La piazza, un oggetto recente [di Maria Antonietta Mongiu]

piazza del carmina

L’Unione Sarda 3 aprile 2018. La città in pillole. Nuovamente è accaduto che una primavera uggiosa e maldisposta abbia lasciato il passo a quella luce che a Cagliari ha la meglio su qualsiasi disfunzione. E’ il destino di un sito abitato da un genius loci sotteso alla sua essenza più propria di liquida città di pietra, in cui anche la penombra delle strade più interne pare funzionale ad esaltare le gradazioni della luce.

Un’improvvisa epifania, resistente persino al tentativo in corso di reductio ad unum di una città strutturalmente policentrica e tutt’altro che indifferenziata. Ricalcando le metafore delle città di Umberto Saba, Italo Calvino, o Aldo Rossi, Cagliari è femminile e plurale. Si compone  di tenebrose cavità e di poderosi fuoriterra.

Non solo chiese, palazzi, mura, ma una speciale osmosi tra manufatti e roccia, non ancora del tutto spolpata, con cui i primi sono costruiti, e che, negli alzati o nei residui banchi rocciosi, muta nei cromatismi ad ogni variazione della luce. Un elemento immateriale è il vero denominatore della città, di cui amplifica le differenze. Non la città di pietra con le piazze o le mura?

La piazza, spazio sociale e fulcro, non solo estetico, diversamente da altre città di antica origine, a Cagliari è un oggetto recente. Figlia della pianificazione urbanistica di Giuseppe Sbressa e di Gaetano Cima, non digiuni del piano di Roma, di quello delle città francesi,  di Torino o di Madrid. La pianificazione di Cima, fu un gesto rivoluzionario con una visione di città per molti decenni a venire, che superasse la città murata e turrita che Cagliari era stata fin dal periodo punico, con insediamenti a macchia di leopardo e orientamenti che seguivano il sole.

Cima esplicita le direttrici della luce, verso est e verso ovest, per rinsaldare borghi e appendici, persistenze di insediamenti indigeni, fenici, punici, romani, altomedievali che strutturarono le differenti Cagliari. E’ la cultura materiale di feste e riti, figli di radicati sincretismi, che invera quelle differenze  e complessità come la vera ricchezza della città, resiliente ad ogni frettoloso e rozzo maquillage.

La domanda è: perché fuori da ogni pianificazione e coinvolgimento della civitas (manca ancora il PUC adeguato al PPR), si sta procedendo alla trasformazione della città e del suo senso e alla sua omogeneizzazione?

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