Le parole della laicità – Cultura (del formaggio) [di Edoardo Lombardi Vallauri]

agricoltura

MicroMega.it  20 dicembre 2017.  La parola vittima di uso disonesto e fuorviante di cui ci occupiamo questa volta è cultura. La prenderemo un po’ alla lontana.  Molti miei conoscenti mangiano e bevono in un modo così evoluto e così “colto”, da scandalizzarsi quando io dichiaro che non preferisco, ai tradizionali ristoranti e pizzerie, gli “spazi” dove è possibile fare esperienze alimentari condite da molti discorsi.

Come! mi obbiettano: proprio tu che sei così colto non apprezzi la differenza fra scegliere questo pecorino di fossa, che è stato preparato così e così, con sopra una composta di olive taggiasche così e colà, e mangiare il solito formaggio!? Si tratta di due esperienze completamente diverse!

Già, mi sono chiesto io: perché proprio io che sono così colto non vedo poi tanta differenza? Una prima possibilità sarebbe che io sia – per così dire – ipodotato per il cibo. Tuttavia, che mi piaccia molto mangiare lo sanno bene tutti quelli che mi conoscono. Un’altra possibilità è che il training specifico a trattare differenze sottili, e in particolare differenze culturali sottili, renda meno disposti ad accettare che fra due formaggi di prezzo diverso e di sapore diverso ci sia una differenza culturale. La differenza organolettica mi pare esserci.

Spesso quello che vanta un migliore pedigree mi piace di più; altrettanto spesso mi piace di meno. Lo stesso accade con i salumi, la pasta, il vino. Il legame fra l’abbondanza di discorsi che accompagnano un cibo e la sua bontà al palato non mi pare diretto. I discorsi mi sembrano spesso inconsistenti: “un rosso nobile che sente il muschio, la torba e la ruggine”; oppure riguardare questioni di poco conto, che vengono sopravvalutate: “questa pasta è stata trafilata al bronzo, quindi è meglio di quest’altra trafilata con acciaio…”

Naturalmente alcune differenze sono di grande importanza. Ad esempio, se un vitigno se ne sta a maturare nella regione intorno a Reims, poi viene fuori lo Champagne; altrimenti, no. Se un pomodoro prende il sole tra Pachino e Marzamemi, ne prende di più che tra Ivrea e Chivasso. Se l’ambiente in cui un prosciutto viene fatto stagionare ha la giusta umidità, è meglio. E così via.

E magari anche cose un po’ meno ovvie di queste. Ma sono comunque differenze semplici, facili da capire, che permettono di dirsi competenti dopo pochi minuti di attenzione al problema. A qualcuno potrà sembrare che padroneggiare questo genere di informazioni sia avere una cultura, ma questo è un modo fuorviante di usare la parola. Intenditore non vuol dire colto. E il fiorire della “cultura del cibo” non è un estendersi della cultura; è un’operazione commerciale.

Fioriscono oggi le simulazioni che ci sia esperienza culturale dove c’è solo la solita vendita di merce. Viene gabellato per “cultura” un sapere talvolta veritiero ma elementare, e talvolta meramente retorico (che ovviamente, come ha mostrato in modo semiserio una trasmissione televisiva dove gli hanno fatto assaggiare dei dadini di mortadella, non mette neanche lo stesso Oscar Farinetti in condizione di distinguere i salumi che vende Eataly da quelli ritenuti dozzinali).

Ma la cultura, quella vera (umanistica, scientifica, tecnologica; e naturalmente anche agroalimentare, che caratterizza i produttori seri, non i consumatori del sabato sera) è altra cosa: è un possesso approfondito, pienamente consapevole ed efficace della realtà. Lo è, certo, anche la cultura umanistica che si occupa del cibo, se è quella che – come hanno insegnato a partire dal XIX secolo i padri dell’antropologia culturale – lo colloca e lo studia nella complessa realtà di un popolo, della sua vita, dei rapporti e delle strutture che ne caratterizzano la civiltà. Anche quella è cultura degna di questo nome.

