La storia ci insegna: intervista a Chris Wickham [di Francesco Suman]

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MicroMega.com 16 maggio 2018 Così come l’Europa medievale era frammentata in tanti piccoli stati, l’Europa di oggi sembra attraversata da forze centrifughe. L’Europa medievale fu anche testimone di fenomeni migratori e di contaminazioni culturali da cui oggi forse possiamo imparare qualcosa. Tuttavia, in storia, un medesimo evento non è sempre causa del medesimo effetto, perché i contesti sono diversi. Chris Wickham, docente di storia medievale all’università di Oxford, in questa intervista ci racconta anche qual è la sua idea di “scienza storica”.

Chris Wickham, Professore Emerito del All Souls College e Chichele Professor in Storia Medievale all’Università di Oxford, è uno studioso noto a livello mondiale per i suoi lavori comparativi sulle società del bacino del Mediterraneo durante l’alto medioevo e per i suoi studi fondamentali sulle società dell’Italia medievale in ambito urbano e rurale, realizzati con il costante apporto di fonti archeologiche e fonti scritte.

Chris Wickham è autore di più di 200 pubblicazioni sulle più importanti riviste internazionali, è autore di libri come The inheritance of Rome (2009) e Medieval Europe (2016). Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti da prestigiose accademie di diverse nazioni e dalle più importanti associazioni scientifiche internazionali.

Così come l’Europa medievale era frammentata in tanti piccoli stati, l’Europa di oggi sembra attraversata da forze centrifughe. L’Europa medievale fu anche testimone di fenomeni migratori e di contaminazioni culturali da cui oggi forse possiamo imparare qualcosa. Tuttavia, in storia, un medesimo evento non è sempre causa del medesimo effetto, perché i contesti sono diversi. Chris Wickham, in questa intervista, ci racconta anche qual è la sua idea di “scienza storica”.

Il Medioevo spesso è stato studiato in direzione di comprendere la modernità, quando invece presenta profonde trasformazioni culturali e economico-politiche che andrebbero comprese nella loro originalità e indipendenza. Cosa, tra le tante cose, ha caratterizzato il Medioevo?

Innanzitutto, mille anni di storia, dal 500 al 1500. Ha ragione a dire che è inutile capire il Medioevo in Europa come “anticipazione” della modernità, concetto anche quest’ultimo piuttosto vago. E aggiungerei che non è nemmeno qualcosa che viene “dopo”, ovvero dopo la fine dell’Antichità, anche se i secoli post-romani mostrano in effetti una notevole impronta romana, almeno nelle regioni dove i Romani hanno dominato.

Non credo tuttavia che esista una sola cosa che abbia caratterizzato l’intero Medioevo. In generale, i secoli medievali sono un periodo di stati e altre forme politiche relativamente deboli, senza strutture fiscali complesse e con aristocrazie militari forti, anche se bisognerebbe riconoscere Bisanzio e al-Andalus, la Spagna musulmana, e l’impero ottomano (alla fine del medioevo) come eccezioni.

Penso inoltre all’onore: il mondo medievale ne è saturato, tutta la letteratura e la narrativa lo trattano in maniera diffusa. Naturalmente è un concetto assai maschile, ma anche le femmine ce l’hanno. È un concetto anche assai aristocratico, ma pure i contadini ce l’hanno e lottano per mantenerlo. Le variegate soluzioni che i protagonisti medievali utilizzano per non perderlo sono un elemento importante nella vitalità dei secoli di mezzo e le nostre fonti storiche lo rendono molto evidente.

L’Europa del Medioevo ha vissuto forti oscillazioni: la caduta dell’impero romano d’occidente, molteplici realtà frammentate in piccoli stati, la formazione di un nuovo grande impero, quello di Carlo Magno. Possono queste dinamiche insegnarci qualcosa per quanto riguarda l’Europa di oggi che sembra essere attraversata da forti spinte centrifughe?

La storia ci insegna sempre, ma bisogna essere cauti. Certamente, ci sono momenti nel passato in cui la gente di potere ha, come dire, scommesso sul locale, sul potere locale e sull’identità locale. Forse non nel VI secolo: tutte le forze politiche di allora avrebbero voluto mantenere il potere su territori veramente grandi (e i Franchi in effetti ci riuscirono).

Ma nel secolo XI sì: non c’è stato un potere europeo con un ampio respiro regionale nel 1000 che lo ebbe nella stessa misura anche nel 1100 (tranne il regno inglese, ancora relativamente piccolo); la maggior parte di queste realtà si erano ormai frammentate in pezzi.

