Pattada, la pedagogia di una comunità-mito [di Maria Antonietta Mongiu]

New Cardinal Giovanni Angelo Becciu receives the red three-cornered biretta hat from Pope Francis during a consistory in St. Peter's Basilica at the Vatican, Thursday, June 28, 2018. Pope Francis made 14 new Cardinals during the consistory. (ANSA/AP Photo/Alessandra Tarantino) [CopyrightNotice: Copyright 2018 The Associated Press. All rights reserved.]

La Collina Anno XI n.3 Luglio-Agosto 2018- Parlare  di Angelino Becciu significa parlare di Pattada, centro che si distingue per una spiccata attitudine alla coesione e alla sintesi di contrasti. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi Tascabile,  2005).

La frase riassume la sostanza di quanto don Angelino Becciu, diventato Cardinale, dice del suo paese non solo luogo del cuore ma di una paideia  fondata su una densa ricchezza educativa. Già prima di don Angelino, che dopo Ilario e Simmaco, è il prelato sardo più vicino per ruoli al soglio pontificio, Pattada è luogo di origine di molte persone che della responsabilità di essere classe dirigente hanno fatto un habitus senza mai perdere la relazione col luogo natale.

A differenza di quanto sosteneva Salvatore Satta che chi va via non deve più tornare se non quando è convocato nel giorno del giudizio finale, in Sardegna può succedere che in alcuni luoghi l’andare e il tornare siano la cifra esistenziale al posto del rimpianto e della nostalgia. Un tenace legame di cui ci si alimenta e che oltrepassa il senso di perdita e spaesamento di cui ha scritto Nereide Rudas studiando su disterru nelle componenti antropologiche e psichiche.

Perché accade? Perché alcuni luoghi coltivano con consapevolezza la pedagogia della memoria; stratificano la propria vicenda nella dialettica persino con chi si distanzia ma non si sottrae al vissuto comunitario; coltivano, nel caso specifico, la parola poetica e della narrazione che si arricchisce nel recupero del passato; si riconoscono in territori altri dall’eterno presente in una comunità che rigenerano mentre la trasformano.

Un orizzonte già frequentato in letteratura se si pensa a La lingua salvata, di Elias Canetti dove i paesaggi antropici e linguistici, prodotto di comunità, si intrecciano per costruire una valorialità dove tutto si tiene nel senso del riconoscibile e del riconosciuto. In Canetti è garantito dalla matrilinealità non dichiaratamente  matricentrica ma nella sostanza tale perché agita nella cultura materiale.

A Pattada sono le donne che fanno perittas, origliettas, seadas, maccarroneddos e l’intera sequenza dell’arte bianca. L’ambito della carne è maschile ma non suddivisione del maiale, dimensione e recapiti de su ispinu. Maschi gli attori del rito de su capude a capodanno che riecheggia parentele con comunità serfardite della cui esistenza a Pattada si sospetta non solo per la presenza di Santa Croce, a ridosso di Santa Sabina di fondazione tardo antica/altomedievale.

Un mondo comunque sospeso tra le attese di futuro, fondate sull’emancipazione garantita dalla cultura, e le rassicurazioni di tradizioni consolidate ma distanti dall’etnocentrico. Un orizzonte in cui la percezione dei luoghi è protagonista perché vi si inverano valori e identità di una comunità consapevole dove il paesaggio è un prodotto sociale.

Stesso sostrato della Convenzione Europea del Paesaggio in cui la percezione è fondante il concetto stesso di paesaggio. L’art.9 della Costituzione lo aveva riconosciuto e messo in stretta interdipendenza, nello stesso articolo, con altri prodotti sociali quali il trasferimento di competenze tra generazioni ovvero la ricerca e l’educazione. Fondamenti della costruzione del sentimento di appartenenza perché il paesaggio è luogo e prodotto storico di uomini, delle loro dinamiche e interrelazioni, che agiscono il contesto riconoscendone e conservandone il senso. Lo ribadisce  l’Enciclica di Papa Franceso  Laudato sii che riconosce il territorio come identità della memoria della comunità che vi si identifica.

