Il Parlamento nella Sardegna spagnola (III) [di Pietro Maurandi]

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La Sardegna in epoca spagnola non ha mai messo in discussione l’appartenenza al regno di Spagna, tanto meno la nobiltà sarda che era di origine e di cultura spagnola. Sulla riserva delle cariche si accese lo scontro fra il rappresentante del Parlamento, il marchese di Laconi, e il governo spagnolo. Su questo il governo spagnolo non cedette e il marchese di Laconi restò fermo nella sua richiesta. La trattativa si chiuse con un nulla di fatto.

Don Agustin de Castelvì ritornò in Sardegna accolto come fosse un vincitore, anche se non aveva ottenuto nulla dal governo spagnolo. Ciò che lo rendeva affidabile agli occhi dei sardi era la sua capacità di resistere e di tenere ferme le posizioni su cui il Parlamento lo aveva delegato. Un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 di giugno del 1668, il marchese di Laconi fu assassinato con un agguato nelle strade del Castello. Dopo di che il Parlamento, sempre riottoso, venne sciolto d’autorità dal viceré, naturalmente su ordine della corona, senza che il donativo venisse votato.

Dopo questo assassinio, cui seguì un mese dopo l’assassinio del viceré marchese di Camarassa, ad opera dei partigiani del marchese di Laconi, il Parlamento sardo continuò ad essere convocato ogni dieci anni, ma aveva ormai perso ogni capacità di iniziativa e finì per essere succube del viceré.

Così finisce la lotta del Parlamento nella Sardegna spagnola, o meglio così finisce proprio il Parlamento, come organismo vivo e rappresentativo, anche se privo di potere decisionale. Nel 1718 si concluse la guerra di successione spagnola. La Spagna ne uscì sconfitta e perse tutti i suoi territori italiani (ducato di Milano, regno di Napoli, regno di Sicilia, regno di Sardegna). Col trattato di Utrecht, poi convalidato dalla pace di Londra del 1720, la Sardegna fu assegnata prima all’Austria poi ai duchi di Savoia, dopo uno scambio con la Sicilia.

Secondo il trattato, i piemontesi non potevano portare nessuna modifica rispetto agli antichi ordinamenti spagnoli. I nuovi governanti seguirono questo punto su tutte le materie, meno una: il Parlamento, che secondo quegli ordinamenti doveva essere convocato ogni 10 anni, i piemontesi non lo convocarono mai. Le timide ipotesi di convocarlo per approvare il donativo in epoca sabauda, non ebbero mai alcuno seguito.

C’era il timore che il Parlamento, come sempre non si sarebbe limitato ad approvare il donativo ma avrebbe avanzato richieste. I Savoia volevano sottrarsi proprio a questa procedura, che dava al Parlamento della Sardegna una forza politica e morale, con la quale si sarebbero dovuti confrontare.

Nel 1793, in occasione del tentativo francese di sbarcare a Cagliari, il Parlamento si autoconvocò, per iniziativa di Vincenzo Sulis, capopopolo cagliaritano, al fine di organizzare la difesa.

La procedura di convocazione fu anomala, ma fu sanzionata dal viceré; di fatto a quegli incontri parteciparono solo coloro che riuscivano a raggiungere facilmente Cagliari. Per il resto non ebbe vita alcuna. Per approvare il donativo, i piemontesi, con procedura sbrigativa e irregolare, riunivano le prime voci, che regolarmente approvavano senza discussioni e senza richieste, o con qualche richiesta timida e poco significativa. Il Parlamento sardo quindi era morto nel 1718/20, con la fine della Sardegna spagnola.

I Parlamenti di origine medievale, come quello sardo, sono Parlamenti elitari, nel senso che l’elettorato attivo e passivo è riservato a particolari categorie, definite per nascita o per censo; l’idea e il principio dell’egalité era del tutto estranea a questi Parlamenti. Fino allo Statuto albertino compreso, che fu tuttavia modificato più volte con leggi ordinarie. Era possibile farlo perché lo Statuto era flessibile e non rigido come l’attuale Costituzione, per cui lo si poteva modificare con leggi ordinarie; e lo si poteva anche violare, come poi farà il fascismo.

Non c’era un organo come la Corte Costituzionale che vigilasse sul rispetto dello Statuto. In effetti il garante era, o doveva essere, il re. Fu allargata progressivamente la base elettorale, fino a comprendere, nel 1912 con la riforma di Giolitti, tutti i maschi sopra i trent’anni di età, nel 1919 l’età fu ridotta a 21 anni. Non si trattava dell’adozione dell’idea dell’egalité ma della presa d’atto, realistica e pragmatica (alla Giolitti), della situazione della società italiana, che vedeva altri soggetti, i lavoratori, emergere nella vita civile ed economica, per diventare soggetti socialmente e politicamente attivi, con le loro organizzazioni sindacali e politiche.

Quei Parlamenti, proprio perché elitari, non prevedevano alcuna remunerazione per i deputati. L’indennità ai parlamentari era vietata dallo Statuto albertino. L’art 50 diceva esplicitamente che “Le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità.”

La norma fu poi aggirata nel 1912, con il solito pragmatismo giolittiano: diventò inevitabile istituire la retribuzione dei deputati, per consentire a tutti di fare il parlamentare. Ma non volendo modificare lo Statuto su questo punto, il divieto fu aggirato giustificando la retribuzione come rimborso delle spese postali.

