L’intoccabile tocco della coscienza di sé [di Aldo Masullo]

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Micro Mega on line 6 settembre 2018. L’intera ricerca filosofica di Aldo Masullo è dominata dalla intenzione di mettere a tema il rapporto fra soggettività e fondamento del rapporto comunitario. Nella raccolta dei suoi ultimi saggi, “L’Arcisenso. Dialettica della solitudine” (Quodlibet, 2018) questa ricerca si è precisata, venendo a ispezionare ancora meglio il senso del “patico”. Qui pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice, che ringraziamo, il primo dei saggi presenti nella raccolta.

«Patico» è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del Sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella “e-sistenza”. Così avviene il sempre nuovo cadere della coscienza fuori del proprio attuale con-sistere.

La contingenza di ciò si annuncia con la precarietà delle cose, la cui mutevolezza ne mostra insicuro l’essere. Ma, nella dinamica esistenziale, l’insicurezza dell’essere stesso che io sono si svela nella sua nuda fattualità. Allora l’emozione della contingenza invade la coscienza. Il mio mondo e la mia stessa persona che n’è parte s’inabissano.

Non resta allora che la coscienza: neppure la mia coscienza, ma la coscienza anonima, senza alcun riferimento neppure all’io nel cui nome poi linguisticamente si esprime. Le si accompagna inseparabile l’ombra della corporeità. È il sensus sui prelinguistico, anzi prelogico: fenomeno che «si è», impersonale, della cui prossimità poi la sovraggiunta coscienza personale è stupefatta. Per quanto il sé non sia qui oggetto di coscienza, o sua rappresentazione speculare, tuttavia il sensus, la coscienza nascente, è già sensus sui.

Sensus non c’è, se non è sensus sui. Lo stesso sé in nient’altro consiste che nel sensus sui, nel sentimento di sé, nella tensione verso come verso l’unità che si ha l’impressione di essere. Il Sentir-si (lo scriverò con l’iniziale maiuscola quando sostantivato) non è né «prima» né «dopo» questo o quel sentire, ma è sempre di ogni sentire la condizione originaria. Un filosofo tedesco lo chiamerebbe Ursinn. Io lo chiamerò «Arcisenso».

La mente non è un semplice operatore logico, ma un patire il proprio esserci e il reagirvi, dunque un centro d’iniziativa, in breve è soggettività. L’enorme carica emozionale di questo limite estremo del nostro esistere è segnalata da Emmanuel Lévinas in uno scritto del 1935. Qui la coscienza si mostra come la contingenza straripata, la destabilizzante tensione del proprio trovarsi ad essere, sentito come l’assolutamente infondato eppure unico assolutamente certo. Infatti in uno stesso fenomeno si vivono assoluta certezza e assoluta infondatezza – l’esser-ci, l’esistere. Insieme si sentono la nostra gratuità e il nostro «essere incatenati». «Si è là, e non c’è più nulla da fare, nulla da aggiungere al fatto dell’essere stati del tutto abbandonati, al fatto dell’essersi tutto già consumato». Così alla “invasione” della contingenza reagisce la “rivolta”, la tensione emotiva di «un bisogno di evasione», di «un’aspirazione non ad andare altrove, da qualche altra parte, ma semplicemente ad uscire». Alla fine «l’evasione è il bisogno di uscire da se stessi, cioè di rompere l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il mero fatto che l’io è a se stesso», in fondo «l’incatenamento del me al sé»[i].

Siamo insomma «soggetti»: «assoggettati», sottoposti, vincolati al nostro essere esposti a colpi. L’avvertimento del sé muove dall’intimo della vita, che nell’individuo umano, sentendo-si, vive. La vita ogni volta accade, e accade in quanto accade al sé che la vita allucina – ad un sé a cui l’accadere tocca, quasi il sé fosse prima dell’accadere, il vissuto fosse prima e non a partire dalla vita vivente.

Nell’inconscio gioco di prestigio della mente, condizione essenziale al sempre nuovo costituirsi dell’autocoscienza, l’ordine reale corpo-sé s’inverte nell’ordine ideale sé-corpo. Il sé fantasticato viene anteposto al corpo esperito, e l’identità si colloca nel sé piuttosto che nel corpo. Solamente nel quadro di questa illusione ottica mentale Milan Kundera può scrivere che il «terrore di essere corpo, di esistere sotto forma di corpo» è l’emozione che «insidia dal profondo tutta l’esistenza»[ii]

Cosa c’è di più contingente, meramente fattuale, del proprio corpo, vissuto come un accadere al sé, quasi che il sé fosse prima del corpo, e non ne fosse invece l’umbratile proiezione? Cosa c’è nel mio sé (nel me) di più contingente del corpo, dalla cui contingenza dipende quell’io, nel cui nome poi il corpo viene detto «mio»? L’accadere è sorte. Il «destino», o un suo qualsiasi sinonimo, ne è la rappresentazione mitica. Il sé, a cui vivendolo ci si riferisce, non è se non l’iniziale essere-accaduto, il paradosso di un sé accadutosi, l’individuarsi del vivente. L’accadutosi è il corpo stesso. Invece – e qui inizia l’inganno metafisico – si è tratti a immaginare che il sé accadutosi sia prima dell’accadere, sia il subjectum, il soggetto a cui il corpo accade!

Accadere è il mutamento repentino: «istantaneo e inspiegabile [in instanti atque sine ratione]», secondo la definizione che Christian Wolff dette del cambiamento onirico e favoloso, oppure traumatico e casuale[iii]. Certo non è concepibile la casualità se non opposta al bisogno razionale di dare un ordine oggettivo, sulla base di spiegazioni variamente causali, alla confusa soggettività dell’esperienza. D’altra parte si può parlare di traumaticità di un evento, e quindi dello sconcerto della differenza e del dolore della perdita, solo se c’è un colpito, il quale patisca la sofferenza del suo sé. Insomma, se una differenza non colpisse, il sé non apparirebbe; né il colpo della differenza, il tempo, apparirebbe senza un sé colpito. Ci sarebbero nel vivere modificazioni d’essere, «affetti», ma non traumi profondi, destabilizzanti moti, «emozioni».