Ecco perché parlare di Angelino Becciu significa parlare di Pattada e parlare di Pattada significa parlare delle persone anche di quelle il cui vissuto è altrove. Non si tratta dell’effetto Proust ovvero del frammento che suscita memorie involontarie. Non lo era per  l’ex preside della Facoltà di Medicina della Cattolica di Roma, Toeddu Sanna, su ruju per i suoi capelli rossi, che a New York avrebbe riconosciuto nel miele di una seada, in casa di pattadesi emigrati, il cucchiaino d’acqua che si deve aggiungere, come usa a Pattada, perché non diventi scuro.

Vera o inventata la storia, il grande scienziato manifestava un realismo cognitivo derivato dal trasferimento di valori e di senso. Sono certa che anche nelle case abitate nel mondo da don Angelino come diplomatico, quel cucchiaino d’acqua era parte del vissuto per le stesse ragioni del prof. Sanna e di chiunque sia vissuto nel senso di una lingua madre mai disconosciuta.

D’altra parte anche per il Cardinale Becciu,  Pattada e la Sardegna connotano il suo nome ogni volta lo si pronunci a sostanziare una cifra, esistenziale e culturale, profondamente radicata ed irriducibile.

Un comportamento già osservato in tutti gli autori che si sono occupati del paese e dei suoi personaggi. Derivata probabilmente da una pratica denotativa quasi patronimica che è andata strutturandosi in una pedagogia di comunità. Come la parola poetica ben studiata da Giancarlo Porcu nel lavoro su Pisurzi, con prefazione di Paolo Cherchi, e sulla sua comunità così referenziata sul piano letterario.

Perché dai nostri paesi e dalle loro classi dirigenti bisogna ripartire  per studiare la formazione delle elite sarde di oggi, il destino  e la percezione delle stesse.

Lo si vede bene se si allarga il campo ad altri giganti della poesia pattadese Luca Cubeddu, Giovanni Asara Limbùdu, Salvatore Campus Limbori fino ai contemporanei e a generazioni  di mastros e dischentes. Potremo affermare che formano un modello di comunità educante che tramette il saper fare e sequenze di parole che significano campi simbolici diventati pratiche di relazione quotidiane ed esistenza.

In Miele Amaro Salvatore Cambosu bene restituisce i luoghi dove si formava e si trasmetteva molto del sapere comunitario ”…vattene dal fabbro, vattene dal falegname: lì ci fa caldo e si discorre di tutto, di quello di oggi, di quello di ieri, di quello di domani…” e Giulio Angioni, tematizzando il ruolo della relazione tra dischente e mastru  nei frailes,  ne tratteggia la grammatica, la sintassi e persino la cinesica  “ si impara guardando e facendo e si insegna facendo, con pochissimo spazio al discorso normativo, che per lo più o reprimenda o approvazione”.

Ecco l’humus del luogo dove è nato il  Cardinale Becciu che non può che avere a che fare con stratificate pratiche di pedagogia sociale e civile. Il suo recente richiamo a quelle pratiche fondate sulla dialettica tra differenze e nel riconoscimento del talento come valore sociale e comunitario, è rassicurante.

Riconoscere il talento e dargli possibilità significa che su dischente deve poter prendere il posto de su mastru. Nondimeno la pratica della parola bene faeddada consente quella forma di ironia/autoironia da Pisurzi in poi:  motteggiare su vizi e virtù avendo come orizzonte il bene della comunità e sos mannos.

