Paesi contro (3). Gli abiti d lavoro di chi sta in campagna ci interrogano sul concetto di egemonia culturale oggi [di Umberto Cocco]

August Sander

I contadini nell’arte, nella fotografia, sono un gran tema. Come vestono, che pose assumono, che sentimenti promanano da loro e che fatica tradiscono nel gesto del lavoro, nella festa. E’ uno degli argomenti di un libro di John Berger (Sul guardare, Il Saggiatore, 2017) uscito in  una nuova traduzione pochi mesi dopo la morte dell’autore, pittore, scrittore inglese, che frequentò molto anche l’Italia e la racconta in qualche romanzo e poi soprattutto nelle pagine originalissime di lettura e critica d’arte.

Un capitolo del libro – fra Magritte, Courbet, Bacon, Rodin – è dedicato a una fotografia di August Sanders che ritrae (siamo nel 1914) tre contadini tedeschi vestiti a festa in abito scuro e panciotto, con il cappello a falde larghe, il bastone in mano: rivelano un’inconfondibile origine rurale; goffi, impacciati, i corpi malamente contenuti in abiti che non gli sono appartenuti e che solo una moda recente ha esteso a tutti i ceti sociali in Europa, in città e in campagna, centro e periferie.

Ci sono in questa immagine di Sanders, dice Berger «tante informazioni quante se ne possono trovare nelle pagine di un maestro della descrizione come Zola».

Il fotografo tedesco stava lavorando allora a un progetto dal titolo Uomini del ventesimo secolo. Ritratti 1892-1952: cercava nella zona di Colonia (dove era nato nel 1876) «archetipi che rappresentassero ogni possibile tipo, classe sociale, sottoclasse, mestiere, vocazione, privilegio. Sperava di poter scattare in tutto seicento ritratti, ma il suo progetto fu interrotto dal Terzo Reich di Hitler» scrive Berger . Il figlio fu mandato in un campo di concentramento e ucciso, l’archivio di Sanders padre, nascosto in campagna.

Fra le foto salvate, quelle dei tre contadini, di una banda musicale anch’essa di paese, e poi quattro missionari protestanti con gli stessi abiti ma finalmente ben portati, e che «invece di deformarla, conservano l’identità fisica e quindi la naturale autorevolezza di chi li indossa».

Berger vede nella foto nella quale i contadini tradiscono l’impaccio del vestito nuovo, «un esempio minimo, ma molto efficace (forse l’esempio più efficace che esista), di ciò che Gramsci chiamava egemonia di classe».

Il completo da uomo si è sviluppa in Europa negli ultimi decenni dell’ Ottocento: quasi un’uniforme, è l’abito da lavoro della classe dirigente, sedentaria, l’amministratore che tiene conferenze e fa di conto, non si muove. E’ lo stile del gentleman inglese che lancia la moda, alla fine del secolo, e soprattutto prima e dopo la Grande Guerra, quando il completo da uomo, a tre pezzi, viene prodotto su larga scala per le masse urbane e i mercati rurali.

Con variazioni a cui ogni singola area l’ha sottoposta, è la moda arrivata anche in Sardegna e nelle aree rurali del Mediterraneo in quegli stessi anni: pantalone, giacca e corpetto confezionati in velluto, e non solo nero ma anche marrone e verde oliva.

I corpi dei contadini e dei pastori sono costretti dentro questa divisa, l’energia del lavoratore manuale compressa e ingabbiata, i movimenti bloccati e irrigiditi, così che l’impaccio è evidente, la goffaggine che vede Berger è in migliaia di scatti dell’iconografia contadina del Novecento.

Ci sono interessantissime forme di adattamento di questo completo da parte del ceto rurale locale: in Sardegna vengono introdotti i gambali in cuoio (di origine militare, i calzolai sardi impararono a farli in guerra nelle retrovie, era il consolidamento della ghetta del costume tradizionale, e si affermarono soprattutto nelle zone interne), poi i berretti a visiera, la coppola importata dai commercianti di Napoli che si insediarono nel commercio a Cagliari e facevano le mode, come in Sicilia e in Calabria.

«Nessuno – scrive Berger – obbligava i contadini a comprarsi quegli abiti; i tre giovanotti che si avviano al ballo sono evidentemente molto orgogliosi di indossarli, anzi, li portano con una certa ostentazione».

 Ma proprio per questo l’abito a giacca è «un classico esempio di egemonia di classe».

«Nell’adottare come propri i criteri della classe dirigente, nell’accettazione di quegli standard, nel conformarsi a quelle norme che nulla avevano a che fare né con la loro tradizione né con la loro esperienza quotidiana, contadini e pastori, e operai e ceti subalterni, sono condannati, all’interno di quel sistema normativo, a essere sempre, e in modo riconoscibile per le classi superiori, mediocri, goffi, ordinari, insicuri. Ed è proprio così che si soccombe all’egemonia culturale» , scrive ancora Berger.

Che si riserva una speranza, in conclusione del capitolo su Sanders: che «i nostri tre giovanotti, arrivati alla festa, dopo aver bevuto un paio di birre e occhieggiato le ragazze, abbiano appeso la giacca, si siano tolti la cravatta e abbiano danzato – forse tenendo ancora in testa il cappello – fino all’alba, fino alla nuova giornata di lavoro».

E’ lo spiraglio dell’uscita ribellistica, un po’ situazionista, del popolo che non si rassegna alla subalternità e reinventa modi e culture proprie, rivoltando quelle che i dominatori credono di avere fatto passare.

Interessante suggestione. Tutt’altro che con frivolezza, la lettura degli stili vestimentari dei ceti rurali potrebbe raccontare per esempio una Sardegna diversa da quella che credevamo di vedere anche soltanto qualche anno fa, nell’esplosione della moda del vellutino quasi come di uno stile “etnico”. Popolare, pastorale, un po’ ribelle, “fuorilegge”.

A vederli oggi nelle occasioni pubbliche in cui si rappresentano, contadini e pastori sembrano avere abbandonato quegli abiti. Ne resta qualche segno, ma in zone marginali, alle corse dei cavalli, a Chilivani, qualche giovane che gioca a morra. Alle manifestazioni di protesta indossano disciplinatamente le magliette gialle della Coldiretti e quelle blu del Movimento di Felice Floris.

Al lavoro, sui potenti pick up, si vedono con in testa  berretti da baseball e vestiti di tute da lavoro colorate e larghe che sembrano disegnate da Rodchenko (artista dell’avanguardia russa in mostra al Man di Nuoro), sugli uni e sulle altre le scritte delle ditte di mangimi, come tutti i contadini e gli allevatori del mondo, gli  americani come li vedeva Kerouac negli stati agricoli dell’America profonda e i veneti che colonizzarono Arborea.

E’  il mondo globale all’opera negli stili e nei non-stili, il no-logo come ultima forma del dominio capitalistico che volgarizza le produzioni mentre impone nomi e marchi? Non è il massimo dell’omologazione, mentre tutti crediamo di fare quel che ci pare in libertà, nel pieno della scelta informale, essenziale, non condizionata?

Il saggio di Berger su August Sanders è del 1972, e quarant’anni prima Gramsci si interrogava sul concetto di egemonia culturale.

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