L’idea di comunità si è frantumata [di Antonietta Mazzette]

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L’intervento del sindaco di Sedilo, Umberto Cocco, è complesso e articolato, ma soprattutto è un “grido” di dolore per la grande distrazione culturale verso i circa 370 comuni della Sardegna che stanno perdendo pezzi sociali. Egli pone un insieme di problemi di difficile soluzione, non ultimo perché hanno a che fare contemporaneamente con gli effetti della modernizzazione ormai portati a parossismo dalla diffusione delle nuove tecnologie, e con questioni locali come i processi di spopolamento. I primi sono riferiti a tutti quei processi di individualizzazione e intimizzazione della vita sociale, ben decritti da Richard Sennett nel suo lavoro Il declino dell’uomo pubblico, e che riguardano stili di vita e comportamenti diffusi nelle società a sviluppo avanzato, ovunque si risieda. I secondi sono riferiti al modo specifico in cui il processo di modernizzazione si è affermato in Sardegna dagli anni ’60 in poi e che ha comportato un esodo (finora) ineluttabile delle popolazioni più attive dai paesi versi i poli urbani, per lo più situati nelle coste.

È evidente che i due livelli sono strettamente intrecciati e, proprio per questo, esigono riflessioni che non possono esaurirsi in queste brevi note. Partendo dalla presentazione del nostro libro, il sindaco pone alcuni interrogativi. Nei paesi della Sardegna, sempre più spopolati, come si possono organizzare gli spazi pubblici e a chi dovrebbero essere rivolti? Visto che le popolazioni attive o stanno nel privato, magari a smanettare su Internet, oppure attraversano gli spazi pubblici, per lo più in automobile, e senza sostarvi? A quale tipo di comunità un amministratore pubblico si deve riferire? Possiamo usare ancora il termine “comunità”? Quali sono i suoi bisogni? Come comprenderli e conoscerli? E ancora, lo spazio pubblico può ridiventare un luogo i riconoscimento di questa comunità? E aggiungerei, un luogo di costruzione della coscienza civica? Per spazio pubblico non intendo esclusivamente luoghi fisici come la piazza, ma tutti quegli spazi dove è possibile incontrarsi e dialogare, a prescindere dalle appartenenze sociali, dal genere e dall’età.

Cocco ha ragione nell’affermare che i centri rurali sono urbani, non tanto perché nei paesi ci siano le qualità delle città, quanto perché gli stili di vita sono sempre più somiglianti a quelli delle popolazioni urbane, almeno per le popolazioni più mobili. E qui mi permetto di offrire una prima risposta riflessiva: proprio perché l’aspirazione alla vita urbana è diffusa anche nei centri rurali, il fatto che la si soddisfi a stento, porta le persone più attive ad andare via. Ovvero non basta un centro commerciale per sentirsi cittadini e neppure un collegamento Internet, anzi, la diffusione delle tecnologie della comunicazione hanno incrementato la voglia di andare in città.

Questa ragione va a sommarsi con un fatto più strutturale: nei paesi, ma in definitiva in Sardegna, non si è creata un’idea di sviluppo economico e sociale alternativa alla vita urbana e alle coste, turismo compreso, seppure senza mare. A ciò vanno aggiunte tutte le difficoltà di attraversamento da un paese all’altro e da questi ai poli urbani. Il sistema viario sardo è pre-moderno, e così pure lo sono i mezzi di trasporto collettivi. Mi è capitato di chiedere a un mio studente residente in un paese che dista da Sassari circa 50 Km ma che, per esigenze di studio, aveva preso un alloggio in affitto e si era trasferito in città: “ma se in Sardegna ci fosse la metà dei mezzi di trasporto su ferro presenti, ad esempio, in Olanda, tu andresti via dal tuo paese?”. Mi ha risposto di no, si muoverebbe in entrata e uscita, esattamente come fa quotidianamente un giovane che vive nell’area metropolitana di Milano o di Amsterdam.

Non mi avventuro per ora sul quesito che cosa sia oggi una comunità. C’è una vasta letteratura in merito e mi limito perciò a un significato elementare: un aggregato umano che condivide valori, interessi e senso dello stare insieme. Quel che scrivo da tempo è che si è perso il carattere unitario tanto della città quanto dei piccoli insediamenti urbani, e la ragione principale sta nel fatto che i processi di urbanizzazione fondati sulla specializzazione funzionale e sulla separazione ha portato alla perdita della mescolanza sociale e generazionale. Ciò ha riguardato tutti i territori, compresi quelli non urbani.

La non mescolanza produce (auto)segregazione per età, per status sociale, per provenienza geografica, e così via. Faccio l’esempio di Villapizzone, periferia storica di Milano, dove, nonostante la marginalità, fino a poco tempo fa le diverse popolazioni convivevano negli stessi spazi. Ora a Villapizzone la comunità originaria è praticamente inesistente, se non per le donne anziane che non hanno legami sociali e mezzi per spostarsi altrove. Mentre le nuove popolazioni sono giovani maschi stranieri che parlano altre lingue e che hanno altre pratiche sociali. È evidente che in questo caso gli spazi aperti e chiusi sono diventati sempre più separati negli usi e nei tempi, perché le esigenze sottese ai due tipi di popolazione non sono conciliabili tra loro, e perché i tempi e gli spazi vengono privatizzati dal gruppo più forte per i comportamenti localizzati che generano allarme sociale e insicurezza: spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, etc..

In altre parole, in assenza di soggetti che guidino i processi di mutamento e creino luoghi pubblici che possano svolgere azioni di mediazione, lo squilibrio sociale e culturale non può che generare separazioni e conflitti. Questo riguarda anche i nostri paesi? Non lo so. Ma di certo l’idea di una comunità che in un passato non remoto comprendeva anche la città, si è frantumata, e al posto di una comunità ormai abbiamo un arcipelago di micro-comunità che si aggregano provvisoriamente a seconda degli interessi e dei bisogni (compresi i desideri) che si affermano via via.

Non so se il volume Pratiche sociali di città pubblica possa essere uno strumento riflessivo utile, ma sono convinta che senza spazi pubblici non c’è insediamento urbano e neppure la possibilità di esercitare pratiche di democrazia.

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