Si tocca così la falda più profonda della fenomenalità di ogni fenomeno, il fenomeno originario con cui s’inaugura la possibilità stessa dell’apparire e senza di cui nessun altro fenomeno sarebbe possibile. «Fenomeno» è il calco italiano del greco φαινόμενον, participio del verbo deponente φαίνεσθαι, che in greco vuol dire «apparire», «manifestarsi». Il φαινόμενον è l’«apparente», il «manifestantesi», cioè l’apparire, il manifestarsi, nel momento stesso in cui appare, si manifesta. È impersonale, senza soggetto, atto con cui tutto appare, tutto si manifesta, il mondo delle cose e di chi le vede e le usa. Il manifestarsi è tutto. L’apparire, il manifestarsi, è puro accadere o, come pur si dice, evento.

Nel vissuto del tempo e del sé, l’emozione di sorpresa nel sentire come contingente l’accadere e l’emozione di angoscia nel sentire come precario il sé strettamente si tengono. Senza il dolore che l’infallibile arciere del tempo infligge, non emergerebbe il sé come il vivente bersaglio di questa offesa. Ma, se il sé non emergesse, il colpo del tempo cadrebbe nel vuoto o riuscirebbe frustrato.

La vita fa come una piega – si «ri-piega su di sé». In ciò sta il punto d’origine della fenomenalità, là dove il vivente si converte in umano e si apre a se stesso, si fa soggettivo. La vita stessa si duplica (si complica nel «vivere a fondo il proprio vivere», come letteralmente suona il tedesco er-leben), e vivendo prova l’emozione di sé. Avviene appunto quel che, nella lingua greca, si esprime con il verbo πάσχειν, che vuol dire «patire», non necessariamente nel senso della sofferenza, ma in quello ampio del «provare», cioè del «vivere» usato transitivamente, come nelle espressioni «ho vissuto un brutto momento» e «ho vissuto una bella esperienza». Radice del verbo πάσχειν è παθ-, da cui si forma il sostantivo πάθος: il calco italiano ne è «pathos» o più correntemente «patos». Il primo significato di πάθος è «ciò che si prova di bene o di male», in breve il vissuto. Si designa con ciò un’emozione sofferta, umanizzata dalla coscienza del sé.

Al fondo di ogni vissuto sta una rottura. La vita è un incessante rompersi, anche se abitualmente inavvertito. Quando il rompersi è violento e inabituale, l’in-differenza dell’essere esplode nella differenza dell’e-sistere. È questo il «repentino» (il platonico ἐξαίφνης). Esso scopre l’inarrestabile passo del cambiamento, ciò che «noi per abitudine chiamiamo tempo»[iv].

Si mostra qui l’umanità originaria dell’emozione, la falda profonda di ogni emozione propriamente umana. Ci si trova, per essa, presi nella dinamica esistenziale, in cui non soltanto le emozioni occasionali, ma tutti i vissuti, anche quelli intenzionali e semantici, cioè gli sguardi sulle cose e la nominazione di queste, si costituiscono nella loro fenomenalità, nella loro umanità di vissuti.

Solamente nel patico si e-siste. La paticità, la qualità patica, non è propria dell’emozione come pura funzione biologica, e non riguarda perciò la fisiologia neuro-psichica. Freud nel 1930 aveva scritto: «Ogni sofferenza non è che sensazione, sussiste nella sola misura in cui la proviamo»[v]. Nei nostri anni Antonio Damasio, psicologo di profonda cultura filosofica, conclude che, perché «un’emozione diventi nota», cioè sia non un mero fatto fisiologico bensì un fenomeno di coscienza, è «necessario che si produca nella mente un sé che sente», insomma un sé consistente nel riferirsi a sé[vi].

Il Sentir-si invero non è soltanto dell’emozione, ma di qualsiasi vissuto. Non solo non vi sono piacere e dolore, ma neppure percezione e ragionamento, immaginazione e ricordo, che siano tali, umani, se non sono intrisi di Sentir-si, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe di qualsiasi atto del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, e neppure perché proprio a me que sto me sia toccato. Con l’«accadermi» la coscienza di me ogni volta salta fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Essa qualifica il vissuto, il riferimento esplicito o implicito a un sé, coscienza riflessiva, autocentrata ancora prima che nella pubblicità della forma linguistica «io» e nella determinazione dialogico-concettuale. Insomma, se il vissuto è l’evento propriamente umano, la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’Arcisenso.

Il patico è il Sentir-si che accompagna inseparabilmente ogni sentire, e lo fa essere propriamente un sentire, cioè una modificazione mentale in nessun modo rappresentabile, dunque in nessun modo comunicabile: si badi bene, non un incomunicabile per una qualche circostanza di fatto, ma un intrinsecamente incomunicabile, quindi propriamente un incomunicativo. Così la vita umana risulta radicalmente autocentrata.

All’autocentramento però concorrono non soltanto la folgorante emozione del tempo, sofferto trauma della differenza, con la sua oscura figura del sé, ma pure la bruciante inquietudine dell’incontro con l’«altro». Costui è l’interpellante, a me familiare o estraneo, seducente o minaccioso, comunque sempre enigmatico: tra me e lui lui c’è una reciprocità interiormente vissuta di speculari rimandi simpatetici o antipatetici.

Nell’incontro, ognuno anima del suo sé l’immagine dell’altro. In questo vivo gioco di reciprocità ognuno si sovradetermina, enfatizzando sé come io e l’altro come tu.

L’emozione, in cui consiste il tempo – l’avvertimento «destabilizzante» di repentini cambiamenti, l’irrompere della differenza in noi –, frantuma l’inerte identità dell’ente, ne distrugge l’apaticità, mette in moto la dialettica dell’altro nel sé di ognuno, e di ognuno nel sé dell’altro. Ogni uomo è non un ente inerte, un apatico. Al contrario, egli è un e-sistente, ed è entro se medesimo esposto alle inquietanti relazioni con altri, nutrito dalle corrispondenti emozioni, radicalmente patico.