Dobbiamo capire che il locale aveva in quei secoli, per i capi politici, una forza attrattiva almeno equivalente a quella delle grandi strutture politiche. E possiamo vedere una situazione analoga anche oggi, con il risveglio di nazionalismi e volontà autonomiste anche a un livello molto spicciolo.

La differenza fondamentale però è che oggi, nella maggior parte dei paesi europei, la scommessa sul locale non si può fare senza la volontà, o almeno il consenso, degli elettorati (per quanto truccati!). Nel medioevo la gente normale rimaneva assolutamente estranea da tali scelte. Qui, i paragoni finiscono; non credo ci siano altri modelli medievali utilizzabili.

Il tema dell’immigrazione è centrale per capire i processi di trasformazione della società odierna. Il Mediterraneo nel Medioevo ha visto forti contaminazioni tra l’Europa cristiana e la cultura araba, specialmente in Spagna e in Sicilia. Riguardo a questa tematica possiamo imparare qualcosa da questo periodo storico?

Nel contesto del medioevo europeo, i processi di immigrazione più notevoli erano quelli dei popoli germanici nell’impero romano nei secoli V-VI e quelli dei Tedeschi in Europa orientale nei secoli XII-XIV. Ambedue erano gruppi che arrivarono a dominare le società che già occupavano il territorio.

I primi furono facilmente assorbiti, i secondi rimasero separati fino alla loro espulsione nei tardi anni ’40 del ‘900. Solo la seconda è stata una vera immigrazione di massa. Gli Arabi in Spagna e Sicilia e i Berberi in Spagna erano relativamente pochi, ma, naturalmente, anche politicamente dominanti: ebbero infatti un notevole impatto sulle popolazioni dominate, tale che in molti casi queste ultime divennero musulmane e di cultura araba.

Dunque immigrazioni su grande e piccola scala possono avere grandi effetti sulla popolazione autoctona, ma possono anche non averne. Tutto questo vuol dire che è difficile dire cosa succede quando c’è un’immigrazione di massa. I gruppi immigrati possono facilmente essere assorbiti, oppure no. La situazione attuale non è paragonabile, perché gli immigrati dei secoli XX e XXI non dominano le società europee, dunque, ovviamente, rappresentano una “minaccia” molto minore.

Jared Diamond, biologo e antropologo statunitense, nel suo celebre libro Armi Acciaio e Malattie, propone di applicare alla storia il metodo della biologia evoluzionistica, ovvero: occorre comprendere non solo le cause prossime ma anche le cause remote di un determinato evento. Cosa pensa di questo approccio preso in prestito dalla biologia evoluzionistica e applicato alla storia?

Molti storici hanno sempre cercato le cause remote, non è una novità. Se cerchiamo le cause remote in maniera troppo schematica però, come io penso faccia Diamond, facciamo male la storia. In particolare, più remote sono le cause proposte, più casuale potrebbe essere il rapporto fra ‘causa’ e ‘effetto’. Ci sono troppe cose nel mezzo.

Poi, le cause possono essere infinite: se Mussolini fosse stato ammazzato da un tram quando stava traversando la strada senza guardare nel 1910, il fascismo magari non avrebbe avuto luogo; dunque dovremmo considerare il tranviere accorto che mise rapidamente il freno come una delle cause del fascismo. È vero, ma questo non ci porta molto avanti.

Ci sono molti rischi se entriamo nel campo della causalità. Personalmente, preferisco pensare a contesti, non cause: contesti che facilitano certe conseguenze più che altre, ma che non le causano in maniera diretta.

Se non è possibile individuare le cause di un evento storico è possibile una scienza della storia?

Dipende cosa significa la parola ‘scienza’. Non sono sicuro che si dica in genere che la certezza della causalità stabilisca la soglia per entrare nella scienza ‘vera’. Ci sono delle definizioni classiche e la storia c’entra delle volte, e delle volte no. Se vogliamo dire che la scienza dipende dalla falsificabilità nel senso popperiano, la ripetizione dell’esperimento, eccetera, la storia non è scienza, ma nemmeno lo è l’astrofisica.

Come disse Claude Lévi-Strauss, ‘nelle scienze sociali, niente è falsificabile’. Se per scienza intendiamo invece la ricerca della conoscenza in maniera sistematica, la storia c’entra interamente; ha le proprie regole per una ricerca appropriata e una propria epistemologia. Preferisco quest’ultima definizione!

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