Calo demografico. La mancanza di politiche di contrasto forse non spiega tutto [di Nicolò Migheli]

NEONATO

Ogni anno dopo la pubblicazione dei dati demografici dell’Istat è un rincorrersi di spiegazioni sulla caduta delle nascite in Italia. Ed ogni anno va sempre peggio. Il terzultimo posto dell’Italia, dopo Germania e Giappone, viene confermato. Da circa vent’anni si assiste ad un’eutanasia dolce degli italiani e dei sardi in particolare, ultimi in Italia con un tasso di fecondità dell’1,07%, la metà della quota di sostituzione che è pari a due figli per coppia.

L’interpretazione più condivisa tra i demografi è che le culle vuote siano figlie di una società che non ha politiche attive sulle nascite. Una realtà che ha abolito ogni sicurezza sociale e del lavoro. Lavori precari sempre più provvisori, giovani in età fertile impossibilitati ad un futuro programmato per mancanza di certezze occupazionali, donne che ritardano le gravidanze per privilegiare la carriera professionale; anche perché i datori di lavoro non esistano a licenziare se una loro collaboratrice rimane incinta. In più, come aggravante dell’ultimo decennio, il senso di impotenza che pervade la società italiana, preda della sfiducia sul proprio futuro, in piena crisi più che economica, valoriale.

Un ambiente ostile ad ogni politica natale e della famiglia, tenuto conto poi che i giovani emigrano sempre di più e i figli li fanno altrove. Come sempre il paragone è la Francia, il sistema di garanzie per le madri che quel paese si è dato ha circa settant’anni. Programma che ha  permesso ai francesi d’avere una società relativamente giovane. Il caso francese però andrebbe spiegato meglio, perché ha caratteristiche proprie non immediatamente replicabili.

Non solo welfare. Le politiche natali in Francia cominciano dopo la II Guerra Mondiale, le ragioni della sconfitta subita da parte della Germania nel 1940 imputate, tra le tante, alla debolezza demografica del paese transalpino del tempo, meno uomini in armi rispetto ai tedeschi.

Dopo la vittoria del ’45, un programma di incremento demografico al motto: mai più meno soldati della Germania. Poi per fortuna la Germania è diventata l’alleata  più forte della Francia e una politica natale in funzione militare ha perso ogni valore. Nonostante ciò durante questo tempo governi di destra e sinistra francesi l’hanno sempre rifinanziata, nell’ottica del patriottismo repubblicano che non concepisce la scomparsa dei francesi.

Negli stessi anni in Italia una politica simile era impensabile, si veniva dall’ubriacatura fascista degli otto milioni di baionette, del premio dato alle famiglie con almeno dieci figli, dalla retorica della Grande Proletaria, per cui la scelta di avere figli o no restò delegata alla sfera individuale, appena mitigata da scarni assegni familiari; misura di sostegno sempre più in bilico tra job act e voucher. Bisogna anche aggiungere che negli anni ’50 e ’60, quelli del baby boom, un operaio o un contadino monoreddito riuscivano a mettere su famiglia.

Oggi è totalmente impensabile. Quindi non c’è bisogno di politiche di sostegno alla natalità? Certo che no, sono condizione minima per l’incremento demografico, anche se forse non bastano. Lo pongo come interrogativo guardando al caso tedesco. La Germania è in una crisi delle nascite peggiore di quella italiana, l’ultimo posto in Europa.

Le donne tedesche hanno un welfare pari se non superiore a quello francese, perché nonostante ciò i figli non si fanno? Se si guardano i dati dei nati nel mondo per 1.000 abitanti pubblicati dal Cia World Fact book relativi al 2014 si evidenziano comportamenti che vanno dai 46 del Niger ai soli 8 del Giappone. Usa 13; Russia 12; Cina 12; Italia 9; Corea del Sud 9; Taiwan 9; Germania 8; Giappone 8. Nonostante la guerra l’indice in Iraq è di 27 nati per mille ed in Siria di 23. D’altronde questa non è una novità, gli anni ’40 in Europa sono stati anni di natalità superiori a quelli odierni, come se il pericolo di scomparsa del gruppo abbia come risposta l’aumento della natalità, nonostante la ragione potrebbe suggerire di rimandare una decisione così impegnativa ad un tempo con meno rischi.

Quindi le società povere ed in pericolo fanno figli, mentre quelle ricche o solo benestanti no? Certo che quei numeri lo suggeriscono. È poi vero che società differenti con culture diverse hanno ragioni che non possono essere le stesse per tutte. Ad esempio il dato relativamente buono degli Usa se disaggregato potrebbe rivelare che gli americani di origine latina, asiatica e africana fanno più figli di quelli di origine europea. Allo stesso modo in Russia dove la crescita della popolazione di religione islamica è stata spesso additata dai partiti nazionalisti come minaccia. La Cina è un caso a sé. La politica del figlio unico solitamente maschio, sta diventando un problema serio.

Ci sono meno donne, e la loro tradizione impone che il fidanzato faccia un dono consistente alla famiglia della sposa. Di conseguenza solo i benestanti mettono su famiglia. Di sicuro però Taiwan, Corea del Sud e Giappone impongono qualche riflessione differente. Società sostanzialmente coese che nel giro di due generazioni hanno raggiunto il benessere e stili di vita occidentali e nel contempo hanno smesso di fare figli. Domande a cui i demografi non riescono a rispondere, tali e tante sono le implicazioni di natura culturale che questi comportamenti suggeriscono.

Certo, come in tutte le cose umane, i cambiamenti sono possibili, può essere che le nostre società riprendano a fare figli. Questa però non deve essere solo una decisione individuale, una società ed uno Stato che hanno a cuore il proprio futuro non possono lasciare nulla di intentato. Non ci si può lavare le mani con le colpevolizzazioni individuali come nella campagne di comunicazione promossa l’anno scorso dalla ministra Lorenzin.

I dati dimostrano che hanno effetto disincentivante. Di conseguenza occorrono politiche mirate ed azioni positive alla francese, con medesima continuità di tempo. Non si può aspettare troppo. Siamo già a fine partita.

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