La paticità insomma è costitutiva di ciò che non è semplice vita ma e-sistenza. Come fenomenalità di tutti i fenomeni, l’illuminazione patica sfuma dall’una all’altra di almeno tre potenti tonalità emotive: la pena del «sé lacerato» (dalla violenza del tempo), il timore del «sé assoggettato» (al capriccio del caso), la vergogna del «sé esposto» (allo sguardo dell’altro e alla inevitabile sfida del rapporto con lui). Nella vertigine patica, sotto l’imperio del tempo, ci si ritrova comunque sempre da capo presso una soglia del nuovo, soli nel deserto di un assoluto «inizio». Tutto si ripete, nulla dura. Si danno infinite repliche, ma nessuna identica. La poesia di Montale registra: «Ahimè, non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani!»[vii].

Il vissuto di tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi: nella sofferenza per l’identità perduta e l’abitualità sconvolta, nel tremore per il destino incombente, nella insicurezza del rapporto con l’altro. Ma esso intero fiammeggia nell’inquietante sfida dell’inizialità, nel muoversi verso il nulla, il vuoto del futuro, a partire dal nulla, dall’ormai vuoto del passato.

Vuoto il non-ancora, svuotato il non-più, il nulla è dinanzi all’uomo come dietro di lui!

Ancora Montale, con poetico stupore precorrendo l’algido filosofema di Heidegger, sussurra: «Forse un mattino andando in un’aria di vetro, / arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: / il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco»[viii].

Si scopre qui la fonte della paticità – l’insostenibile e variamente occultata tensione dell’assoluta differenza (tra l’essere e il nulla), al cui irrompere si usa dare il nome di «tempo» – ossia, come pur si può dire, la tensione di fondo dell’e-sistere, graficamente segnalabile con il trattino che scinde/lega lo strenuo desiderio di una stabile identità (sistere) e l’assillo della martellante differenza eiettiva (e-, dal greco ἐκ– o dal latino ex-).

Nella paticità dunque ogni volta, al centro della vita, le occasionali emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si rigenerano in prove umane.

In umana anzi si ri-genera la vita tutta, da semplice vita vivente convertendosi in vita vissuta. Non v’è fenomeno, cioè vissuto, emozionale e non, che non sia tale in quanto sentito come «mio», cioè proprio di un sé, del fantasmatico sé che, preso nelle reti delle mediazioni socio-culturali, si solidifica nell’irriducibile io. Però poi ogni fenomeno traumatico, dissolti insieme con le identità convenzionali gli artifici dell’illusoria stabilità, lo si prova con l’impressione di essere saltati ad altro (altro dentro il sé, prima che fuori), quasi al di là di un vuoto, a scavalco di un abissale crepaccio, e di trovarsi da capo ad un inizio.

Nell’esplosa drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertire che l’identità della coscienza di sé dura solo attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi scatena l’emozione originaria, il vissuto decisivo. La morte, come incisivamente è stato ancora una volta ribadito, in quanto «idea dell’annientamento di sé, introduce la contraddizione, la desolazione e l’orrore nel cuore del soggetto»[ix]. Tuttavia la morte non è che il caso estremo, la chiusura di partita, di tutte le infinite morti per cui la vita, che è, come abitualmente si dice, «tempo», ma più propriamente l’incessante cambiamento delle cose (il sempre nuovo irrompere della differenza), fatalmente patisce la sua intrinseca precarietà non solo, dalla parte del dopo, nella straordinaria tragicità della catastrofe finale quanto pure, dalla parte del prima, in certa ordinaria catastroficità del quotidiano.

La rottura fenomenologica, prodottasi con lo spostamento dell’attenzione filosofica dall’idealità dell’«intenzione» alla fattualità dell’«affezione», ora appare radicalizzata dal più inquietante dei rilievi. Diventa infatti chiaro che la fattualità, messa in gioco dall’auto-interrogazione dell’uomo, non riguarda l’«affezione», pur sempre funzionale alla transitività e relatività di un conoscere, ma l’«emozione», la vita tutta concentrata nell’indicibile traumaticità del suo senso immanente.

Il patico intride di sé l’intera soggettività, anzi la fa essere. Non v’è atto umano che sia tale, senza essere più o meno avvertitamente accompagnato dall’emozione profonda del Sentir-si. Ma appunto perché il Sentir-si è l’incomunicativo, o, come viene impropriamente detto, l’indicibile, esso è al riparo da ogni possibile progetto epistemico. Il patico non ha in sé alcun elemento ideale, o idealizzabile: è fattualità pura. Perciò a nessuna messa tra parentesi, riduzione, epoché esso può essere sottoposto: accantonata la sua fattualità, di esso non resterebbe nulla. Non soltanto la forte epistéme, ma neppure una «debole» ermeneutica, come pur fu proposto, avrebbero presa sulla fattualità patica.

La paticità, comunque denominata, dalla filosofia può solo essere riconosciuta come assoluto limite, ma non conosciuta. Patico infatti è l’immediato Sentir-si, il trovarsi a tu per tu con il sé. Invece il conoscere è un’operazione, una mediazione più o meno complessa.

Questo riconoscimento s’incontra esemplarmente nella riflessione critica di Benedetto Croce. Qui, scontrandosi con l’invalicabile estraneità di ogni coscienza personale ad ogni altra, resta annichilita l’apparente ovvietà di credere i pensieri individuali pubblicamente comprensibili, e quindi capaci di «verità», sol perché formulati con il linguaggio comune a tutti.

In una pagina del 1922 Croce scrive: «Noi non comunichiamo mai il vero, e solamente, quando ci rivolgiamo agli altri, foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione di adeguarsi al nostro stato d’animo, di ripensare quel vero che pensammo noi […]. E se la cosa sta così, il problema del comunicare con altrui, del parlare ad altrui, non è quello di dire o non dire il vero ma di operare su altrui perché operi»[x].

Qui certamente non si tratta del vero come astratta formulazione logicamente “calcolata”, ma della persuasione intima che accompagna ogni pensiero, del sentimento con cui esso è vissuto, insomma del sensus sui per cui all’io, essendone inseparabile la certezza del suo medesimo e-sistere, la verità appare.

Un ventennio più tardi, come a completare la sua riflessione, Croce aggiunge: «Si deve convenire che quel conoscere dell’intimo, quel conoscere riservato alla coscienza, e in cui solo l’occhio di Dio penetrerebbe, o in certi singolari momenti quello dell’amore e della amicizia, non solo non è un conoscere storico, ma non è un conoscere di nessuna sorta […]. La cosiddetta intimità della coscienza è nient’altro che il sentimento, poeticamente e intellettivamente muto»[xi].

