La Trump economy della Giunta Regionale della Sardegna [di Nicolò Migheli]

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Ogni 22 aprile da un cinquantennio a questa parte si celebra la Giornata della Terra ed ogni anno i dati sono sempre più drammatici. In Europa ogni giorno 500 ettari di terreno subiscono un degrado spesso irreversibile, ogni anno scompaiono sotto il cemento 1.000 km quadrati, pari alla superficie di Roma. Dal 1960 in Europa la terra coperta dal cemento e dall’asfalto è raddoppiata, 20 milioni di ettari, due volte la superficie agricola italiana. [dati People 4 Soil- network europeo che aderisce a salvailsuolo.it ]

Secondo Food sustainability report della Fondazione Barilla, nel mondo negli ultimi quarant’anni il 30% dei terreni coltivabili è diventato improduttivo a causa dell’inquinamento, la siccità, l’eccessivo sfruttamento, la desertificazione. Secondo la FAO la domanda di cibo, foraggio e fibre è destinata a crescere del 60% entro il 2050. La realtà italiana è pienamente in linea con questi dati, negli ultimi sessant’anni si sono persi migliaia di ettari di terreno fertile coperti da strade, edifici, fabbriche. In parlamento giace una proposta di legge sulla salvaguardia del suolo ma si dubita molto che venga approvata entro la fine della legislatura.

Nel 1963 un disegno di legge sul suolo presentato da Fiorentino Sullo fu bocciato clamorosamente e il politico democristiano vide la propria carriera politica ridimensionata. Tanti e tali erano gli interessi che confliggevano con la sua saggia proposta. Ricordare che il terreno fertile, i boschi ed il paesaggio sono beni strategici indisponibili se non per le loro vocazioni naturali, è diventato per chi governa un mero esercizio retorico.

I governi italiani infatti firmano accordi internazionali che vengono puntualmente disattesi. In Sardegna non è diverso benché sembrerebbe che i guasti siano minori nonostante la cementificazione delle coste e le aree fortemente inquinate che nessuno sembra abbia intenzione di bonificare data la profondità della manomissione. Vero è che non è facile né lo sarà, visto che l’ISPRA calcola in 100 anni il tempo occorrente per rivitalizzare 3 centimetri di terra.

C’è stato un tempo in Sardegna in cui il valore della terra e il paesaggio hanno avuto l’attenzione dovuta. Il PPR del 2006 coglieva questa esigenza e faceva sintesi di decennali battaglie. L’applicazione dell’art. 9 della della Costituzione e del Codice Urbani del 2004 non fu facile. Troppi interessi di pochi lo hanno contrastato. Bisogna tenere a mente che la stessa XIII legislatura cadde proprio sulla legge urbanistica e che da quel momento l’obiettivo numero uno  è stato minare dalle fondamenta quel PPR piuttosto che completarlo. Grande l’accanimento da parte di Cappellacci prima ed ora della giunta Pigliaru con il DDL Urbanistica che spinge la deregulation oltre ogni desiderio del primo.

In molti su questa rivista hanno sottolineato gli effetti nefasti del DDL Urbanistica della giunta Pigliaru e dei suoi articoli palesemente anticostituzionali. Eppure tutto ciò evidentemente non basta. La giunta regionale con i suoi atti: delibera sulle aree industriali,  costruzione di rigassificatori, rivitalizzazione delle imprese inquinanti di Portovesme, costruzione di nuove centrali a carbone, è antesignana e applicatrice di una visione trumpiana dello sviluppo.

Immagino che Trump ai professori che ci governano appaia indigesto, ma quegli atti rispondono alla stessa logica, abbattere le salvaguardie ambientali purché vi sia “crescita”. Una concezione di sviluppo degna del secolo scorso dove gli incentivi per le start-up diventano il fiore all’occhiello e la foglia di fico delle ciminiere fumanti. Le stesse fonti energetiche alternative si sono realizzate qui da noi in piena contraddizione con l’uso virtuoso dei suoli. Si insite sulle aree agricole e non su quelle industriali dove si potrebbero realizzare senza compromettere il bene primario.

Tutto questo attivismo è contrastato, per fortuna, da movimenti, associazioni ecologiste, sindaci. Una nuova forma di politica di cui bisognerà tenere conto, perché loro sì vicini ad un sentire comune. Ancora una volta atti come questi interrogano l’essenza stessa della democrazia contemporanea. Il processo democratico si esaurisce con le elezioni? Gli eletti hanno libertà di decisione sino a nuove elezioni? Gli eletti a chi rispondono? Ai cittadini o ai gruppi di pressione e le lobby? Tutti questi provvedimenti si traducono in vantaggio per i sardi o per chi?

L’impressione – ormai quasi certezza- è che tanto e improvviso attivismo deliberativo  risponda ad interessi esterni all’isola, siano i gruppi di potere romano-toscani, sia la potenza finanziaria del Qatar. L’allora procuratore capo di Cagliari Mauro Mura, in un convegno del Fai dichiarò che dietro le rinnovabili si intravedeva la longa manus di capitali mafiosi. Questo è sviluppo? Anche il cancro crea PIL, visto che intorno a quella patologia si muovono interessi potenti.

Il problema dei sardi è ancora la sua classe dirigente, più interessata alle proprie vicende personali e non a quella dei suoi rappresentati. Nel XVI secolo, quando Carlo V decise che la Sardegna fosse aggregata in modo strutturale con il Consiglio d’Aragona, lo fece perché i suoi consiglieri rilevavano nell’isola una falta de cabezas, una carenza di classe dirigente, a quel tempo catalana e castigliana ma sufficientemente sardizzata dopo centocinquant’anni di presenza nell’isola.

Quei feudatari difendevano i loro poteri contro il nascente assolutismo dell’Asburgo. Oggi la falta de cabezas è l’esatto contrario: essere proni a qualsiasi decisione esterna. Per paradosso meglio gli Aymerich e i Zatrillas del tempo. Intanto perdiamo terra fertile ogni giorno.

Nessun pasto è eterno sotto il cielo”, dicono i cinesi. Il conto lo pagherà in futuro l’attuale generazione, ma soprattutto quelle che verranno. Se da loro verremo maledetti, avranno tutte le ragioni per farlo. Sic est.

 

 

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