Quel messaggio dalla Mediateca di Cagliari [di Silvano Tagliagambe]

scuola

C’è voluta la genialità di Alan Turing per farci capire già nel 1936, con la sua idea di macchina universale, ovvero un modello astratto capace di eseguire ogni tipo di calcolo su numeri e simboli, che per saper elaborare l’informazione (e a maggior ragione trattare e gestire la conoscenza) occorre disporre di un supporto materiale dotato di uno stato interno e di specifiche capacità. Nel caso in questione le capacità richieste e imprescindibili sono racchiuse in una testina che si sposta lungo un nastro, immaginato di lunghezza infinita, diviso in quadratini dette celle, scrivendo oppure cancellando simboli nelle celle del nastro.

La macchina analizza il nastro, una cella alla volta, iniziando dalla cella che contiene il simbolo più a sinistra nel nastro, e a ogni passo legge un simbolo sul nastro e, in accordo al suo stato interno corrente, decide il suo prossimo stato interno, scrive un simbolo sul nastro e stabilisce se spostare o meno la testina a sinistra o a destra di una posizione. Se non fosse dotata di questo stato interno capace di prendere decisioni, di questa testina materiale e delle cose che sa fare, la macchina non sarebbe in grado di eseguire algoritmi e calcoli e di avere un comportamento intelligente.

Trasferita dall’intelligenza artificiale a quella naturale di noi esseri umani questo straordinario risultato significa che ciò che ci rende capaci di acquisire conoscenza e di elaborarla in modo attivo è la disponibilità di un supporto materiale (il nostro cervello e i processi mentali che esso esprime) senza le cui capacità e competenze non saremmo in grado di ricevere e di trasmettere a nostra volta alcun dato informativo. Ne consegue che l’insegnamento non può essere un semplice processo di trasmissione di informazioni e conoscenze, ma è un’impegnativa attività il cui obiettivo primario è quello di plasmare questo supporto materiale, corredandolo di tutte le capacità che lo mettono in condizione di percepire, pensare e immaginare. Queste capacità sono ben note: si chiamano analisi, astrazione, analogia, induzione, deduzione, abduzione, uso euristico dei modelli.

Ci sono voluti i progressi delle neuroscienze di questi ultimi anni per mettere in evidenza che questo supporto materiale non può essere fatto soltanto di processi mentali, ma per funzionare bene e in modo completo ed efficace esige il riferimento a un sistema motorio e alle capacità di cui è dotato il nostro corpo nella sua interezza e complessità. La percezione, porta d’accesso alle funzioni cognitive superiori, è indissolubilmente legata al movimento e all’azione. Come scrive Giacomo Rizzolatti: “Quando ci troviamo di fronte a un oggetto qualunque, ad esempio una comune tazzina da caffé, da parte dell’uomo che si pone di fronte a essa si ha un vedere che non è  fine a se stesso, indiscriminato e incondizionato, ma è piuttosto orientato a guidare la mano. Per questo esso si presenta anche, se non soprattutto, un vedere con la mano, rispetto al quale l’oggetto percepito appare immediatamente codificato come un insieme determinato di ipotesi d’azione. La percezione, dunque, funge da implicita preparazione dell’organismo a rispondere e ad agire: da essa scaturisce, di conseguenza, un tipo di comprensione che ha una natura eminentemente pragmatica, che non determina di per sé alcuna rappresentazione ‘semantica’ dell’oggetto, in base alla quale esso verrebbe, per esempio, identificato e riconosciuto come una tazzina da caffé, e non semplicemente come qualcosa di afferrabile con la mano.

