Democrazia della cultura [di Mariasole Garacci]

Ultimi reperti Mont'e Prama in museo a Cabras

MicroMega 6 dicembre 2017. Dal 2014 la libertà di scattare fotografie nei musei è legge, da pochi mesi estesa anche ai beni archivistici e librari rispondendo alle attese degli studiosi di diverse aree umanistiche. Ma per molti non è ancora chiaro che la liberalizzazione delle immagini è una questione democratica, decisiva per il significato che vogliamo dare al concetto di “patrimonio culturale”.

Il 29 agosto è finalmente entrata in vigore l’attesa legge annuale per il mercato e la concorrenza (n.124/2017) che, riformulando l’art. 108 del codice dei beni culturali (vedere pp. 225-226), introduce il regime di libera riproduzione con mezzi propri del patrimonio delle biblioteche e degli archivi pubblici italiani (art. 1, c. 171).

Come sanno bene coloro che frequentano questi luoghi per motivi di studio e di ricerca, l’uso del mezzo proprio spesso era interdetto e dunque, in questi casi, la riproduzione rimaneva vincolata al monopolio di un concessionario esterno, oppure era subordinata ad autorizzazione e talvolta al pagamento di una tariffa, indipendentemente dal fatto che la riproduzione con smartphone o macchina fotografica non comportasse rischio di danni da manipolazione al documento già concesso in consultazione, né oneri di riproduzione per l’istituzione che lo detiene.

E’ ora consentito, con dispositivi digitali a distanza, riprodurre liberamente, cioè gratuitamente e senza richiesta di autorizzazione, il materiale che non sia sottoposto a restrizioni di consultabilità per ragioni di riservatezza ai sensi degli artt. 122-127 del codice, nel rispetto delle norme a tutela del diritto d’autore e della privacy.

E’ inoltre consentita, ai sensi del rinnovato art. 108, comma 3 del codice, la libera divulgazione delle riproduzioni per immagini di beni bibliografici e archivistici, già prevista per le altre categorie di beni, attraverso canali web o pubblicazioni non commerciali, purché la loro diffusione non abbia scopo di lucro; dato importante, le tradizionali “ragioni di studio” o “personali” sono estese alla “libera manifestazione del pensiero o espressione creativa” e a qualsiasi attività di “promozione della conoscenza del patrimonio culturale”.

Si tratta di un’importante conquista democratica che viene a superare, almeno potenzialmente, un atteggiamento ottusamente proprietario delle istituzioni pubbliche nei confronti dei beni della comunità loro affidati, la cui aurea si vorrebbe preservare come se fossero prestigiosi feticci e non, essenzialmente, un mezzo di conoscenza.

Una differenza che hanno ben presente i più importanti istituti europei e statunitensi come, per citarne alcuni, la New York Public Library, il Getty Reasearch Institute, la Yale University Art Gallery, lo Statens Museum for Kunst di Copenaghen, il Rijksmuseum di Amsterdam, la British Library di Londra, che sempre più stanno aprendo il loro patrimonio al libero accesso in rete, consci dei vantaggi anche promozionali della sua diffusione e condivisione, al punto da ritenere utile investire nella qualità delle riproduzioni digitali di opere, fotografie e libri rese disponibili sui loro siti web.

Si pensi, per fare un esempio, al Rijksmuseum: le immagini di pubblico dominio possono essere scaricate dalla pagina dell’opera di interesse a una risoluzione in media di 4500 x 4500 pixel per le immagini jpeg (immagini TIFF ad alta risoluzione possono essere richieste gratuitamente); soltanto per le immagini non ancora digitalizzate viene richiesta una tariffa a copertura del costo di riproduzione.

Il museo chiede, nel caso di uso delle immagini in pubblicazioni a stampa, di specificare la fonte e di donare una copia della pubblicazione alla sua biblioteca, e specifica: “L’alta qualità delle immagini è molto importante per il Rijksmuseum. Adeguiamo costantemente i nostri files agli ultimi standard qualitativi, vi invitiamo perciò a richiedere sempre le ultime versioni ed evitare di usare files superati”[1].

Tornando al caso italiano, il punto di partenza della piccola rivoluzione rappresentata dalla liberalizzazione della riproduzione dei beni archivistici e librari è stato il D.L. 31 maggio 2014, n. 83, noto come “Art Bonus”, che con la sua entrata in vigore ha sancito la libera riproduzione di tutti i beni culturali per finalità diverse dal lucro. Un provvedimento poi inaspettatamente ridimensionato al momento della sua conversione in legge (L. 29 luglio 2014, n. 106), in cui con emendamento restrittivo si escludevano, appunto, i beni archivistici e bibliografici, lasciando nel nuovo regime le altre categorie di beni culturali come ad esempio le opere d’arte dei musei statali.

