L’Ombelico del Mondo [di Fausto Martino]

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Il Piano regolatore generale è nato poco dopo l’unità d’Italia per disciplinare l’attività edilizia nei centri urbani e nell’immediato circondario. Col tempo, ha assunto funzioni programmatiche per l’intero territorio comunale divenendo, certamente più del bilancio di previsione, l’atto con maggiore valenza politica che possa approvare un’amministrazione locale. E’ ad esso, infatti, che la comunità affida la propria strategia di sviluppo, le proprie aspettative, i propri sogni, nel difficile compito di utilizzare e custodire la risorsa più importante e non riproducibile di cui dispone.

Anche il Piano paesaggistico ha avuto notevoli evoluzioni. Inizialmente concepito soltanto per gestire i vincoli e, dunque, per “affrancare le decisioni inerenti ai singoli casi dall’arbitrarietà”, ha assunto un ruolo imprescindibile per la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico dell’intero territorio regionale.

Piano regolatore generale (o Puc, che dir si voglia) e Piano paesaggistico hanno funzioni evidentemente complementari e dovrebbero definire, con indicazioni anche puntuali di tipo quantitativo e qualitativo, gli ambiti da conservare integralmente – le cosiddette invarianti – e prefigurare quelle trasformazioni del paesaggio e dell’ambiente che, compatibili con le esigenze conservative, siano tali da rispondere alle esigenze della comunità. Insomma, è un po’ come se fossero il “libretto di uso e manutenzione” dei Beni comuni, quelli che – è bene ricordarlo – appartengono a tutti.

Non è dunque un caso se la normativa ha sempre previsto – anche in momenti non propriamente democratici per la storia del Paese – che l’approvazione dei piani fosse preceduta da una fase di ampia partecipazione in cui chiunque potesse formulare le proprie osservazioni e proposte. Né è un caso se dal 2007 sia stato introdotto in Italia l’obbligo della Valutazione Ambientale Strategica per tutti i piani e i programmi che possano comunque avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale, prevedendo la consultazione dei cittadini e dei soggetti che rappresentano interessi diffusi.

Anche le leggi più perverse – come quella che in nome delle attività produttive ha piegato l’urbanistica al mercato della contrattazione – non prescindono da  specifiche valutazioni afferenti ai luoghi, non escludono dal processo decisionale i comuni, né tantomeno eliminano le fasi di pubblicità e di partecipazione dei cittadini.

Fino a una decina d’anni fa era dunque impensabile che, per legge, si potessero sdoganare interventi edificatori a casaccio, sovvertendo proprio quei piani che si erano formati con processi lunghi e partecipati. Chiunque mastichi appena un po’ di urbanistica avrebbe detto che no, non si può distribuire rendita fondiaria al buio, senza sapere dove atterreranno le nuove volumetrie e cosa determineranno.

Anche una matricola d’ingegneria o d’architettura avrebbe eccepito che una legge regionale, per sua natura generale e astratta – dunque priva di Valutazione Ambientale Strategica – non può determinare direttamente le trasformazioni del territorio, peraltro in ambiti eccezionali, oltre che sensibili e fragili come le coste sarde.

Ma poi Berlusconi, che già aveva  stordito il Paese con una raffica di condoni, aggiunse al suo armamentario di norme eversive il “piano casa”, un ennesimo condono, questa volta preventivo. Come si sa il PD dapprima storse il naso, “è la nuova cementificazione dell’Italia”, riuscì appena a dire Franceschini.

Poco dopo, il germe del liberismo e la ricerca di un facile consenso ebbero la meglio. Il “piano casa”, inteso come possibilità  temporalmente limitata di ampliare i fabbricati esistenti in deroga (rectius, in violazione) alle regole  urbanistiche dilagò in tutt’Italia. Isole comprese, direbbe Aiazzone.

In Sardegna, il piano casa è piaciuto a tutti, ma proprio a tutti – destra e sinistra finalmente unite, direi cementate – a tal punto che, superando gli originari limiti temporali, è stato prorogato più volte. L’ultima proroga al 30 giugno 2019 l’ha disposta il Consiglio in carica su proposta dell’assessore Erriu per il quale, in attesa della nuova legge urbanistica, si doveva “consentire alle imprese del settore edile di proseguire la loro attività con un minimo di pianificazione”.

Singolare concetto di pianificazione, n’est-ce-pas? Insomma, non si perda tempo, non voglia mai Iddio che si il cemento si secchi nelle betoniere. E, dunque, aspettando la nuova legge, si continui con l’attività edilizia, anche ignorando gli elementari principi di cautela che avrebbero imposto, più che la proroga delle deroghe, l’adozione di misure di salvaguardia.

Ma l’ansia di non privare la Sardegna di questo indispensabile “minimo di pianificazione”, si è spinta oltre se è vero com’è vero che la parte forte del DDL – paradossalmente denominato “disciplina generale per il governo del territorio” – è proprio nei suoi articoli di de-regolamentazione. Una specie di piano casa non-stop, che possa appagare con ulteriori 24 mesi di deregulation la bulimia cementifera, per poi approdare nei piani urbanistici comunali e diventare finalmente permanente.

Liberi tutti, insomma. Incrementi volumetrici a gogò, residenze, alberghi, dentro e fuori la fascia costiera, anche nei fatidici 300 metri dalla costa. Un tripudio. E dopotutto, a che servono le regole se le deroghe sono permanenti? Benvenuti nell’Ombelico del Mondo, qui “le regole non esistono, esistono solo le eccezioni”. Erriu, come Jovanotti, docet.

Ma il Legislatore regionale – si spera solo inconsapevole – non sembra aver valutato che gli incrementi volumetrici, generosamente dispensati al buio, condizioneranno le scelte dei piani regolatori, riverbereranno negativamente sul loro dimensionamento e peseranno sul già drammatico deficit di standard urbanistici. Gli effetti sulle martoriate coste sarde saranno devastanti. Gli ampliamenti si faranno ovunque e comunque, e non saranno distinguibili da quelli abusivi, anche perché la tanto sbandierata qualità architettonica non è in alcun modo garantita e resta, dunque, una pia illusione.

Di tutto questo ci si accorgerà tra qualche anno, quando sarà troppo tardi, quando i danni saranno irreversibili e chi ci sarà potrà soltanto stramaledire questa legge e chi l’ha voluta. Ma forse è un rischio calcolato. Dopotutto la politica-politicante traguarda orizzonti temporalmente limitati. Come diceva James Freeman Clarke, pensa alle prossime elezioni, non alle prossime generazioni.

*Gà iSoprintendente Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna

 

 

 

 

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