Ci sono voluti il concorso e la convergenza di scienze della natura e scienze umane quali la genetica, lo studio dell’evoluzione naturale e dei suoi rapporti con l’evoluzione culturale, l’archeologia, la paleoantropologia, la linguistica, a partire dagli studi pionieristici di Luigi Luca Cavalli Sforza sulla genetica delle popolazioni e sul suo collegamento con la linguistica, per farci capire l’importanza della capacità di mantenere in vita la comunicazione e di assicurarne la continuità anche in presenza del salto da un codice a un altro, anche sensibilmente diverso, ad esempio da un linguaggio in cui i parlanti si comprendono facendo leva sulle proprietà iconiche e motivate dei simboli a un linguaggio che ha perso l’iconicità originaria e i cui simboli siano convenzionali. L’unica possibilità per l’uomo di superare con successo lo scoglio costituito da questo arduo passaggio è che  la comunicazione non conosca intoppi e continui ad andare avanti attraverso l’integrazione del nuovo segno nel flusso comunicativo precedente. Questo mantenere in vita la comunicazione è la condizione essenziale perché si possa avviare e realizzare con successo il processo di familiarizzazione dei parlanti con il nuovo codice in costruzione: soltanto se risulta comprensibile  attraverso questa continuità la nuova espressione può sedimentarsi nelle pratiche comunicative in uso, passando da una situazione di mancata o insufficiente trasparenza del contenuto informativo che essa veicola a uno stato di piena comprensione del suo significato.

Quest’ultimo risultato ci fa capire quanto sia essenziale, ai fini dell’acquisizione di nuovi codici e di nuove modalità espressive, procedere in continuità con i linguaggi e le relative competenze precedentemente disponibili, anziché sradicando questo patrimonio. È questa la chiave per quello che io chiamo un uso intelligente, in senso cognitivo, del bilinguismo nei processi di apprendimento, che può essere ben esemplificato riferendosi al bel racconto della propria esperienza personale di Giampaolo Cassitta nel suo articolo Il sapere dei diversi “sardi”. Quella di un bambino la cui adolescenza è stata costruita tra l’italiano, il logudorese, il gallurese e l’algherese, che ha studiato e imparato l’italiano innestandolo su questo ricco ventaglio di disponibilità pregresse, che sono state così opportunamente valorizzate, anziché essere sradicate per far posto alla nuova lingua. Quel bambino, crescendo, ha potuto così rendersi conto “che la lingua era uno strumento per comprendere ma dovevi saperla dosare. Ho, nel mio personale cassetto di parole, locuzioni e modi di dire in diverse lingue e li uso ‘alla bisogna’ o quando mi trovo nei contesti giusti. Perché la ‘visione del mondo’ non è solo ed esclusivamente sapere le cose e saperlebene”.

La conclusione che ne viene tratta è equilibrata, istruttiva e convincente: “Dovremmo, se ancora ci riusciamo, provare a parlare, naturalmente, ai nostri nipoti l’italiano e il sardo. Non significa riportare al gregge il proprio cucciolo, ci mancherebbe. Significa, invece raccontare che esistono lingue e modi di dire a volte intraducibili e rappresentano la nostra identità. Non dobbiamo avere paura del nostro passato e non dobbiamo avere paura di poter costruire un futuro con le vecchie parole dei nonni. Che sono modi di dire e modi di vivere. Io penso e scrivo in italiano. Ma quando sorrido, mi indigno, o scruto l’orizzonte lo faccio in sardo. Con quale sardo dipende dall’orizzonte che ho davanti. E mi piace, naufragare in questi ‘sardi’”.

Ecco, fare della Sardegna una “Terra della conoscenza e della comunità educante”, come ha proposto il bellissimo incontro di lunedì alla Mediateca di Cagliari, è un sogno tutt’altro che irrealizzabile se la scuola diventa un patrimonio inscindibile dei luoghi in cui è inserita, strumento insostituibile per il riconoscimento della loro identità, se questa integrazione si estende dal territorio alla comunità che lo abita, che diventa così comunità educante, capace di sostenere nel modo migliore sia l’attività degli insegnanti, sia la funzione educativa delle famiglie, e se questa integrazione scuola-territorio-comunità viene opportunamente alimentata e supportata dalle tre conquiste alle quali ho fatto qui riferimento. Riepiloghiamole brevemente:

quella di Turing sul necessario riferimento alla costruzione e al progressivo potenziamento del supporto materiale dell’informazione e della conoscenza;

 quella delle neuroscienze sull’alleanza tra la mente e il corpo, tra i processi cognitivi e la manualità;

quella del filone di ricerche avviato dagli studi pionieristici di Cavalli Sforza sull’importanza  della continuità della comunicazione nel passaggio da un linguaggio all’altro.