Questa modalità di trattare il problema della remunerazione dei parlamentari rivela l’esistenza di atteggiamenti piuttosto imbarazzati e restìi di fronte a questo problema, che in parte permangono ancora oggi. Come se fosse in qualche modo disdicevole e volgare percepire un compenso per un’attività di rappresentanza. Fortunatamente la Costituzione ha risolto il problema con l’art. 69, in senso opposto allo Statuto albertino: “i membri del Parlamento ricevono una indennità stabilita dalla legge”.

La ridotta rappresentatività dei Parlamenti elitari sconta e rivela la circostanza che l’idea e la pratica dell’egalitè era stata abbandonata con la fine della Rivoluzione Francese e si era tornati, con la restaurazione, ad una concezione elitaria.

Poi venne il fascismo che soppresse il Parlamento sostituendolo con la Camera dei fasci. Per un Parlamento che si fondasse nuovamente sull’idea di uguaglianza bisogna giungere in Italia al Parlamento della Repubblica, con la grande novità del voto aperto a tutti i cittadini, uomini e per la prima volta donne. Così l’egalitè ritorna come un requisito essenziale della democrazia.

Non c’è democrazia senza eguaglianza, che vuol dire nessuna discriminazione fra i cittadini per le loro idee, la religione, la razza, la lingua, il sesso, le condizioni personali e sociali (come dice l’articolo 3 della nostra Costituzione).

E ritorna anche la remunerazione dei parlamentari, che era stata introdotta dalla Rivoluzione Francese nel 1789, per sottrarli a possibili manovre corruttive della corte e per consentire a tutti, ricchi e poveri, di essere deputati. Anche la remunerazione costituisce quindi un requisito dell’eguaglianza dei cittadini. Giolitti riferisce che, prima di istituire la remunerazione dei parlamentari, quelli che non erano romani, di giorno stavano in Parlamento, di notte salivano su un treno e vi passavano la notte, perché i trasporti per essi erano gratuiti. La remunerazione ritorna con l’art. 69 della Costituzione.

L’uguaglianza non vale solo per i cittadini rappresentati ma anche per i rappresentanti fra loro.  Ricordo che quando sono entrato in Parlamento, il mio gruppo ha riunito tutti i neofiti e il capogruppo ci ha detto: “troverete persone non solo di diversa collocazione politica, ma di diversa cultura e personalità; rispettate tutti perché tutti, colti e ignoranti, professori e bidelli, professionisti e operai, sono tutti il risultato dell’elezione da parte dei cittadini.” Anche qui vale l’idea di uguaglianza come requisito della democrazia.

Il Parlamento è quindi la sede emblematica e sostanziale dell’eguaglianza dei cittadini: torna l’egalitè come requisito fondamentale della democrazia. In questi tempi, in seguito all’abbassamento del livello della qualità generale e del prestigio della politica, abbiamo perso la distinzione fra Parlamento come istituzione e figure di singoli parlamentari, che alle volte rispetto non ne meritano proprio. Ma il Parlamento con elezione diretta di tutti i cittadini è il frutto dell’eguaglianza e quindi è il cuore della democrazia.

C’è infatti un dato comune fra tutti i Parlamenti, quelli antichi e quelli moderni: che hanno sempre svolto un ruolo di rappresentanza, di che cosa o di chi dipende dall’epoca e dalla società in cui sono inseriti. Le dittature sopprimono i Parlamenti: il fascismo lo fece con le leggi, nel1924, nel 1928 e nel 1939. Con la prima (legge Acerbo) alla lista più votata, anche con un voto in più, andavano i 2/3 dei seggi; con la seconda (L. elettorale del 1928) tutti i seggi andavano alla lista unica del partito fascista; con la terza la Camera dei deputati veniva senz’altro soppressa e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni.

Nello Statuto albertino il Parlamento rappresentava le classi egemoni e prevedeva una limitazione dell’elettorato attivo e passivo, prima per censo, poi per livello di istruzione.Fu modificato in epoca giolittiana, sotto la spinta dell’espansione del movimento socialista, con l’allargamento progressivo dell’elettorato: nel 1912 fu istituito il suffragio universale maschile per chi era sopra i 30 anni (era il 23% della popolazione). Solo nel 1919 il suffragio (sempre maschile) fu allargato a tutti i maschi maggiorenni (21 anni), senza altre limitazioni, forse perché la guerra appena conclusa non aveva fatto troppe distinzioni.

Solo dopo la fine del fascismo, per il referendum istituzionale e per l’elezione dell’Assemblea Costituente, il 2 giugno1946 votarono tutti, comprese per la prima volta le donne, e il Parlamento riacquistò pienamente il suo ruolo di rappresentanza e, come era stato per la prima volta nella Rivoluzione Francese, di luogo emblematico dell’uguaglianza di tutti i cittadini.

E così rimane: la nostra è una Repubblica parlamentare, questo comporta alcuni problemi e difficoltà, che sono tuttavia superabili, ma ha il vantaggio di lasciare il potere legislativo e di controllo dell’esecutivo nelle mani dei rappresentanti dei cittadini, cioè nella massima sede ed espressione dell’uguaglianza.

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