Sandro Veronesi: “I riti non bastano, serve una memoria che parta dai valori” [di Adriana Comaschi]

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L’Unità 25 aprile 2017.  Sandro Veronesi, classe 1959, toscano, ha vinto il Campiello con La forza del passato, lo Strega con Caos Calmo.

Veronesi, cos’è per lei il 25 aprile? «Forse uno dei momenti più solenni della storia del nostro popolo, storia abbastanza breve se paragonata a quella di altre nazioni unite da secoli».

Molte polemiche hanno preceduto la giornata di oggi: la rafforzano o la indeboliscono? «Bisogna prendere atto che questo momento divide: c’è chi vuole ricordare, e chi non vuole farlo più. Un po’ perché non si riconosce nei valori che pure hanno trionfato, e un po’ perché vede la memoria come valore meno importante. Via via che passa il tempo questo è un problema che si pone per tutte le festività, bisogna accettarlo e tollerarlo: non possiamo imporre nulla, altrimenti ecco il paradosso per cui la festa della Liberazione viene vissuta come una prevaricazione.

Io festeggio: se non ci fosse stata questa data, non sarei qui e non sarei quello che sono. Da quando ho preso coscienza di cosa fosse, per me è un momento di riflessione sul fatto che i nostri nonni, i miei nonni hanno rischiato, hanno reagito perché potessi un giorno nascere e potessi diventare libero come sono. È un po’ come la storia di una famiglia in cui ci sono persone che hanno cercato di distruggere tutto, e persone che si sono battute per dare vita a un tempo nuovo: dopo quella data l’Italia è cambiata in meglio, non so chi possa ragionevolmente rimpiangere il fascismo a parte chi parla per provo care».

Negli ultimi anni sono cresciuti i movimenti di estrema destra: un fenomeno sottovalutato? «Ma questo rifiorire dell’estrema destra non è dovuta al fatto che noi non facciamo abbastanza attività di repressione, anzi questo tipo di atteggiamento non farebbe altro che accrescere il fenomeno. Il problema è che quelle zone, le aree sociali in cui allignano questi revival sono spesso trascurate, al limite, di frontiera. E dunque il potere repubblicano e antifascista degli ultimi settant’anni viene considerato responsabile delle cattive condizioni vissute soprattutto nelle città.

Anzi, in Italia non c’è una forza neofascista in Parlamento, come invece in Grecia o in Ungheria: è giusto indignarsi davanti a certi fenomeni, ma sapendo che sono minoritari. Che ci sia un contrasto è naturale, ci sono persone per cui l’antifascismo è un’ideologia da combattere: mentre bastava essere sotto il fascismo per capire quanto coraggio ci voleva ad esserlo».

Insomma un problema, anche, di disagio sociale crescente? «Certo. Non si tratta solo di revanscismo, ci sono persone comunque convinte che sia meglio vivere in uno Stato che ti dice cosa puoi e non puoi fare, che ti toglie insomma diritti individuali dandoti però l’idea di tutelare il Paese da chi vuole aggredirlo. Ci sono persone a cui non frega nulla di potersi esprimere liberamente, anche perché non hanno i mezzi culturali o economici per farlo, sono senza voce, mentre hanno problemi molto più pratici.

E allora, se non hai piantato in petto un pensiero antifascista solido grazie alla famiglia o alle amicizie può essere che il neofascismo possa essere attrattivo. È un paradosso, ma la storia ci insegna che può accadere, a livello di massa, la letteratura lo spiega a livello individuale: se leggi Dostoevskij capisci perché le persone scelgono consapevolmente il male».

Come si contrasta tutto questo? «Non è solo questione di memoria anche perché questa oggi è un valore controverso, che porti al neofascismo o allo scetticismo in tutta Europa c’è chi pensa che la memoria sia anche qualcosa che ti immobilizza. Le nuove generazioni ne perdono il senso. Prima abitavo in una piazza, a Prato, dove si tenevano tutte le commemorazioni: ci vedevo solo vecchini, mai dei giovani».

Eppure l’Anpi ora accoglie anche chi non è stato partigiano proprio per coinvolgere i giovani… «L’Anpi fa quello che può, ma non ha i mezzi né la capacità di penetrazione che solo uno Stato che organizza una ricorrenza può avere: è una questione che interessa tutto il Paese. Sempre senza imporlo, il 25, altrimenti diventa un boomerang.

Faccio un esempio: al Primo maggio, da quando i sindacati hanno associato il concerto arrivano giovani da tutta Italia per una festa vissuta come tale, non solo come una commemorazione. Allora, soprattutto in rete ci sono reati di una violenza verbale e intellettuale che va sanzionata. Ma al di là della repressione occorre prevenire l’inclinazione delle frange più a rischio della nostra società verso quel passato. Non so come, ma vanno costruiti gli anticorpi perché non accada mai più».

Neofascismi a parte, preoccupa un’intolleranza dilagante. Anche in politica…«Il problema sta proprio lì. La politica ha smesso di essere il luogo della mediazione, gran parte della classe politica acuisce le spaccature per accrescere il proprio consenso elettorale senza che questo giovi in alcun modo al Paese. Perciò dico che più di meri riti, avremmo bisogno di valori condivisi».

E come tenerli vivi, a sinistra? «Con un comportamento opposto a quello della sinistra oggi: unendosi invece di dividersi, l’inclusione non può non partire dalla tua stessa area, la storia poi insegna che una sinistra spezzettata consegna il Paese alle destre. Inoltre occorrerebbero figure su cui converga la fiducia, non esclusivamente o molto divisive che hanno una funzione magari elettorale, ma fanno male a una sinistra che punta su valori e contenuti.

E poi non si gioca tutto nel Pd, dipende da quanto si riesce a recuperare tutto un mondo che sta fuori del Pd, compresa la componente di sinistra che si trova nel Movimento 5 stelle con cui bisognerebbe dialogare».

 

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