Bonaria, la storia scritta tra le tombe. Grandi artisti hanno firmato lapidi e cappelle di antiche famiglie [di Giancarlo Buffa]

Bonaria

L’Unione Sarda 3 Novembre 2000. Amarcord. Tra i monumenti del cimitero cagliaritano rivivono i personaggi e i momenti più significativi della città. Ripercorrendo il cammino dell’uomo, l’archeologia cerca di riportare alla luce la Civiltà di millenni, mentre gli enti pubblici sembrano assai poco interessati a custodire le testimonianze del passato recente.

Così si cancella ciò che è stato, si viene inghiottiti dalla terra una seconda volta. Ben lo sapevano 4500 anni fa i costruttori dei circoli di Li Muri o gli architetti nuragici delle tombe dei giganti in cui erano custodite le spoglie de“is mannus”, i grandi, gli antenati eroicizzati, considerati divini e perciò invocati dai sardi con riti funebri rimasti a noi segreti. In ogni area geografica del pianeta, già dal lontano paleolitico, i popoli  avevano gran cura e rispetto del “luogo del sonno”.

Benché il pensiero del lutto e della sepoltura si differenzi nel corso delle età, in rapporto al gruppo etnico- culturale, il senso del sacro, del duraturo, del sotterraneo può essere riassunto in maniera emblematica dalla casa-tomba dei re d’Egitto. Il regno dell’aldilà costituiva, nella sua accezione, il modo di configurare la vita nell’altro mondo.

Non a caso le necropoli somigliano all’architettura domestica: edificate in pietra per durare nei secoli, garantire al defunto la sopravvivenza oltre la morte, superare le barriere dell’oblio. Sovente diversificate per composizione, aspetto e corredo funerario, le tombe rispecchiano l’esperienza di una società ordinata in classi.

Neppure le catacombe, situate in aperta campagna, sembrano soddisfare appieno l’ispirazione egualitaria del Cristianesimo: arcosoli, cubicoli, cripte e trìcore rappresentavano di solito la dimora eterna di santi martirizzati, di papi e vescovi.

Successivamente, quando la religione cristiana diverrà religione di stato nel 380, prenderà piede la consuetudine di tumulare in ambienti chiesastici prelati, sovrani, regine, principi e personalità illustri; lo spazio del sagrato e  zone adiacenti era riservato a tutte le altre sepolture (alla maggior parte della popolazione). Per l’escluso dalla comunità ecclesiastica (acattolico, eretico, straniero, scomunicato, assassino, suicida, appestato ecc.) nessun atto caritatevole poteva precedere l’ultimo viaggio verso una fossa posta fuori delle mura.

La Chiesa si segnalava in definitiva unico tramite per l’aldilà, fonte di salvezza. Ciò può spiegare una delle ragioni di tante donazioni in favore di confraternite, conventi e chiese da parte di famiglie nobili, di ricchi commercianti e di quanti sino all’Ottocento, sia per redimersi da ogni colpa sia per ambizione personale, provvedevano in proprio al rifacimento di edifici religiosi, a costruirne di nuovi e istituire opere caritatevoli.

Al pari delle altre città, nella Cagliari del passato lo spazio della vita si articolava senza alcuna demarcazione con quello della morte. Il canonico Giovanni Spano nella sua Guida della città e dintorni di Cagliari, edita nel 1861, ricorda ad esempio il Fossario, adibito inizialmente a prigione ecclesiastica posta a due passi dalla Chiesa di Santa Maria (Duomo), al centro dell’antico quartiere: ”Nell’atrio vi stanno due profonde tombe che servivano per gettarvi i cadaveri, prima dell’erezione del Campo Santo, per quelli del Castello, e specialmente in tempo di epidemia o di peste”.

L’esperienza quotidiana era, dunque, strettamente connessa alla coabitazione forzata coi trapassati, segnata da una persistenza di linguaggi e di segni. Di qui il senso quasi lugubre che permane oggigiorno in certe manifestazioni religiose come quelle della Settimana Santa.

Indubbiamente l’architettura cimiteriale indica una tappa decisiva nella riorganizzazione del territorio e nell’impianto generale delle città, atteggiamento significativo della trasformazione prodotta nella nostra cultura dalle idee dell’Illuminismo e dalla civiltà industriale. Nel corso dell’Ottocento, in seguito all’unità nazionale, si assiste in Italia al fiorire nelle piazze e nei parchi pubblici di monumenti in marmo e in bronzo dedicati ai padri della patria. Richieste di opere d’arte sono avanzate, oltre che nel settore della statuaria celebrativa, in quello dell’arte cimiteriale dalla nuova classe emergente, la borghesia.

