La Laveria di Assemini: ciò che non uccideva subito veniva considerato un danno collaterale [di Basilio Scalas]

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La Laveria è stata la prima vera fabbrica ad Assemini. Quando è nata era molto distante dal paese, o meglio, quel chilometro scarso che separava l’impianto dalle prime case sembrava interminabile. Era un’area malsana, inadatta a qualsiasi uso e i fiumi, ancora senza argini, la trasformavano in palude alle prime piogge, inoltre la ferrovia segnava un confine fisico e simbolico tra l’abitato e quell’altrove.

In quegli anni si temeva molto di più la malaria che l’effetto delle polveri. Il paese era molto povero e i pochi salariati erano alle Saline di Macchiareddu e alla Miniera di San Leone. In entrambi i casi si trattava di vite da bestie che quando sono arrivati quei macchinari enormi a fare il lavoro più pesante i ragazzi che avevano avuto la sorte di entrare in Laveria, in quello che oggi ci sembra un inferno, si sentivano fortunati.

Assemini è da sempre in coda alle classifiche sul tasso di scolarizzazione, gli unici che studiavano erano i figli dei ricchi, che per lo più diventavano medici, ingegneri o giù di li, gli altri, i rari studenti figli di operai, venivano indirizzati verso gli istituti tecnici, per prepararsi ad entrare nella modernità, che di li a poco avrebbe preso la forma della Rumianca.

Prima che qualcuno avesse gli strumenti per capire la pericolosità della quella polvere bianca dall’odore dolciastro che veniva dal fiume quando tirava lo scirocco, un’immensa fabbrica, brillante di cento torri d’acciaio e comignoli bianchi e rossi, più alti di qualunque cosa fatta dall’uomo si fosse mai vista, indicava la via del benessere, anche di notte, perché la fiamma sempre accesa dava la certezza che la tecnica fosse in grado di controllare la potenza di quelle forze sconosciute. Nessuno poteva temere il progresso o metterlo in discussione, perché l’alternativa era la miseria.

Con il coraggio di chi non ha scelta a migliaia entrarono in fabbrica, oltre che dai paesi confinanti con l’area industriale, moltissimi arrivavano dall’entroterra. I pericoli su cui concentrarsi in fabbrica erano talmente alti che nessuno dava molto peso a quello che chiamavano odore di Rumianca, e poco importava se presto sarebbe diventato sapore di Rumianca, che i pesci della laguna restituivano, identico all’aria che si respirava.

Tutto ciò che non uccideva subito veniva considerato un danno collaterale accettabile da pagare in cambio del nuovo benessere. Il paese viveva, con qualche decennio di ritardo, il boom economico, i proletari erano diventati classe operaia, i proprietari terrieri facevano i soldi urbanizzando tutto il possibile per far fronte all’enorme richiesta di nuove abitazioni, i muratori si trasformavano in piccoli imprenditori e il commercio prosperava.

In tutto questo, l’unico parametro che rimaneva immutato era il tasso di scolarizzazione, eravamo sempre in coda alla classifica, se non ultimi, ma questo non sembrava preoccupare più di tanto perché il denaro circolava e se non lavoravi in fabbrica il modo di partecipare a quella ricchezza lo trovavi.

Nacquero le prime mega discoteche e guadagnammo il titolo di Las Vegas della Sardegna, questo diede ulteriore lustro al paese che sempre più di frequente veniva definito cittadina e la trasformazione antropologica sembrava inarrestabile, tra queste, una minore ma emblematica, le pescherie che ormai sapevano di povero e di Rumianca, vennero soppiantate totalmente dalle macellerie, proteiche e moderne, così come sparirono vigne e orti per far posto alle serre.

Al principio furono delle timide casette basse quelle che si affacciarono a ridosso della ferrovia, i proprietari, incoraggiati dagli argini che finalmente imbrigliavano i fiumi, pur tenendosene a distanza superarono il tabù che fino ad allora aveva separato il paese dalla laveria.

Negli anni Ottanta, paradossalmente, fu la crisi a determinare lo sviluppo del paese verso l’area industriale, nel frattempo cresciuta a dismisura. La Rumianca concluso il ciclo del massimo profitto abbandonò e lasciò al suo destino l’intero stabilimento, l’Enichem subentrò alla Sir salvando solo il reparto cloro-soda che attinge dalle Saline li accanto la sua materia prima, ben presto da svariate migliaia gli operai diventarono poche centinaia e come un imperscrutabile effetto domino la miriade di piccole aziende che nel frattempo erano cresciute nel distretto chiusero i battenti.

Chiuse anche la Laveria e questo stimolò l’urbanizzazione della zona, spinta dall’inerzia della richiesta abitativa e dalla bramosia dei proprietari a cui non sembrava vero di trasformare in denaro quelle terre malsane, oggi le case sono a non più di duecento metri da quei cinque milioni di metri cubi di avanzi di lavorazione.

La fine dell’industria ha segnato anche la fine della Las Vegas e oggi i supermercati hanno preso il posto delle discoteche, alla classe operaia, finiti i tempi della cieca fede nel progresso, è toccato il destino dei reietti e oggi abbassa i toni e lo sguardo anche quando a puntare il dito accusatorio sono quelli che sul suo lavoro hanno costruito le proprie fortune, perché i mattoni e il cemento non puzzano, proprio come il denaro.

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