Tradotte in applicazioni metodologiche e didattiche queste acquisizioni significano, rispettivamente:

riferimento all’importanza di un curriculum verticale che garantisca un’effettiva prosecuzione tra scuola dell’infanzia, scuola primaria e scuola secondaria almeno di primo grado proprio al fine di costruire, senza soluzione di continuità, quel supporto materiale;

riforma dei processi di insegnamento  delle scienze all’interno di questi cicli scolastici fruendo della preziosa esperienza avviata in Francia con l’operazione La main à la pâte, che coniuga appunto capacità mentali e manualità;

valorizzazione del bilinguismo in modo da evitare che i bambini sardi rischino di essere gettati, in seguito all’operazione di sradicamento della propria identità, in un vuoto linguistico e culturale riempito alla bell’e meglio da un italiano regionale non sempre ben assimilato, come dimostrano i dati allarmanti sui deficit di comprensione anche di semplici testi letterari.

Da una scuola siffatta possono e devono scaturire politiche autocentrate di sviluppo e la capacità di valorizzare il lavoro attraverso l’integrazione di saperi taciti (le tradizioni orali degli anziani, patrimonio prezioso della Sardegna) e saperi codificati dei giovani maggiormente scolarizzati.
Se poi si avesse la lungimiranza e la capacità, attraverso un’intelligente operazione di uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, di introdurre in questa scuola non soltanto apparati, come le LIM e i tablet, ma contenuti, processi e metodologie basati sui linguaggi digitali, si potrebbe cominciare a familiarizzare i sardi fin da giovani alle più che promettenti frontiere del Cognitive computing, grazie alle quali l’
Intelligenza artificiale sta oggi incontrando il business intelligence, riuscendo così a chiudere il cerchio.

Il risultato sarebbe quello di mostrare concretamente come si possa riuscire a elaborare e a dare un senso nuovo e più ricco a quella gran massa di dati, quali video, immagini, simboli e linguaggio naturale, di cui le persone e le organizzazioni dispongono in forme non strutturate. A tal scopo si stanno realizzando progetto basati su un nuovo design di chip di computer che trae ispirazione dal funzionamento del cervello umano e dalle sue capacità cognitive, realizzando quell’alleanza tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale che era il sogno di Alan Turing, dal quale ha preso le mosse la nostra riflessione.

Se non si capisce che il senso di un’operazione di digitalizzazione della scuola sta proprio nel metterla in condizione di preparare i giovani alla sfida non di un futuro remoto, ma di un presente fatto di organizzazioni e imprese, come l’IBM, che investe un miliardo di dollari in queste ricerche, Google, che ha appena acquisito per 500 milioni di dollari una stratup di 50 persone che si occupano di queste nuove frontiere, e Forrester, che ha appena costituito un team sul cognitive computing, proprio per integrare tecnologia e biologia, sintetizzandole in una nuova epistemologia, le chiavi di accesso alla comprensione non di un futuro lontano, lo ripeto, ma del presente che stiamo vivendo rischiano di restare irrimediabilmente fuori dalle mura degli edifici scolastici, siano brutti e vecchi o, com’è lecito augurarsi e com’è auspicabile, belli e nuovi.

È questo il messaggio che dalla mediateca di Cagliari le associazioni Lamas, Terra di pace e solidarietà  e da SardegnaSoprattutto hanno voluto inviare ai candidati alla presidenza della regione, presenti e assenti più o meno giustificati, per dare concretezza e spessore ai loro programmi. Con la speranza che chi vinca lo sappia raccogliere, per il bene della nostra terra e per dare una speranza alle giovani generazioni.

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