Parlare del «sentimento muto», muto non per costrizione ma per sua intrinseca natura, di cui – come della stessa indicibile intimità della coscienza – Croce parla a margine del suo argomentare dialettico intorno alle forme necessarie della conoscenza storica, vuol dire alludere al fondo dell’irriducibile esperienza della contingenza patica.

La formula del «sentimento poeticamente e intellettivamente muto» nel linguaggio di Croce sembra alludere precisamente alla paticità come incomunicatività, campo del senso, del non significante né significabile, e tuttavia necessario perché una comunicazione di significati sia possibile.

Nel pensiero del Novecento, la relazione erotica parve perfetta metafora dell’incomunicabilità tra le persone. Sembrarono risonare i due splendidi passi poetici che l’Antico prima e il Rinascimento poi ci avevano consegnati. Lucrezio aveva nel I secolo a.C. evocato gli amanti e l’accanimento delle loro carezze nel tentare il possesso reciproco del corpo amato, ma «tutto invano, poiché nulla essi possono strapparne, né penetrarvi e interamente fondervisi»[xii]. Sedici secoli dopo Giordano Bruno aveva raffigurato il supremo e frustrato desiderio d’amore con le «spire dei serpenti lussuriosi, che s’avviluppano in modo che tutto il corpo di uno si unisca al corpo dell’altro, ma invano, perché ben poco è il loro confondersi, e ad ognuno il corpo resta integro»[xiii].

Nel Novecento un momento alto della riflessione filosofica su questo tema fu la critica di Sartre a Hegel. Nessun concetto di «Spirito», insisteva a dire Sartre contro Hegel, «può produrre o fondare quell’inafferrabile non-essere di esteriorità», senza di cui non può esservi pluralità effettiva. Sartre tentò il cammino dall’unicità di ogni singolo all’unità comunitaria della sintesi, anziché quello che, hegelianamente, dovrebbe portare dall’unità universale della sintesi all’unicità di ogni singolo e così garantire la possibilità della relazione intersoggettiva. L’impresa nell’impostazione sartriana risultò non meno impossibile di quanto lo era stata in quella hegeliana. Sartre correttamente criticava la nozione di coscienza riflessa, o conoscenza della coscienza, e al tempo stesso concepiva la coscienza tutta «intesa» al mondo, mai a se stessa.

In verità, la coscienza di sé – il Sentir-si – non è né una evidentemente assurda coscienza della coscienza, né all’opposto una mera coscienza nucleare, puntuale, istantanea. Piuttosto non v’è sentire che non avvenga nel cuore di una vita in corso, nel mezzo di una situazione di coscienza, nella temperie di una storia personale: come tale ogni sentire, coinvolgendo tutta la ricchezza di una storia personale, non può non essere un Sentir-si, un Arcisenso[xiv].

Né Lévinas né Arendt avevano chiarito il come di questa unicità.

Una suggestione preziosa va colta in uno degli “appunti di lavoro” di Merleau-Ponty, annessi al suo ultimo libro interrotto dalla morte. Vi si parla dell’«intoccabile» che è in noi. Questo «non è un toccabile, solo di fatto inaccessibile»: non è un accidentalmente intoccabile. È piuttosto ciò che mai toccherò, non perché sia fuori della portata della mia mano, o per un altro impedimento occasionale, bensì perché è un «vero negativo», in sé privo di toccabilità. Si tratta insomma di un «intoccabile di diritto». Riattivando una nota osservazione di Husserl sulla mano che nel toccare è toccata, Merleau-Ponty intende mostrare che il mio corpo è in continuità con il mondo, né io potrò mai rompere tale continuità toccando come dall’esterno, facendone un oggetto, il mio stesso toccare qualcosa. S’intende così rivendicare il sensibile come indistinzione di soggetto e oggetto nell’originaria carnalità del corpo[xv].

La figura dell’«intoccabile» qui appare inserita in un progetto di transito dalla fenomenologia verso un’ontologia del sentire.

Tuttavia l’idea dell’intoccabilità comporta ben altra possibilità euristica, decisiva da un punto di vista antropologico.

Infatti, che toccare sia toccar-si vuol dire innanzitutto: io, nel toccare l’altro, mi sento toccarlo, e così l’altro, nel toccare me, si sente toccarmi. Né avrebbe senso relazionale il mio toccare un altro, se l’altro non si sentisse toccato, nel qual caso toccherei soltanto un corpo, non un altro uomo. In ogni caso, e qui sta il punto decisivo, mai il Sentir-si dell’altro io posso toccarlo, né l’altro il mio.

Come io sono il mio sentir-mi, così ogni altro uomo è il suo Sentir-si. È chiaro ora che la situazione erotica è la metafora non della semplice incomunicabilità, dell’irraggiungibilità del sentire altrui, ma ben più radicalmente dell’irraggiungibilità dell’altrui Sentir-si.

Verrebbe da dire che degli amanti di Lucrezio e di Bruno, ognuno frugando con le carezze il corpo amato cercassero, senza rendersene conto, non altro che il Sentir-si di lui, non altro insomma che di toccare dell’altro il punto «intoccabile». Ognuno di noi, nell’unicità del suo Sentir-si, è solo.

Il tatto è il senso estremo, l’ultimo appello quando dell’attendibilità degli altri sensi non si è sicuri, la prova che resta all’incredulo Tommaso dei Vangeli. L’«intoccabilità» vuol dire l’impossibilità per ogni individuo di entrare «in contatto» con il Sentir-si di un altro. Nel rapporto intersoggettivo io mi apro all’altro, non all’aprirsi dell’altro a me. Eppure è il suo intoccabile Sentir-si che permette il suo aprirsi a me, così come il mio intoccabile sentir-mi permette il mio aprirmi a lui. Neppure il reciproco toccarsi degli amanti nel gesto erotico realizza un diretto Sentir-si comune o, come si potrebbe tentare di dire, un «noi-sentirci».

