Antonino. (Un omaggio a Pierfranco Zappareddu) [di Giulia Clarkson]

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Non si viene al mondo allo stesso modo. Nessuno nasce dalla stessa apertura d’utero o sotto la stessa spinta. Variano predisposizioni generazionali di benevolenza, comprensione e desiderio. I fianchi larghi di mia madre costituirono per me comodo riparo e il suo dolore fu lieve, alla nascita. A lungo ne parlò come se si fosse trattato di gioia. Scivolai fuori da lei così beatamente che il mio primo vagito rimase sospeso in un breve, cordiale saluto.

Nacqui. La terra era morbida e l’acqua avvolgente. Vidi il sole ed esclamai: “Sono nato, sono nato, sono nato…” Ero ancora nella felice condizione di non distinguere il sentire dal pensiero. Lei diceva che sarei rimasto sempre nel suo ventre e che non avrei dovuto preoccuparmi di niente. Canticchiava nenie dal profumo estatico ed inquietante e mi chiamò Antonino, mettendomi nella mano destra lo scalpellino che dà forma e nella sinistra il vaso in cui pisciare.

Donna di una forza tutta terrena e una pregnanza torrida d’agosto, mia madre. Di lei ho gli occhi di nero scoiattolo: veloci, vividi e voraci. E la prontezza di parola che fulmina e scolpisce. Con lei conobbi l’irrefrenabile eccesso della curiosità e assieme, sulle nostre mani congiunte, feci il patto che mi impegnava alla coerenza di affermazioni e manifestazioni. Così nacqui e continuai a nascere ininterrottamente, proprio come lei aveva desiderato.

All’età di tredici anni conobbi mio padre. Sì, molto più tardi l’ho incontrato. Non per irriconoscenza né per dispetto, ma per semplice inconsistenza di dialogo. Io ero affamato, di una ingordigia che lasciava sgomento chi mi vedeva per la prima volta. Lui era cadenzato e prolisso, ricco di un’eloquenza ben educata e futile. Per quell’educazione, confusa con la vita trascorsa, lo vedevo, durante ogni nostra discussione, invecchiare visibilmente. Di una nuova ruga. Mentre io, come speculare ritratto disegnato dal tempo, acquistavo la sfavillante bellezza dell’onnipotenza.

Questo non volle mai intendere: che non potevo non disprezzarlo per riconoscermi altro da lui. Allora pensavo che non ci fosse eccezione alla libertà e non ci fosse compromesso che la libertà potesse accettare. Per la casa in cui mi aveva cresciuto e il cibo, i vestiti, gli studi che mi aveva offerto, capivo che si era piegato. Non potevo non esserne indignato. Masticavo parole come rispetto, meraviglia, verità. Le condivo con spezie non sempre conosciute, spesso dal sapore lontano e ingenuamente truffaldino. Mio padre ribatteva, come nel finale di un movimento incalzante e vorticoso, l’affermazione perentoria che avrebbe, nel suo sentire, messo termine a ulteriori discussioni: “Nessuna violenza è mai giustificata!”Accennavo appena ad apporre il mio personalissimo corollario che mio padre si alzava, irascibile come struzzo estromesso dal basso della terra. Era paonazzo, la bocca storta nella smorfia di chi ha incassato una sberla nel pieno della guancia.

Abbandonai la casa del padre che non era più mio padre. Abbandonai la madre che continuava a volermi parte di sé. Cercai il luogo in cui fosse ammissibile permanere in punta dei piedi per spiare, finalmente, la tensione implacabile che delimitava ciò che si definiva nel lecito. E m’imbattei nella superficie argentea di un lago che, a seimila metri d’altezza, rimandava a me stesso l’eredità che rifuggivo.

I Tarahumara mi ospitarono sotto la pelle delle loro case. Non parevano meravigliarsi dei miei tormenti, ben conoscendo il canto attraverso cui si scioglie una situazione dolorosa.Alcuni vollero conoscermi, più degli altri, nel corpo e nello spirito. Mi offrii loro ed imparai a riceverli dentro di me. Per la prima volta correvo su un cavallo obliquo nel vento. Alla conquista dell’unico spazio, soffuso nell’aria, che conteneva la mia forma riconoscibile.

Alitavo per conquistare ulteriori appendici spaziali conseguenza della mia dilatazione, e dopo le prime, rauche emissioni, iniziai a condurre a me le visioni più mirabolanti. Scoprii di avere risvegliato le vibrazioni che mettevano in moto la forza degli dei, resi fino ad allora muti dall’equivoco della libertà. Credetti di poter ritornare, forte delle mie nuove acquisizioni, nel mondo in cui scaffali di poesia avevano decretato la morte dello spirituale. Attraversai nuovamente l’oceano, supponendo che l’imbarcazione avanzasse sulle onde. Non rivolsi parola né alla signora inglese che, riparandosi dalla troppa luce con il parasole bianco, notò la singolarità del mio bastone scolpito, né al mandriano rugoso, cui le vacche avevano ostruito sul nascere ogni tentativo di pensiero.

Lo spirito che s’ergeva dall’acqua mi ricordava dell’inopportunità di ogni futile distrazione e mi riportava all’essenziale. Tutto il corpo danzava sul ritmo del respiro e ciò mi infondeva un profondo benessere. Due giorni prima di giungere in porto, quando si era già in prossimità delle coste della Spagna, un violento temporale si abbatté sul mare. Le onde divennero imponenti muri che tentavano di impedirci il passaggio. La notte, squarciata dai fulmini, rivelava la sua cieca insensibilità. Dubitai che saremmo sopravissuti ma sbagliai, sebbene per un’inezia.

Ad attendermi, al molo, ritrovai mia madre, in un lungo lino di canapa indiana con i colori della mia giovinezza. Disse che mi trovava smagrito e che da quel momento si sarebbe presa cura di me. Qualcuno le aveva scritto che là, presso i selvaggi, avevo vissuto in promiscuità facendo uso di droghe e adorando le montagne e il vento. Assecondai la sua volontà lasciando che mi si torturasse sui lettini degli ospedali psichiatrici, non desistendo neanche dopo la prima serie di cure, quando l’elettrochoc mi provocò la frattura della nona vertebra dorsale. Ero perfettamente cosciente del mio crimine: quando tutti si presentavano rassomiglianti a tutti, io, Antonino, continuavo a pretendere di somigliare a me stesso.

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