La città come teatro della democrazia [di Giacomo Russo Spena]

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MicroMega 20 luglio 2017. Se lo spazio urbano è sempre più terreno di speculazioni e politiche di marginalizzazione sociale, il libro “Architettura e democrazia” di Salvatore Settis ci ricorda come invece dovrebbe essere: “Il diritto alla città include, riassume e rilancia un orizzonte dei diritti civili che ci riguarda da vicino, perché interroga la nostra concezione della società“. E l’architetto in questo ha un ruolo fondamentale come garante della Costituzione che nell’art. 9 tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione.

È un errore comune: considerare il “paesaggio” semplicemente come un territorio da ammirare per la bellezza. Così pensare che l’architetto abbia solo il dovere di migliorare uno spazio rispettando determinati standard edonistici. Non è così. Nell’era delle speculazioni fondiarie, delle rendite e delle cementificazioni selvagge, l’architetto nella società d’oggi ha un’altra funzione. Di tipo sociale. E lo stesso paesaggio assume un’altra valenza, oltre a quella estetica, diventando – o, meglio, bisogna lavorare affinché diventi – il teatro della democrazia perché capace di incarnare valori collettivi. Da vivere e non solo da vedere.

Ce lo spiega bene Salvatore Settis, illustre storico dell’arte e archeologo, nel libro Architettura e democrazia (Einaudi, 164pp, 12 euro). Un saggio importante, e in controtendenza, che giunge mentre gli spazi urbani sono sempre più terreno fertile per le scorribande dell’establishment e i poteri forti, dove si è persa l’idea di città intesa come bene comune e coacervo di diritti di cittadinanza. Oggi, infatti, le città sono obiettivo prioritario degli investimenti finanziari di carattere speculativo, che generano dinamiche di gentrificazione molto difficili da contenere per i poteri dei governi locali.

Pensiamo a Roma e al recente scandalo di Mafia Capitale, alle periferie abbandonate a se stesse, ai quartieri dormitorio senza servizi, ai palazzinari e ai furbetti del quartierino che hanno costruito in deroga ai piani regolatori in nome del profitto. Con una classe dirigente compromessa e assente si è cementificato ovunque, senza alcun vincolo e logica. Scrive a tal proposito il critico dell’arte Tomaso Montanari: “La città (non solo Roma) si è disfatta, è diventata invivibile, a tratti mostruosa, perché si è smesso di pensarla e di disegnarla. Si è rotto il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale: la prima ha cessato di immaginare e modellare la seconda“.

Il taglio delle finanze locali, lo stritolamento dettato dal vincolo del Patto di Stabilità, l’ignoranza e la corruzione delle classi dirigenti hanno delegato a pochi grumi di interesse privato (palazzinari e banche, in sostanza) lo sviluppo delle città, secondo questa logica perversa: le amministrazioni permettono agli speculatori di prendersi ampi spazi pubblici, in cambio di servizi e di risoluzione delle problematiche sociali. È il caso dell’housing sociale o della politica nefasta dei residence per sopperire, ad esempio, all’emergenza abitativa. Si delega al privato, che ovviamente come prima cosa cura i propri affari, quel che la politica non riesce più a garantire ai cittadini.

È la fine dell’urbanistica ragionata e, dunque, la fine dello spazio pubblico: centri vetrina, spesso militarizzati e solo per ricchi e turisti, e periferie per poveri e ceti meno abbienti. Il centro storico sta diventando così una riserva indiana, un’area residuale, un luogo di conflitti la cui sorte dipende dagli sviluppi o dal ristagnare della speculazione edilizia. Nel libro, Settis illustra proprio come la città si espande divorando il paesaggio, e al tempo stesso si frammenta esprimendo dal suo seno due formazioni opposte e complementari: “La favela e la gated community, le mura della città diventano mura nella città“.

Si evidenzia un fenomeno di marginalizzazione sociale e urbanistica, due elementi – come stiamo vedendo – strettamente connessi. Si rompe il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale. Le nostre città diventano non/luoghi, eppure la cittadinanza è il pieno dei vissuti, la condivisione del territorio.