Jacques Derrida esemplarmente coglie questa assoluta impossibilità, l’insuperabile «separazione dell’Altro». Riprendendo il pensiero di Emmanuel Lévinas, egli scrive: «La ricorrenza delle parole “comune” e “comunità” non deve ingannare. La “comunità del sentire”, “comunità del senziente e del “sentito”, “l’azione comune del senziente e del sentito”, non fanno che sigillare, nel cuore stesso della carezza voluttuosa, una doppia e tripla solitudine, quella degli amanti separati dal terzo e dal legame sociale, quella dell’Amato e dell’Amata separati fra loro: né “possesso”, né “comunione fusionale” e nemmeno «complementarità nel “rapporto tra amanti”. In fondo, niente è possibile, niente è raggiunto e niente è toccato da una carezza»[xvi].

L’atto del Sentir-si è un intoccabile tocco.

La metafora dell’intoccabilità viene ripresa da Daniel Heller-Roazen nel dotto lavoro sul cosiddetto “tatto interno”. Certamente quel che Merleau-Ponty aveva annotato nel dire che «toccare è essere toccato» può riferirsi sia al fatto che toccare è sentirsi toccati da ciò che si tocca, sia al fatto che, se una persona tocca se stessa, il suo sentirsi toccare e il suo sentirsi toccata “non coincidono”. Ora a Heller-Roazen interessa questo secondo fatto, di cui perciò egli enfatizza la necessaria implicazione: in un medesimo atto, qual è il toccarsi di una persona, il sentirsi toccare e il sentirsi toccato non sono uno ma restano due. «Anche ove io ponga una mano sull’altra, la mano che tocca “non è mai esattamente quella toccata”». Bisogna dunque supporre tra i Sentir-si, incomunicativi, un elemento che funzioni da medium, un campo in cui ognuno di essi “incontri” gli altri. «Ogni termine toccante e toccato sollecita e incontra questo elemento precisamente come ciò “in cui” si dà ogni contatto […]. Si potrebbe sostenere che, in quanto nessun contatto è immediato e “il toccante non è mai esattamente il toccato”, non si possa mai incontrare altro che tale medium»[xvii]. È evidente che, su questa linea, la funzione dell’«intoccabile» si dilata iperbolicamente, segnando l’incomunicatività non più tra le esistenze, ma tra i Sentir-si di ciascuna esistenza, anche se poi in compenso essi vengono pensati connessi, come da comune radice, dall’originario senso della vita, dalla «tenera carne» dell’uomo! Così, ancor più drasticamente che in Merleau-Ponty, la conversione dal rigore fenomenologico al mistico dell’ontologia preclude ogni attenzione all’impossibilità di relazioni tra le esistenze, al fenomeno antropologico della solitudine.

Eppure qui sta il dato fenomenologico inoppugnabile. A quel Sentir-si, che qualsiasi vissuto rende possibile, corrisponde la radicale solitudine dell’individuo umano.

Anche nella profonda comunione di un’amicizia, io parlo con te, cioè svolgo un discorso di cui tu comprendi il significato, e a cui appieno corrispondi; io posso perfino parlarti della emozione che provo in questo dialogare, e tu m’intendi, ma non io posso farla sentire a te, non posso farti sentire il mio sentir-mi, come tu parlando non puoi farmi sentire il tuo sentir-ti. È innegabile: ognuno di noi è irrimediabilmente solo. Al fondo gli altri gli sono estranei, come lui agli altri[xviii].

Che neppure la relazione strettamente intellettuale, come la funzione logico-linguistica, sfugga al limite dell’incondivisibilità del Sentir-si, nulla dunque della vita psichica restando fuori della paticità, trova il suo esemplare riconoscimento letterario in una pagina di Luigi Pirandello: «Il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io mai potrò comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio»[xix]. È evidente che comunicabili sono i significati, non il senso; il logico, non il patico.

Thomas Dumm ammette senza esitazione che le solitudini degl’individui sono irrimediabili, e avverte che la stessa poesia con la sua straordinaria forza accomunante non può farci uscire dalla solitudine ma soltanto dirci «come essere soli insieme»[xx].

Va detto che nell’umanità dell’individuo concorrono due specie di fatti, che sono anche due punti di vista su di essa. Una specie sono i viventi in carne ed ossa, i corpi, i quali movendosi s’incontrano o si scontrano, e così lottando o abbracciandosi visibilmente comunicano: è la sfera del semiotico, che la cultura via via allarga nel semantico e nel logico. Una seconda specie sono i vissuti, il senso che ogni volta vivendo io provo, un sentimento del vivere che provo io, unicamente io: è la sfera del patico. La prima sfera è popolata di relazioni, la seconda di solitudini.

Qualsiasi comunicazione intenzionale e in un qualsiasi modo registrabile non si svolge se non tra corpi viventi, riconosciuti come «persone», pubblici operatori, i quali grazie a regolate procedure linguistiche si scambiano significati. I vissuti invece appartengono all’area dell’«intoccabile»: essi sono i privatissimi sensi, chiusi tutti nelle impenetrabili custodie mentali.

Le parole giocano il ruolo decisivo. Esse mediano senza unificare: connettono il vivente e il vissuto, l’organismo e la psiche. Anzi costituiscono il più complesso dei sistemi con cui i due campi di vita incessantemente si scambiano domande e risposte. (In questi scambi non mancano errori ed equivoci. Ne sanno qualcosa gli psicanalisti).

Tutto ciò è possibile, perché le parole non sono soltanto delle combinazioni di segni prodotte da un’intelligenza naturale, o anche «artificiale», ma sono i canti dei piaceri e del dolori patiti, dunque umani. Se ne trova la perfetta intuizione nella notissima sentenza del Vico: «Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati e allegri»[xxi].

Il potere della mediazione senza cui, data l’«intoccabilità» del Sentir-si, nessun rapporto umano sarebbe possibile, non sta in un indefinito terzo elemento, come Heller-Roazen enigmaticamente ipotizza, ma nella stessa umanità della vita, nella sua ambivalenza, vita vivente e vita vissuta: è la sottilissima soglia, insieme taglio e sutura, tra le sue due facce, tra i suoi due inseparabili versi, l’organismo e la mente, l’oggettivamente esposto e il soggettivamente intangibile, in breve il vivere e il viver-si.

