La crescente irrilevanza delle politiche sociali della Regione Sardegna [di Remo Siza]

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Le politiche sociali in Sardegna vivono di molti annunci e pochi atti concreti, ogni programma regionale incontra insormontabili difficoltà attuative. Per la maggioranza della popolazione le politiche sociali rischiano di diventare un ambito senza identità e senza consistenza che non assicura alcuna continuità nella erogazione di prestazioni e interventi, con supporti concreti alle famiglie sempre meno efficaci e soggetti a ritardi, rinvii.

Le professioni sociali che per anni hanno contribuito a creare in Sardegna una estesa rete dei servizi alla persona, temono che l’attuale giunta regionale presieduta da Francesco Pigliaru intenda realizzare grossi passi indietro e affermare esclusivamente una profonda discontinuità rispetto alle realizzazioni degli anni passati senza proporre strategie organiche che rispondano alle nuove esigenze che esprime la popolazione. Quella che sta emergendo non è la modernità o un sistema finalmente dinamico e affidabile, ma l’approssimazione e la progettazione di programmi di intervento realizzata senza una specifica competenza in materia di servizi sociali.

Il rischio è il ritorno al sistema assistenziale residuale che molti di noi hanno conosciuto prima della legge regionale 23/2005 e prima ancora della legge 4/88 con interventi frammentati in percorsi di cura non coordinati, privi di competenze professionali, privi di strategia e di obiettivi condivisi.

Ciò che si sta consolidando nella distribuzione delle risorse e nell’individuazione delle priorità è una sorta di “rating” delle sofferenze umane di cui è difficile comprendere i criteri e la logica: si prevedono incrementi particolarmente generosi nel supporto e nella protezione di alcune condizioni patologiche, altre sono sacrificate pesantemente, senza una visione complessiva e professionale dei nuovi e dei vecchi rischi sociali presenti nella nostra Isola.

In questo modo, principalmente, si accrescono i costi e, allo stesso tempo, si riduce la copertura dei servizi assicurati alla maggioranza della popolazione, si riduce l’equità nella distribuzione delle prestazioni tra i vari gruppi sociali e nelle varie fasi di vita.

Proteste, incontri e dibattiti pubblici non sono riusciti ad invertire decisioni prive di ragionevolezza che hanno sospeso per mesi e successivamente ridotto i finanziamenti annuali che la Regione assicurava regolarmente da più di dieci anni alle comunità per l’accoglienza di giovani e adulti sottoposti a misure restrittive, alle case di accoglienza e ai centri antiviolenza. Rinvii e proroghe, provvedimenti parziali e inadeguati stanno erodendo ogni eccellenza e l’organicità dei programmi regionali su cui si fondano le politiche sociali in Sardegna.

Sulle politiche di contrasto delle povertà, un ambito delle politiche sociali fra i più rilevanti, è dall’agosto 2016 che si susseguono dichiarazioni e annunci. I progetti di inserimento delle persone in condizione di povertà sono stati presentati come una novità rivoluzionaria quando invece è noto a tutti che in Italia sono stati introdotti sperimentalmente nel 1998, in Sardegna sono stati introdotti nel 2007 con il programma regionale di contrasto delle povertà anticipando le recenti decisioni nazionali e da anni sono realizzati efficacemente da molti Comuni.

Nell’applicazione della legge regionale sul reddito di inclusione sociale, di volta in volta sono stati individuati formalmente differenti soggetti attuatori (prima l’INPS, i PLUS ora finalmente i Comuni) e differenti criteri per individuare i soggetti beneficiari. In questo modo si sono accumulati gravissimi ritardi e sono state lasciate le famiglie in condizione di povertà senza alcun supporto pubblico per un anno finanziario intero.

Il  principio che ha orientato le scelte in questi lunghi mesi di attesa è stato sempre lo stesso: è sufficiente pensare, successivamente scrivere un provvedimento, organizzare un po’ di consultazione e disporre la sua attuazione – con una nota, con una delibera, con una legge – non è necessario costruire con attenzione le condizioni organizzative e professionali, valorizzare i soggetti che prevedibilmente potranno assicurare una buona attuazione, favorire collaborazioni, reti attuative.

Per certi versi, sembra di essere tornati agli anni Novanta del secolo scorso quando si pensava che fosse sufficiente progettare un programma per assicurarne una sua realizzazione organica, quando la cosiddetta fase di implementazione non era ritenuta la fase più rilevante nell’erogazione degli interventi.

Il sociale non è più parte significativa di una strategia volta a promuovere la salute delle persone e il recente decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che definisce e aggiorna i livelli essenziali di assistenza sembra che non riguardi e non abbia alcuna implicazione per le attività del sociale.