Eretto nel 1827 su progetto di Luigi Damiano, Capitano del Genio Militare, anche il cimitero di Bonaria, passato frattanto in gestione all’Amministrazione Comunale, si arricchirà di numerose opere scultoree in larga parte di modesta fattura. “Non esiste una individualità artistica (…) spiccata né tra gli operatori sardi né tra quelli immigrati nell’Isola. Torna perciò a prevalere la consuetudine dell’importazione dei manufatti scultorei, con una netta prevalenza delle commissioni a scultori liguri e carraresi, piemontesi e lombardi”- riferisce Maria Grazia Scano nell’accurato volume su “La pittura e la scultura dell’Ottocento, 1997, pubblicato per i tipi dell’Editrice Ilisso di Nuoro, su iniziativa della Fondazione Banco di Sardegna.

Aperto alla sepoltura nel 1829, il cimitero di Bonaria è di molto anteriore a quelli di Milano, di Roma   e d’altri ideati nella seconda metà del XIX secolo. Ampliato più volte, a partire dal 1835, occupa l’area di una necropoli punico-romana, riutilizzata nel periodo paleocristiano e probabilmente nel corso del medioevo. La vegetazione arborea posta a dimora ne mutò pian piano la fisionomia di luogo desolato. Così che “l’alta luce di Cagliari è filtrata dai cipressi e scorre quieta sulla scultura commemorativa” in “un’atmosfera artistica che avvolge la quasi totalità delle tombe”, sottolinea il caro e indimenticato Salvatore Naitza ne “La città all’ombra dei cipressi” (Almanacco di Cagliari, 1977).

Ad abbellire la polis dei dormienti, che reca ben visibile l’immagine della disuguaglianza sociale riflessa dalla città dei vivi, furono chiamati, sino ai primissimi anni del Novecento, artisti locali (Cosimo Fadda, Pippo Boero, Giovanni Spano, Francesco Ciusa) e della penisola (Vincenzo Vela, Gavallotti, Alberoni, Tito Sarrocchi, Pandrani, Andrea Valli, Emanuele Giacobbe, Giuseppe Sartorio, G.Battista Troiani, Giacomo Bonatti ed altri) sostenuti nel loro lavoro dalle numerose botteghe artigiane di marmorari, scalpellini e decoratori molto attivi nel capoluogo.

L’elevazione dei monumenti funebri, improntati allo stile romantico e risorgimentale del tempo, è affidata al gusto e alla libertà dei privati: cippi, lapidi, cappelle, edicole, sculture riportano nuovamente all’idea neoclassica della tomba, espressa in modo ineguagliabile da Ugo Foscolo ne “I sepolcri “, e traducono insieme il concetto di informare riguardo alla condizione sociale, alla personalità, alle virtù del defunto.

Definiti “musei a cielo aperto”, “templi-giardino”, i cimiteri divengono luoghi della memoria e della riflessione, invitano al raccoglimento, al dialogo silenzioso, intimo, con l’estinto. Cresce, intanto, l’interesse della stampa per l’arte funeraria, si scrive specialmente in occasione delle commemorazioni novembrine.

L’Unione Sarda dedica ampio spazio all’argomento, con interventi che datano sin dai tempi della sua nascita. Ai lettori di oggi sono ben noti gli articoli di Vittorino Fiori, anziano cronista in pensione, il quale, intervistato da Carlo Figari nel 1990 (v. Cagliari raccontata, Edisar, con fotografie di Nino Solinas e Paolo Succu), dichiarava: “Fa un certo effetto la polvere appiccicosa che annerisce statue spesso molto ambiziose nelle cappelle peggio conservate, dove muffa e intonaci crepati (e fiori secchi quasi fossilizzati) non si possono guardare senza una sensazione di disagio”.

Uguale imbarazzo dovette provare Salvatore Naitza, lo storico dell’arte prematuramente scomparso, se, a conclusione del breve saggio citato, sentiva “ doveroso un richiamo affinché talune opere che rischiano di essere cancellate sotto un cumulo di rovine o dal più sottile morbo dell’incuria, vengano restaurate e salvaguardate. Ciò in nome di una storia che è di tutti noi e che in parte spiega quello che siamo”.

’amore per la cultura, il monumento, le rappresentazioni plastiche a tutto tondo, ad alto e basso rilievo, si fondeva anche in Paolo De Magistris al rincrescimento nel vedere uno splendido “luogo di pietà” aggredito da una sorte di abbandono, di vandalismi, di demolizioni (Almanacco di Cagliari, 1993).

Il cagliaritano che passeggiasse nel cimitero di Bonaria, richiamato da “eredità d’affetti”, direbbe sconfortato: “Sugli estinti/ non sorge fiore ove non sia d’umane/ lodi onorato e d’amoroso pianto”. L’incuria, il degrado di quella collina di memorie gli parrebbero un oltraggio al principio della sacralità del sepolcro.

 

 

 

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