Così il Sentir-si rende possibile che il sentire si umanizzi. Qui ferve l’Arcisenso, il punto generativo a partire da cui la vita, vivendosi, facendosi senso di sé, ogni volta inizia a sviluppare il pensiero: pur nascosta, può attraverso la mente riempire il mondo dei suoi personaggi, tra i quali c’è, protagonista, l’io.

Sembrerebbe qui d’incappare in un circolo vizioso tra natura e cultura. Da un lato il sensus sui, il riferimento a sé del proprio godere e soffrire, renderebbe possibile il pensiero, lo accenderebbe e nutrirebbe delle sue emozioni. Dall’altro lato il pensiero, insegnando al sé ad essere io di fronte a un mondo di molti altri attori che si presentano ognuno come «io», lo renderebbe capace di capire che l’emozione provata è la sua emozione. In effetti, come si è accennato in apertura di questo discorso, il sé non precede l’io, né peraltro questo precede quello. In principio non vi sono se non le emozioni nella loro selvatica naturalità: esse sono solo sentite, anzi, a parlar propriamente, sono dei puri sentire. Mano a mano poi ogni figlio d’uomo, ogni vivente umano nelle sue relazioni prima sensual-fantastiche, poi linguistico-logiche, con altri attori che di sé dicono «io», impara che anch’egli, riferendosi a sé, si nomina «io». Prima però, già s’è detto, la sua coscienza nascente si proietta in un’ombra, il sé, come se questo fosse un ciò che precede l’«io», quasi una sostanza di cui «io» fosse uno sviluppo o un supporto, o anche solo un nome che viene dopo la cosa. Insomma, che il sé preceda l’io è un gioco della mente, una sorta d’inganno che, questo sì, meriterebbe d’esser detto “trascendentale”, in quanto è la condizione necessaria della possibilità del pathos, visto che, prima che s’accenda il Sentir-si, l’emozione non è umana.

Così l’apparente viziosità del circolo dilegua. L’ io, in ogni vivente nato da uomo, è la vita stessa che, nel suo farsi umana sentendo-si, si rappresenta e, per così dire, ufficializza il suo sé. Ogni nato d’uomo, accolto dagli adulti e immerso nell’ininterrotta fluenza dei discorsi, impara a riconoscersi.

Il Sentir-si, come s’è detto, è Arcisenso, senso originario, non in quanto venga «prima», ma in quanto in atto «sempre», in ogni momento della vita: condizione necessaria, affinché qualsiasi emozione o sensazione sia «fenomeno», coscienza vissuta, assuma valore nello svolgersi unitario di una storia personale.

Purtroppo l’individuo umano, nello sperimentare che il suo incarnato Sentir-si è condizionato dalla relazione con gli altri, scopre anche il dolore della sua insuperabile solitudine.

Dopo che nell’Ottocento Nietzsche ebbe proclamato la morte di Dio e poi nel Novecento Michel Foucault la morte dell’Uomo, non poteva certo sopravvivere il Soggetto. Tuttavia, se scomparso è il Soggetto «teoretico», sostanzialmente «a-patico», non è scomparsa la soggettività, che è il modo, il come, dell’essere uomini, vite pensanti ma prima di tutto pazienti, cioè «patiche».

Contro la filosofia del Soggetto, ovvero l’idea del pensiero come assoluta identità e necessaria universalità di sostanza trascendente o forma trascendentale o atto spirituale puro, ci si accorge che non la funzione della molteplicità empirica degl’individui umani, delle vite pensanti, dipende dalla verità dell’unico Soggetto, bensì l’ideale verità è il risultato sempre in fieri dell’ininterrotto lavoro degl’innumeri individui in carne ed ossa, tutti «soggetti», tutti cioè assoggettati alle forze della natura e delle società ma pure stimolati ad essere creativamente reattivi.

Del resto già a partire dall’ultimo Settecento, Johann Gottlieb Fichte aveva chiarito il concetto di soggettività formulando il fondamentale principio secondo cui «nessuno diventa uomo se non tra uomini», e aveva concorso a maturare nella modernità l’idea della «comunità umana» come storia, vale a dire come incessante operare di relazioni entro cui, sotto la spinta d’altri, ogni soggetto si costituisce a sua volta come io[xxii].

Qui s’annida la contraddizione, di cui vive la soggettività. Essa, come modalità propria dell’essere uomini, è un paradosso dialettico: relazione di assoluti, relazione di non relativi.

Perciò l’infelicità è propria dell’uomo. Essa non deriva affatto dalla natura, come alcuni vogliono, ma neppure dalla società o dalla cultura in quanto tali, come altri sostengono, bensì dal fatto che la vita, educata attraverso gli strumenti sociali della cultura, mette inesorabilmente a nudo il dato originario dell’insuperabile solitudine del Sentir-si[xxiii].

Mai può cessare questa contraddizione reale tra l’inestinguibile desiderio di relazione dell’io e il carcere a vita della solitudine del corporeo sé, in breve tra intersoggettività e paticità. Della tensione tra i due opposti poli vivono tutte le passioni degli uomini, le vitali e le mortali.

Però a questo punto non si può non guardare anche, come suol dirsi, il rovescio della medaglia. La logica della realtà si diverte a contraddire se stessa, mostrando che il negativo è anche positivo. È evidente che, se le individuali solitudini fossero compenetrabili, l’umanità non sarebbe plurale, pluricentrica, né vi sarebbe inter-soggettività. Con ciò la moltitudine umana si risolverebbe in un unico Soggetto, certamente non ideale, come le astratte filosofie lo hanno variamente e in vari tempi concepito, ma empiricamente reale, un mostruoso organismo, ottuso corpaccio, gravante senza senso sulla Terra abitata.