Negli anni Sessanta Henri Lefebvre ha coniato il termine di «diritto alla città» per esprimere il fatto che la città debba tornare alla gente nonostante la sua trasformazione in spazio di speculazione finanziaria e di generazione di profitti. Lefebvre propugna che siano i cittadini i protagonisti di una città che loro stessi hanno costruito. In questo senso il diritto alla città implica ripristinarne il significato, fornendo a tutti la possibilità di una vita dignitosa e rendendo la città «lo scenario di incontro per la costruzione della vita collettiva».

Allora ecco il bisogno di ridisegnare le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sul verde, sui servizi e sulla vivibilità. Le città intese come elemento di rottura e discontinuità, possono sperimentare con nuovi strumenti di co-partecipazione e co-gestione anche nuove forme di accoglienza per i migranti. Agorà dove il cittadino è parte attiva e non singolarità passiva di fronte a scelte calate dall’alto. L’errore più grande sarebbe quello di considerare il territorio urbano come un semplice distretto elettorale e non come il motore del cambiamento.

Il diritto alla città include, riassume e rilancia un orizzonte dei diritti civili che ci riguarda da vicino, perché interroga la nostra concezione della società: “Perciò – scrive Settis – protestare in città vuol dire intenderla non come spazio neutro ma come teatro della democrazia. E, se città e paesaggio sono le due facce di una stessa medaglia, non può esservi diritto alla città senza diritto al paesaggio“. Città, paesaggio, opere d’arte, ambiente sarebbero beni e nozioni da legare ai diritti di cittadinanza, perché in essi fiorirebbe la possibilità di una comunità che non sia dominata dai particolarismi e dall’illegalità, ma dalla lungimiranza e dalla democrazia.

Contro privatizzazione e vendita della città, in nome delle speculazioni e del profitto, diritto alla città esprime l’aspirazione delle comunità a condividere quella ricchezza collettiva che è fatta di edifici, monumenti e attività lavorative. Quel che Settis definisce, giustamente, “capitale civico“.

Alcuni architetti europei nel 2014 hanno lanciato un manifesto dal titolo How to Build a Fairer city che propone un mutamento radicale di prospettiva: incidere culturalmente e politicamente sia sull’immaginario collettivo sia sulle pratiche di governo per abbandonare il tema dominante della competitività tra città: “Il successo di una città – si legge nel manifesto – non dovrebbe misurarsi dalla sua grandezza né dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione, ma piuttosto dalla sua capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini“. La città diventa spazio aperto, dinamico, del conflitto sociale, della partecipazione e della resistenza all’establishment.

Nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi definiscono lo spazio in cui viviamo come un formidabile capitale cognitivo, che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, costruisce l’identità individuale e quella collettiva.
In antitesi, la frammentazione territoriale, la violenta e veloce modificazione dei paesaggi, il dilagare di periferie abbandonate a se stesse e prive di centro innesca patologie individuali e sociali: secondo una ricerca del 2006 il 30 per cento della varianza nell’incidenza della schizofrenia è spiegato dall’urbanizzazione.

Il discorso pubblico sulla città e quello sul paesaggio devono impegnare il mestiere dell’architetto. Come Borromini aveva ben capito, l’architetto non opera in un empireo dominato dalla sola ragione estetica né dalle sole esigenze del committente, ma dall’etica e dalla deontologia del proprio mestiere. Un mestiere che ha un forte e capillare impatto sulla vita di tutti perché incide sull’ambiente urbano e sui paesaggi modificando le dinamiche della società civile.

Nel libro Settis ricorda l’insegnamento di Lina Bo Bardi, una delle architette che meglio ha saputo insistere sul tema dell’etica e dell’impegno politico. Per lei, l’architetto moderno dovrebbe essere un “combattente attivo nel campo della giustizia sociale” e “alimentare in sé il dubbio morale, la coscienza dell’ingiustizia umana, un sentimento acuto di responsabilità collettiva“.

Anche in questo caso, basterebbe leggere la nostra Costituzione, una delle più avanzate al mondo e troppo spesso inapplicata. L’art 9 della Carta recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione“. Siamo alla costituzionalizzazione della tutela del paesaggio, inteso come bene comune.

Settis chiude il libro nel migliore dei modi, legando proprio la cittadinanza e l’etica dell’architetto: “In un paesaggio, anche urbano, la forte responsabilità dell’architetto potrà contribuire al pieno esercizio dei diritti civili. Diritto alla città, diritto alla natura, diritto alla cultura meritano questa scommessa sul nostro futuro“. Come non essere d’accordo.

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