Pisurzi come Luca Cubeddu sono parte di un’altra densa genealogia, quella dei numerosi religiosi nati a Pattada. Ciò spiega perché alto e basso e laicità e tolleranza  si contaminano senza intaccare il senso religioso. Michelangelo Pira nella prefazione a Cantones e versos di padre Luca Cubeddu, con ancora nell’orecchio l’incanto della sua parola poetica, viene non a caso sollecitato ad un “discorso anche teorico sul rapporto tra langue e parole e a porre tra le imprevedibilità, incalcolabilità, e irregolarità della lingua (cioè sul versante della creatività sociale) il tema della lingua come pratica sociale rivalutato dalla linguistica marxista, da Michail Bactin, e Valentin N. Volosinov…” .

Coglie i sintomi del disagio di un’intellettualità che si è fatta urbana ma che è irriducibile nel non voler disconoscere il suo retroterra. Vede materializzarsi in Cubeddu che si autorappresenta mentre balla con gli abiti sollevati quanto Michail Bactin avrebbe descritto come essenza stessa del  “recitarsi in esso della vita del popolo” e della  carica dissacrante. Le parole dell’antropologo segnalano comunanze e relazioni antiche  tra luoghi con cui la poesia dei pattadesi e le bandiere delle diverse chiese tracciavano gli antichi i percorsi, diventati pellegrinali.

Ai pattadesi piace raccontarsi che il paese nasca da mediazioni di centri diversi persino antagonisti e un’attitudine alla ricomposizione e alla coesione.  Non poteva che essere mediativo un sito con quel nome che si stratifica intorno ad un impianto chiesastico dedicato ad una martire romana, ripetutamente  ristrutturato dal tardo antico, su un asse stradale che metteva in relazione parti consistenti della Sardegna centrosettentrionale.

Nell’Ottocento Vittorio Angius prima e Paolo Mantegazza poi, che visitò Pattada con la prima Commissione parlamentare del 1869, riconoscono l’attitudine dei pattadesi ad essere “persone di buon umore, di notevole spirito, pronti nell’agire, impetuosi, accorti, ingegnosi, imaginosi, anime poetiche”, virtù riconoscibili in don Angelino nominato Cardinale da un Papa, venuto come lui dal margine, quello che rivoluziona più del centro l’esistente.

 

One Comment

  1. Mario Puddu

    Bene meda , professoressa Mongiu!
    Epuru… mi azis lassadu unu pagu de rànchidore ca, emmo, «la parola poetica», «poesia pattadese», «sequenza di parole», «la pratica della parola bene faeddada»… tio nàrrere chi a bois puru bos at incantadu sa poesia (sa limba chi no faghet a nondhe segare).
    Ma proite no fintzas sa pràtiga de sa peràula “male faedhada”?
    Ca un’iscola assurda, istranza (fintzas in su pagu chi tiat pòdere èssere in manos nostras), colonialista, maca, nos at fatu pàrrere sa limba de sa normalidade nostra totu male faedhada, maleducatzione, ignoràntzia, birgonza, ischifu, limba de ndhe segare e frundhire che arga cun su “mundhu” chi narat e faghet?
    Semus tropu incantados de sa ‘limba’ de sa… specialità (in chistiones de limba e de àteru!!!), ma a iscórriu cun cussa de sa normalidade chi faghet sa vida de sa zente fintzas prus ‘prosàica’ e… de bàscia manu, gherrendhe die cun die cun dignidade pro si fàghere sa vida.
    A propósitu de Patada, sa bidha de s’argumentu ca nos gloriamus de àere su cardinale Angelinu Becciu, e pro no chircare sas àteras “Patadas” (fintzas si no gai in artu), neune mi murrunzet si ammento sa punta de su ‘iceberg’/limba de sa normalidade de su èssere zente nois Sardos puru cun totu sos ‘corollàrios’: a parte sos duos númenes chi azis fatu, Padre Luca e Limbudu, elenco sos prus reghentes Camboni, Monzitta, Palitta, Nanni Falconi, Pepinu Fogaritzu, Paola Gaias, Tomasu Giagu, Pitzente Mura, Vittoriu Sanna, Bruno Sini nessi pro su chi ant pubblicadu e iscusent àteros chi mi mancant.

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