E’ stato in seguito a questa retromarcia che molti studiosi si sono uniti intorno al movimento “Fotografie libere per i Beni Culturali”, che ha promosso l’estensione della libertà di riproduzione a tutti i beni di pubblico dominio, senza restrizioni burocratiche ed economiche.

Se l’uso delle moderne tecnologie ha ormai reso un’abitudine comune fare fotografie delle opere d’arte da usare come utile strumento di studio (non c’è quasi chi non riconosca il diritto e la comodità di poter fotografare opere e didascalie al semplice scopo di prendere appunti durante una visita in un museo) o da diffondere per puro piacere sui vari social network, non si capisce infatti perché questa libertà debba essere vista con diffidenza nel caso in cui permetta un più agile e comodo accesso degli utenti al materiale di una biblioteca o di un archivio, soprattutto in considerazione della specificità del materiale documentario e delle esigenze di studio ad esso legate.

Nella sua campagna per la liberalizzazione, il movimento “Fotografie libere per i Beni Culturali” ha, in particolare, fatto appello al compito della Repubblica di promuovere e tutelare il diritto alla libera ricerca e manifestazione del pensiero, specificato per quel che riguarda il patrimonio culturale dagli articoli 9 e 33 della nostra Costituzione.

Ferma restando la tutela dell’integrità materiale del bene, e il regime di autorizzazione ed eventuale corresponsione di diritti da parte del fruitore in caso di riproduzione per scopi lucrativi ancora valido in Italia, è il caso di insistere sull’importanza della libertà di riproduzione concessa “per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale” (corsivo di chi scrive) stabilito dal nuovo art. 108 comma 3bis: posto che il patrimonio è di tutti, un bene collettivo e di pubblico dominio che affidiamo a enti e istituzioni per essere conservato, per facilitarne lo studio e promuoverne la valorizzazione, la gelosa ritrosia a riconoscere i diritti che ciò comporta, dimostrata da alcuni funzionari, manifesta l’idea antidemocratica di uno Stato titolare di prerogative esclusive come un soggetto privato, che considera il suo patrimonio come un tesoro da custodire ed eventualmente far fruttare prestandolo a terzi, perseverando in quell’atteggiamento di percepita ostilità degli uffici pubblici nei confronti del cittadino che ad essi si rivolge: lo stesso che tutti possiamo osservare in molteplici aspetti della vita quotidiana, ogniqualvolta entriamo in contatto con una burocrazia che tende a moltiplicare divieti e restrizioni illogiche con l’effetto, se non lo scopo nascosto, di continuare a detenere un potere arbitrario e una distanza tra individuo e cosa pubblica.

Questa mentalità dominicale nei confronti del bene comune da parte dell’istituzione deposta ad offrirne e facilitarne la fruizione, che farebbe pensare ad apparati ancien régime che crediamo del tutto superati, è in realtà dura a morire: lo dimostra il caso recentissimo di abuso da parte dell’Archivio di Stato di Palermo che, dopo l’entrata in vigore della L. 124/2017, continua pervicacemente a negare agli studiosi il diritto di fotografare volumi e documenti, vincolandolo alla consueta richiesta di autorizzazione peraltro puntualmente negata per pretestuose ragioni di conservazione, anche quando i documenti sono concessi in consultazione e quindi maneggiabili senza pericolo.

Gli utenti dell’Archivio di Stato di Palermo, vedendosi ostacolata contro la legge la loro attività di ricerca, hanno indirizzato al direttore una petizione in data 11 settembre, numerose segnalazioni alla Direzione Generale Archivi e infine, lo scorso 17 novembre, un appello al ministro Franceschini. Meno grave ma da segnalare anche il caso dell’Archivio di Stato di Napoli, che continua a richiedere l’autorizzazione preventiva, già soppressa dalla legge, pur permettendo in molti casi l’uso del mezzo proprio gratuito agli utenti.

E’ infine del 4 dicembre l’interrogazione parlamentare con la quale le onorevoli Manuela Ghizzoni e Mara Mucci chiedono l’intervento diretto del ministro Franceschini per far valere quella che ormai è legge (qui il testo completo dell’interrogazione), ma ciò che evidentemente non riesce a passare è l’idea che la digitalizzazione con mezzi propri dei documenti non rappresenta un pericolo né per l’oggetto materiale, né per la ragion d’essere dell’ente che lo detiene, ma è anzi, per quest’ultimo, un’opportunità di sopravvivenza e di farsi luogo di promozione attiva del sapere.

https://fotoliberebbcc.wordpress.com/ https://www.facebook.com/fotoliberebbcc/  Sulla soppressione della autorizzazione http://www.aedon.mulino.it/archivio/2016/1/modolo.htm

Nota

[1] https://www.rijksmuseum.nl/en/photoservice/

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