La contraddittoria necessità di pensare l’umano come relazione di non relativi fu formulata nella maniera più chiara da Jean-Paul Sartre: «Insuperabile è la contingenza originale dei miei rapporti con l’altro, cioè il fatto che non c’è nessuna relazione di negatività interna tra la negazione per cui l’altro si fa essere altro da me e la negazione per cui io mi faccio essere altro dall’altro. Questa contingenza è il fatto delle mie relazioni con l’altro, come il mio corpo è il fatto del mio essere-nel-mondo. L’unità con l’altro è quindi di fatto irrealizzabile. Ma lo è anche di diritto, perché l’assimilazione del per-sé e dell’altro in una stessa trascendenza [in un medesimo fenomeno coscienza] comporterebbe la scomparsa del carattere d’alterità dell’altro» e dunque la scomparsa della pluralità dei soggetti[xxiv]. Più tardi, nella seconda elaborazione del suo pensiero, Sartre volle superare il «cannibalismo» metafisico della prima. Con linguaggio non più fenomenologico ma materialistico-storico identificò ora la soggettività non con la coscienza ma con la prassi, cioè non con un’intelligibilità originaria tendenzialmente solipsistica, ma con i processi di totalizzazione sempre più complessi, «nati e sviluppati nel campo di tensione, prodotto dalla penuria». In questo quadro «la solitudine dell’organismo» non è che «l’impossibilità di unirsi con gli altri in una totalità organica»[xxv]. Mentre tra le coscienze della prima visione non c’era mediazione possibile, ognuna di esse essendo «l’inferno» per l’altra, tra le prassi della seconda la «materia» è la mediatrice[xxvi]. Si tratta tuttavia di una mediazione che, confermando il carattere oppositivo dell’altro soggetto, non risolve il conflitto, anzi lo rinfocola, e così garantisce la pluralità. La «penuria», propria della materia, fa di ogni uomo un «contro-uomo»[xxvii]: una pluralità non di coscienze, ma di organismi corporei. La «solitudine» dunque si banalizza, non è l’autentica necessità costitutiva dell’individuo, ma solo un «caso particolare delle relazioni materiali», insomma della grande rete relazionale economica, in cui consiste la storia: è un effetto contingente di essa, semplice distanza e separazione spaziale di un organismo dall’altro. «Nella separazione stessa, cioè in un rapporto che tende verso l’esteriorità assoluta», si scopre insomma «il luogo storico e concreto d’interiorità degli organismi umani»[xxviii].

In ogni modo, a chi s’ostini a cercar di comprendere onestamente, con l’osservazione e la ragione, il proprio dell’uomo, ovvero ciò che noi siamo, due certezze fra tanti dubbi per ora restano.

L’Arcisenso è impenetrabile, ma penetra di sé ogni esperienza. Esso contrasta l’intersoggettività, la relazione d’ogni singolo con gli altri, e tuttavia è condizione necessaria della sua possibilità.

È evidente che il principio antropologico – l’idea con cui si comprende il senso di «essere uomo» –, si muove in un circolo. Punto di partenza e punto d’arrivo è sempre la relazione, ma in due modalità diverse. Tra la prima e la seconda modalità funziona una cerniera, un medio: la solitudine. Questa può essere puro sentire o ragionata consapevolezza, ma è comunque paticità del Sentir-si. Essa non sarebbe chiaramente, spesso dolorosamente, presente senza l’io, che comincia a costruirsi nella relazione, uscendo dalla simbiosi bambino madre. Intanto, senza la patita coscienza della solitudine, della propria separante differenza e unicità, cioè dell’irriducibile esclusività del proprio punto di vista, neppure esisterebbero pluralità degl’individui e relazione sociale che ognuno d’essi strenuamente e in vari modi persegue, affaticandosi a costruire sistemi di comunicazione con altri soggetti-persone.

Quale tensione propulsiva, nel transito dalla comunione simbiotica alla relazione sociale, potrebbe trasformare il morbido della prima nella durezza della seconda, il giardino d’amore in terreno di scontro, l’erotica in polemica, e insomma mettere in moto la drammaticità della «storia», se non, in ogni individuo, ben più che il terrore della morte, la più o meno oscuramente avvertita minaccia della solitudine invincibile?

Come nell’ultima parte della sua maturità ipotizza Freud, «il senso dell’io, presente nell’adulto, non può essere stato tale fin dall’inizio». Nell’aurora della vita psichica, «il lattante non distingue ancora il proprio io dal mondo esterno in quanto fonte delle sensazioni che lo subissano»; solo a poco a poco si produce «il distacco dell’io dalla massa delle sensazioni, e dunque il riconoscimento di un “fuori”, di un mondo esterno». Perciò, se si riconosce che «nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi», non è arbitrario pensare che il primo e più proprio desiderio dell’io sia il ripristino della simbiosi non solo con la particolare fonte del suo alimento, la “madre”, ma con il tutto che «in origine egli includeva», o almeno con ciò che di quel tutto gli è più vicino, gli altri io, gli unici coinvolgibili in una relazione intersoggettiva[xxix].

Paradossalmente, solo in quanto si è costituito come io nella relazione, l’individuo umano scopre di essere solo. Da questa ineludibile esperienza si alimentano l’«egoismo», la cecità dell’io ad ogni sé altro dal suo, e il complementare «egocentrismo», il vizio capitale dell’io di sentirsi il centro esclusivo del mondo, quasi fosse, come oggi s’usa dire, «un uomo solo al comando». L’individuo così inganna se stesso, dissimulando in uno strapotere apparente la realtà del proprio inesorabile limite. Il peggio è che quasi tutte le culture storiche, assecondando l’inganno, hanno impresso alla relazione la forma dell’agonismo antagonistico: lotta mortale o regolato conflitto, guerra o pace armata, nessuno sicuro degli altri.

Alla fine, ridotta ad antagonismo la «politica», e a «politica» la forma dell’agire sociale, sembra che dovunque, nascosto dentro la promettente mela dell’«amore», si debba sospettare il divorante verme dell’«odio».

