L’astensione di sinistra si recupera se cambia tutto, volti e programmi [di Livio Pepino]

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il manifesto, 3 novembre 2017. Le elezioni di primavera si avvicinano. Ciononostante il dibattito sulla praticabilità e le condizioni di una lista unica a sinistra, alternativa al Pd, non decolla. O, più esattamente, tutti ne parlano ma prevalgono i tatticismi e i non detti, i silenzi sui contenuti programmatici e sul metodo per arrivarci, i ballons d’essai per un “federatore” o un leader. Se si continua così la lista unica non si farà o sarà una aggregazione di vertice assai simile a quelle ripetutamente sconfitte nel decennio scorso. Conviene dunque, come si dice, mettere i piedi nel piatto.

Nelle decine e decine di dibattiti a cui ho partecipato dopo l’assemblea del Brancaccio del 18 giugno ho incontrato migliaia di persone, prevalentemente con i capelli bianchi ma anche giovani, provenienti da forze politiche ma ancor più “cani sciolti” delusi dalla politica e dai suoi interpreti.

La richiesta è stata unanime: ci vuole una lista unica (perché separati non si va da nessuna parte e si perde tutti) e in assoluta discontinuità con il passato (perché di personalismi, di accordi di vertice, di contenuti ambigui, di riproposizione degli stessi metodi e delle stesse facce non se ne può più). E poi: se non si farà una lista rispondente a entrambi quei requisiti non andremo a votare (come nelle elezioni scorse o per la prima volta).

So bene che quel che ho toccato con mano non è un campione statistico ma credo si tratti di un sentire assai diffuso, non solo nello zoccolo duro della sinistra.

Ci sono, del resto, dati univoci che lo confermano. In un quadro generale di fuga dal voto, chi se ne allontana di più è il popolo della sinistra (o quello che un tempo era il popolo della sinistra). Nelle ultime elezioni regionali (novembre 2014-maggio 2015) la più bassa affluenza alle urne si è verificata nella rossa Emilia Romagna, dove ha votato il 37,71 per cento dei cittadini (poco più di uno su tre), e in quelle amministrative della primavera scorsa la fuga dal voto ha riguardato soprattutto roccaforti storiche della sinistra (che, non per caso, hanno smesso di essere tali).

Basta guardare Genova e La Spezia, dove, al secondo turno, ha votato rispettivamente il 42,6 per cento (al primo 48,3) e il 46,5 per cento (55,3) degli aventi diritto.

Una parte consistente degli elettori della sinistra e di quelli a cui tradizionalmente la sinistra si è rivolta (cioè chi sta peggio) non vota più o guarda altrove: al Movimento 5Stelle e alla Lega, beneficiari di un voto di rancore sociale e di vendetta nei confronti di una classe politica ritenuta, nel suo insieme, responsabile della crisi e della disuguaglianza senza freni.

Questo trend ha avuto una inversione solo nel referendum costituzionale del 4 dicembre in cui il voto ha raggiunto la percentuale del 65,47 per cento, assolutamente inedita per quel tipo di consultazione: in cifra assoluta 33.244.258 votanti, 4.250.000 in più di chi ha votato nelle tanto celebrate elezioni europee del 2014.

Ovviamente non tutto quel surplus di elettori e della connessa valanga dei No ha sposato un progetto politico di sinistra. Ma una parte consistente lo ha fatto, manifestando con quel voto la propria contestazione nei confronti di un establishment (Governo, poteri economici e finanziari, grandi giornali) vissuto come estraneo e ostile. E si è trattato di uomini e donne, soprattutto giovani, che hanno trovato – lo si è toccato con mano nella campagna referendaria – entusiasmo e motivazioni che sembravano definitivamente perdute. La loro irruzione sulla scena pubblica è il fatto nuovo che può sconvolgere gli equilibri e aprire le porte al cambiamento.

Oggi la scelta per la sinistra è, dunque, chiara: rivolgersi a quel popolo per costruire insieme un’alternativa o muoversi nello spazio stretto del 50 per cento che ancora vota cercando di spostare qualche punto percentuale (magari approfittando del cupio dissolvi di altri, come sta accadendo per il centrosinistra in Sicilia).

Per una sinistra minimamente consapevole l’opzione non può che essere la prima. Ma non basta dirlo. Occorre praticarlo con scelte esplicite di rottura e di discontinuità Anzitutto con un programma essenziale e comprensibile a tutti fondato sul protagonismo del pubblico negli investimenti e nella creazione di posti di lavoro, su una effettiva progressività fiscale, sulla messa in sicurezza del territorio, sull’abbandono delle grandi opere e l’abbattimento delle spese militari, sul ripristino delle tutele fondamentali del lavoro, sul rilancio della scuola pubblica e del welfare, sulla centralità della questione morale, su politiche di accoglienza serie e responsabili.

Con una profonda novità di metodo comprensiva di un passo indietro dei partiti (reale e non gattopardesco), della definizione partecipata e dal basso delle candidature, di una leadership collegiale e rispettosa della parità di genere, di un impegno per la riduzione delle spese della politica. Su queste basi si può e si deve costruire una lista unica.

Subito – ché il tempo è ormai poco – e senza perdersi in discussioni sulle alleanze e nella ricerca di leader più o meno improbabili. Altrimenti quel che si profila sono soltanto divisioni o ammucchiate inconcludenti e impresentabili. Se così fosse è facile prevedere che saranno (saremo) in molti a tirarsi fuori dall’ennesimo suicidio annunciato.

 

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