L’integrazione socio-sanitaria, che la legge 23/2005 ha posto al centro della sua formulazione, ha fatto molti passi indietro in questi anni, riduzioni del personale hanno indebolito gravemente i servizi di salute mentale e i servizi per le dipendenze e hanno limitato significativamente le presenze degli operatori, gli orari di accoglienza e di cura. I programmi a favore delle persone con disabilità grave non sono più concretamente un’area dove si realizza l’integrazione socio-sanitaria.

Tutti gli interventi del Fondo per la non autosufficienza sono stati pensati per agire nell’area “grigia” degli interventi sanitari a bassissima intensità (una parte considerevole della riabilitazione globale estensiva, degli inserimenti di lungo periodo in strutture residenziali sanitarie, degli interventi di gestione del disturbo mentale) riportandone una parte considerevole nel sistema degli interventi sociali. Il loro consolidamento e la loro crescita incide inevitabilmente sul numero delle prestazioni sanitarie, ma anche sulla spesa sanitaria complessiva.

Su questi mesi, sul supporto alla domiciliarità, sulle forme innovative di abitare assistito, sulle strutture residenziali, vari gruppi di lavoro hanno elaborato documenti organici, ma non si comprende per quali motivi non si prevede alcuna attuazione di queste proposte. Pigliaru è stato votato sulla base di un programma sulle politiche sociali e sanitarie sicuramente molto differente che intendeva consolidare quanto faticosamente realizzato negli anni passati, adeguando, allo stesso tempo, programmi e interventi alle nuove esigenze sociali.

Ora, la soluzione che alcuni esponenti di Giunta propongono per rilanciare le politiche sociali è la soppressione della Direzione generale delle politiche sociali e la ripartizione delle sue attuali competenze tra l’Assessorato al lavoro e l’Assessorato alla sanità assumendo come riferimento quanto realizzato a livello nazionale con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Si dimentica, però, che lo Stato non ha competenza in materia sociale (salvo la definizione delle norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite) e le Regioni, invece, hanno competenze esclusiva in questa materia.

Comunque, in questa proposta non c’è nulla di nuovo: nella nostra Regione le competenze sociali per decenni sono state distribuite su vari Assessorati (Lavoro, Sanità, Affari generali, Presidenza). Nel 1988, la legge regionale n.4, per superare frammentazioni e duplicazioni degli interventi ha affidato tutte le competenze sociali al preesistente Assessorato sanità nella consapevolezza che buona parte delle problematiche sociali hanno una dimensione sanitaria decisiva (basti pensare alla condizione anziana che diventa critica quando interviene una patologia, alla disabilità, ma anche alla violenza di genere o alla povertà che nelle condizioni più gravi e persistenti ha di norma storie di dipendenza e di salute mentale).

Se ora nel governo del sociale stanno emergendo delle difficoltà credo che piuttosto che proporre ritorni all’indietro, vadano valutate con più attenzione le attuali specifiche responsabilità organizzative e umane.

A questo punto dovremmo chiederci per quali motivi si stanno indebolendo tutti i capisaldi delle politiche sociali regionali e la rete dei servizi alla persona. Qual è la strategia al di là delle dichiarazioni ufficiali? Per quali motivi non si dà alcuna attuazione a documenti predisposti da rappresentativi gruppi di lavoro e finalizzati a rinnovare operatività e procedure nella erogazione delle prestazioni per le persone con disabilità grave, nella organizzazione e rilancio della programmazione locale (PLUS), per promuovere una reale inclusione sociale delle persone in condizione di povertà?

Non è chiaro se le politiche sociali siano ancora considerate un settore innovativo delle politiche regionali oppure se s’intende risolvere una volte per tutte questa specificità regionale per affermare una visione della società in cui solo i veramente poveri e i veramente disabili sono assistiti, mentre agli altri si destinano politiche pubbliche sempre meno efficaci che necessariamente dovranno essere integrate dalle risorse economiche e umane di cui dispongono le famiglie.

Per la nostra fortuna, esiste ancora una realtà costituita da tanti operatori sociali, da tanti amministratori, tante associazioni di terzo settore che intendono comunque continuare ad operare con coscienza e conoscenza professionale, che con fatica stanno ancora producendo esperienze efficaci e innovative. A queste persone e a questi organismi associativi ci rivolgiamo nella speranza che rinasca una discussione pubblica sulle politiche sociali, sui modi e le azioni che ne possano favorire la tutela e il rilancio.

*Ricercatore e consulente  in Italia e nel Regno Unito nell’ambito di progetti internazionali sulle trasformazioni del welfare nei paesi OECD.

 

 

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