici che lo Stato  vuole più fortemente tutelati. Esso richiede una serie di interventi normativi tra i quali: una più forte protezione delle relazioni familiari e affettive con maggiori punizioni e nuove figure di delitto (come la violenza psicologica), maggiori possibilità di intervento sul piano dell’applicazione delle misure cautelari, riduzione al minimo o esclusione di attenuazioni di pena per riti alternativi e di benefici penitenziari.

Il secondo aspetto riguarda l’introduzione di più pressanti misure di prevenzione personale e patrimoniale “ante delictum” e di misure cautelari e di sicurezza “post-delictum”. Le misure di prevenzione sono oggi accorpate all’interno del codice antimafia del 2011, ma si applicano anche indipendentemente dalla partecipazione ad organizzazioni di tipo mafioso.

E’ sufficiente disporre l’estensione di quelle misure alle persone che mostrano segni di  voler affrontare con metodo violento i conflitti interpersonali ed intrafamiliari: la persona violenta deve sentire la presenza costante dello Stato attraverso  un controllo implacabile che impedisca lo sfociare della relazione in tragedia. Invece, il problema del controllo delle persone violente non viene affrontato seriamente.

Esso riguarda generalmente maschi di ogni ceto sociale, spesso abbienti, che vivono nella delirante idea che le donne o i figli sono loro proprietà e che se così non è nessun altro potrà godere del rapporto con loro. Questi maschi frustrati si sentono negati nel loro potere e non sopportano questa idea. Costoro, invece, dopo le prime manifestazioni di intolleranza, devono poter essere “marcati stretti” dall’autorità di pubblica sicurezza invece che essere lasciati liberi di molestare, minacciare, girare con armi, ordire ed anche attuare folli disegni di sterminio.

Il terzo aspetto concerne una necessaria riflessione del Parlamento il quale, partendo dall’esame della Convenzione di Istanbul, rifletta su se stesso e sulle altre istituzioni attraverso una apposita Commissione di inchiesta volta ad accertare quali sono le misure legislative necessarie e le responsabilità, anche politiche ed amministrative, della mancata attuazione di quanto disposto dalle Convenzioni internazionali, dalle stesse leggi nazionali e dai Piani antiviolenza approvati dalle stesse sedi italiane ma rimasti lettera morta.

Il quarto riguarda la necessità di agire sul piano del sostegno.

 

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