Spopolamento ed emigrazione, un fenomeno mondiale [di Giuseppe Pulina]

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Dopo aver dormito sonni tranquilli per decenni, nei quali è bene dirlo i segnali della denatalità e della rarefazione della popolazione nelle aree interne della nostra Isola erano chiarissimi, il mondo politico, quello accademico e la cosiddetta “società civile”  (termine il cui significato ancora non mi è chiaro) si affannano in analisi (molte) e proposte (poche) per rispondere, ciascuno a modo suo, a quello che rappresenta il fenomeno storico più importante che sta investendo la Sardegna: lo spopolamento.

Per contro, le ondate di migranti che, con crescente frequenza, si infrangono sulle nostre coste (e sulle nostre frontiere terrestri e aeroportuali) creano una grande preoccupazione nell’opinione pubblica e radicalizzano il dibattito fra “accoglisti” e “respingisti”, nel quale sembra alla lunga prevalere l’opinione di questi ultimi, complice una Unione Europea più dedita a coltivare gli egoismi nazionali che le solidarietà globali.

Nell’animo degli europei, sempre più allarmato dal crescendo migratorio e preoccupato dal permanere di sacche di crisi economica, emerge diffusamente la sindrome della zattera che giustifica il lasciare a bagno (e condannare a sicura morte) il naufrago che farebbe affondare tutta la barca provocando la morte di tutti gli altri occupanti. Le cose, però, stanno diversamente da come sono spesso rappresentate.

Innanzittutto incremento demografico, spopolamento ed emigrazione sono facce della stessa medaglia di un fenomeno globale. Recentemente l’ONU ha cambiato al rialzo le stime per la popolazione mondiale al 2050, valutandole in 9,8 miliardi di individui per il maggiore contributo dell’Africa rispetto a quanto atteso pochi anni or sono. I Paesi  sviluppati subiranno una stagnazione, con popolazione costante intorno a 1,2 miliardi di persone, mentre quelli meno sviluppati si accolleranno interamente l’incremento previsto (+2,8 miliardi di persone).

Fra i Paesi sviluppati, l’Italia conoscerà un calo di oltre 7 milioni di abitanti, nonostante il saldo migratorio e la fertilità dei nuovi arrivati migliorino decisamente  il quadro rispetto alle stime basate esclusivamente sugli italiani “storici”. I Paesi in transizione (i cosiddetti BRIC, Brasile, India, Cina e analoghi)  terranno sostanzialmente inalterato il numero degli abitanti, soprattutto per la fertilità di cinesi e della metà degli indiani che è inferiore al tasso di sostituzione fissato dai demografi in 2,1 figli per donna.

Come prima conseguenza, nei prossimi 30 anni la popolazione mondiale subirà una inversione della piramide dell’età, con un accumulo di anziani e una progressiva scarsezza di giovani. Questo fenomeno si accentuerà nelle aree più sviluppate con due esiti: aumento vertiginoso degli anziani da assistere nei Paesi ricchi e che si avviano a diventarlo e i giovani (molti dei quali privi della più elementare formazione) concentrati nelle zone più povere e arretrate del pianeta.

Questi squilibri metteranno a dura prova le prospettive di sviluppo di medio e lungo termine, soprattutto di Cina e India, nazioni che hanno bisogno di imponenti coorti di lavoratori fra i 20 e i 30 anni in grado di accompagnare i tassi di crescita conosciuti nel primo ventennio di questo secolo. Uno straordinario saggio di Nicholas Eberstadt (The Demographic Future: What Population Growth—and Decline—Means for the Global Economy) già metteva in guardia nel 2010 gli economisti da facili previsioni che non tenessero conto del geopardismo demografico mondiale. Il riflesso di questo squilibrio demografico epocale è l’emigrazione.

Ronald Skeldon, dell’Università del Sussex, nello studio “Global migration, demographic aspect and its relevance for development, ci avverte che la visione corrente sui fenomeni migratori é fondamentalmente sbagliata: non é vero che i migranti vanno semplicemente da A a B, che origine (paesi poveri) e destinazione (aree ricche) sono predeterminate, che sviluppare le aree di origine stopperebbe l’emigrazione e che la maggior quota di emigrazione é internazionale.

É piuttosto dimostrato che il fenomeno migratorio è complesso (con rientri significativi e movimenti circolari), con confusione fra entrate temporanee e permanenti e con ricambi fra luoghi di emigrazione e di immigrazione. La situazione italiana al 2050, all’interno della quale la sarda é la peggiore, vedrà una attesa di vita aumentata di 4 anni per i maschi (fino a 84 anni) e di 5 anni per le donne (fino a 89 anni), con la popolazione degli ultra settantenni che passerà dagli attuali 9,5 milioni a oltre il 17 e di conseguenza la popolazione in età attiva (15-65 anni) scenderà dagli attuali 40 milioni a 29.

Con questi numeri il sistema nazionale rischia il default e a farne le spese immediate saranno le aree rurali. Secondo uno studio sulle traiettorie dell’uso del suolo al 2030, pubblicato da Peter Verbug e colleghi di Wageningen (Trajectories of land use change in Europe: a model-based exploration of rural futures), vaste aree interne dell’Europa conosceranno devastanti fenomeni di spopolamento; fra queste la nostra Isola è collocata nelle peggiori posizioni in tutti gli scenari esplorati.

Si può fare qualcosa? Proviamo a riconsiderare gli immigrati come una risorsa: uno studio spagnolo (Collantes e colleghi, Reducing depopulation in rural Spain. The impact of immigration) ha dimostrato che l’arrivo degli immigrati nelle aree rurali spagnole con grave spopolamento ha arrestato il fenomeno e in alcuni casi, ha consentito la ripresa demografica.

Sarà allora il caso che Italia, e Sardegna, riconsiderino in profondità gli approcci al prossimo piano di sviluppo rurale (magari iniziando con la  revisione di quello in corso) al fine di considerare quale obiettivo principale la riduzione dello spopolamento e utilizzare, fra gli altri strumenti, quello dell’integrazione degli immigrati nel tessuto produttivo delle aree interne?

 

One Comment

  1. tzoari

    Articolo che riferisce sulle analisi (molte) e non accenna a nessuna proposta (poche), se non a dannosi stereotipi , radicati nelle convinzioni liberiste, le quali , peraltro, hanno determinato e continueranno a determinare la situazione attuale.

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