Ma né la cultura del produttore alimentare capace e responsabile, né quella dell’antropologo, si estraggono dalla lettura sul treno di pagine di rivista che consigliano le mangiatoie atteggiate della città, o dallo scoprire in che tipo di gerle gli indigeni portano le rape rosse, leggendo poche parole ben calibrate su comode brochures mentre si aspetta il cameriere: in qualunque ambito la cultura si conquista con anni di esperienza e di studio serio, faticoso e responsabile. Perché è una cosa grossa. E c’è anche chi pur provandoci non riesce davvero a conquistarla, perché è anche una cosa difficile.

Ma questi ammiccamenti all’idea che mangiare “in un certo modo” sia un’operazione culturale, indizio di elevazione intellettuale e di non-appartenenza alla massa, vengono incontro alla cattiva coscienza del consumatore, che sotto sotto sa quanto è modesto dare importanza primaria, nella propria vita, al mangiare e al bere; e che quindi ha bisogno di espedienti per raccontarsi che quando mangia e quando beve, fa qualcosa di elevato. Che lui, quando si riempie la pancia, fa qualcosa di speciale. Così il potersi permettere di spendere più soldi per un pecorino si trasforma nella convinzione di valere di più, di essere più intelligenti, più colti, più tutto.

Queste fandonie ruffiane rendono genialmente realizzabile anche l’esigenza del venditore, di vendere cose poco diverse a un prezzo più diverso. Tra l’altro, l’idea che mangiare e bere sia “cultura” si è così abilmente insediata nella narrazione collettiva, che ormai perfino le pubbliche amministrazioni possono presentare come sostegno alla cultura le sovvenzioni che erogano o comunque il sostegno che forniscono a imprese semplicemente commerciali.

In alcuni casi ci credono pure: non necessariamente stanno mascherando i soliti favori all’imprenditore furbetto di turno. Questo avviene su scala locale, e su scala Expo-internazionale.[1] È diventato uno dei compiti principali delle nostre Ambasciate all’estero.

Forse la mia è anche la reazione irritata di un depositario della cultura tradizionale, al vedersi affiancato dai parvenus che applicano al loro stile di vita una parola e un concetto quasi sacri, trascinandoli nella banalità. Ma non credo che sia solo questo. Il fenomeno per cui ormai si fa rientrare sotto il termine “cultura” qualsiasi nozioncina appiccicata alla vendita di un prodotto, ha una portata – potenzialmente, e purtroppo in larga parte già in atto – devastante sulla nostra civiltà. Perché l’idea che la cultura sia una cosetta così, scredita la cultura. E scredita chi la pratica. E scredita le istituzioni che la custodiscono.

Chi la cultura vera non l’ha mai conquistata, mai davvero conosciuta, mai applicata, crede che i luoghi dove si fa cultura siano luoghi dove ci si gingilla in cosette del tutto arbitrarie come “saper” scegliere l’abbinamento fra un vino e un salume. Purtroppo, su questo deterioramento dell’opinione collettiva (come su ogni aspetto dell’opinione collettiva) si appoggiano le azioni di governo.

Più si scredita la cultura, più i governi possono impunemente abbandonarla, destinandole sempre meno risorse. Insomma, l’idea che la cultura sia una cosa di poco conto è fra le cause per cui l’Italia investe ormai in istruzione e ricerca una quota di budget ridicola rispetto agli altri paesi ricchi e civili.

Nota
[1] Meno tenero di me, e concentrando l’attenzione su altri aspetti di questa deriva commerciale basata in gran parte sull’inganno, è Wolf Bukowski, la presentazione del cui libro La danza delle mozzarelle (2015) sul sito dell’editore Alegre contiene queste parole (rivolte non solo alla citata Eataly ma anche ad imprese come Slow Food e Gambero Rosso): “Il modello neoliberista di Eataly si allarga nelle città e cancella diritti, forte delle partnership con potentati come Lega Coop e il gruppo Benetton e grazie all’appoggio del Pd, agli endorsement di Matteo Renzi e alla copertura ideologica fornita da un’intellighenzia che, nonostante cedimenti e giravolte, conserva l’etichetta «di sinistra».

È questo demi-monde di scrittori, elzeviristi e cantanti a far passare per «buoni» i nuovi padroni, che così non pagano dazio per il predicar bene e razzolar male: inneggiano alla «resistenza contadina» e fanno affari con un neolatifondista che occupa 900.000 ettari di terra Mapuche in Patagonia; parlano di «autenticità» e propongono per l’Italia futuri preconfezionati da «Disneyland del cibo» e «Grande Sharm el-Sheikh».

 

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