Nel cuore di ogni esperienza relazionale sta il fenomeno, cioè il manifestarsi, della solitudine. Con un movimento dialettico, non astrattamente logico bensì esistenziale, via via nell’individuo si produce una metamorfosi profonda. Lo schema è semplice. (Primo) Entrato nella relazione intersoggettiva, l’individuo ne sperimenta l’invalicabile limite, l’impossibilità di far sentire ad altri il suo sentire, e di sentire quel che altri sentono: scopre la solitudine, ma insieme l’inesaudibile desiderio di uscirne. (Secondo) Se, come avverte Platone, non si può desiderare se non ciò che si è perduto, e dunque è già noto, il desiderio di uscire dalla solitudine è insaziata nostalgia di quell’intersoggettività cui si è stati fin dal principio iniziati. Ma, per quanto si tenti, non si riesce mai a realizzarla autenticamente, si urta sempre da capo contro il suo incrollabile limite. (Terzo) Il desiderio, amaramente frustrato, si sente tradito e l’individuo, ancora solo, ormai senza speranza, si fa ostile, chiuso in difesa o furente all’attacco. (Quarto) Cosa a questo punto possa accadere, lo suggeriscono alcune pagine di Jean-Jacques Rousseau, il pensatore più scopertamente «patico» dell’antropologia moderna. Egli, non per primo ma con una nuova valenza sociale, distingue tra l’«amore di sé», «sentimento buono e assoluto», amore della vita in quanto vita, e il suo rovescio, l’«amor proprio», «sentimento di raffronto», dominante nell’animo di chi «si paragona» con gli altri con l’ambizione di primeggiare, con la «pretesa di riuscire il preferito», sempre vincente[xxx]. Di fronte a una tale arroganza, i pochi o molti che non ne sono affetti tendono a «ritrarsi nella solitudine». Alla fine, questi «solitari per forza, rosi dal dispetto e dall’onta dell’esclusione in cui son tenuti, possono diventare inumani, feroci, e prendere in odio insieme con la propria catena anche quelli che non ne sono carichi»[xxxi].

In realtà, come fin qui si è mostrato, «solitari per forza» sono tutti gli uomini, anche al fondo gli stessi arroganti. Dunque in tutti può accadere che l’amore di sé, il desiderio di vita, risentito, muti di segno, rovesciandosi nel suo contrario, nell’odio, in disperato desiderio di morte, comunque dissimulato o camuffato. In un’epoca di debolezza morale come la nostra, il desiderio di morte più frequentemente che in odio si trasforma in paura castrante. Spesso si ode dire: «Ci sentiamo soli, ma abbiamo paura dell’intimità»[xxxii]. Il pericolo estremo ora è che odio e paura si generalizzino, oggettivati in modelli di vita. Così l’«intimità» sempre più deperisce, mentre negli arsenali s’accumula una strapotente distruttività. Fino a ieri, nonostante tutto, il mondo strideva sui suoi usurati cardini ma non ne usciva. Oggi, nel tempo dell’atomica e dei robot, incombe il rischio del suo scardinarsi.

NOTE

[i] Emmanuel Lévinas, L’evasione, trad. it. di D. Ceccon, Elitropia, Reggio Emilia 1984, pp. 19-21.

[ii] Milan Kundera, L’ignoranza, trad. it. di G. Pinotti, Adelphi, Milano 2001, p. 182.

[iii] Christian Wolff, Philosophia prima sive Ontologia [1729], § 499, in Id., Gesammelte Werke, III, a cura di J. École, Olms, Hildesheim 1962.

[iv] Ludwig Binswanger, Sogno ed esistenza, in Per un’antropologia filosofica, a cura di E. Filippini, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 67 e 69-70. Che il «tempo» sia soltanto il nome abituale che noi diamo al cambiamento è rilevato da Aristotele, in Phys., IV, 12, 221 a 35 – b 2, nonché 13, 222 b 24-25. Citerò sempre i luoghi di Aristotele con la consueta numerazione Bekker, che consente di rintracciarli in qualsiasi edizione corrente. Sugli aspetti antropologici del «repentino» si sofferma il mio libro Il tempo e la grazia, Donzelli, Roma 1995.

[v] Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Opere, 12 voll., a cura di C.L. Musatti, vol. X, Boringhieri, Torino 1981, p. 569.

[vi] Antonio Damasio, Emozione e coscienza, trad. it. di S. Frediani, Adelphi, Milano 2001, pp. 89 e 335. Nell’economia del presente scritto, mi limito a richiamare questa recente e autorevole posizione, senza ripercorrere la lunghissima e complessa storia, da Aristotele in poi, del rapporto tra i fatti psichici elementari, non solo emozioni ma anche sensazioni, e il loro riferimento ad un principio unitario come il sé.

[vii] Eugenio Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano 1991, p. 33.

[viii] Ivi, p. 54.

[ix] Edgar Morin, L’identità umana, Cortina, Milano 2002, p. 27.

[x] Benedetto Croce, Etica e politica, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1994, pp. 46-47.

[xi] Id., La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938, pp. 209-210.

[xii] Tito Lucrezio Caro, La natura [De rerum natura], a cura di O. Cescatti, Garzanti, Milano 1991, IV, vv. 1110-1111, p. 305.

[xiii] Giordano Bruno, L’immenso e gl’innumerevoli, VI, 5, in Id., Le opere latine, tr. a cura di Carlo Monti, Utet, Torino 1980, p. 708.

[xiv] Nei più maturi risultati della psicologia cognitiva l’idea della dinamicità e complessità della coscienza viene riconosciuta, ovviamente dal punto di vista non del «vissuto» ma del «vivente». Ne riassume criticamente le posizioni un bel libro di M. Marraffa e A. Paternoster (Sentirsi esistere, Laterza, Roma-Bari 2013, p. 198). Vi s’illustra come l’elementare soggettività corporea, immersa nel flusso delle sue relazioni con il mondo delle cose e soprattutto degli uomini, lotti duramente per la conquista dell’identità, del riconoscimento di sé come io.

[xv] Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, pp. 307-309; trad. it di A. Bonomi, a. cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 2017, pp. 619-621. L’osservazione di Husserl sulla mano è in Id., Idee per una fenomenologia pura […], libro II, § 36, ed. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1965, pp. 339-341.

[xvi] Jacques Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy, tr. di A. Calzolari, Marietti 1820, Genova-Milano 2007, p. 120.

[xvii] Daniel Heller-Roazen, Il tatto interno. Archeologia di una sensazione, trad. it. di G. Lucchesini, Quodlibet, Macerata 2013, p. 249.

[xviii] L’esclusiva impenetrabile intimità dell’individuo con sé potrebbe dirsi con la bella espressione «il nascosto degli uomini» del nostro Giambattista Vico, il quale però con essa non intende se non la coscienza morale, che solo Dio può scrutare (Princìpi di Scienza nuova (1744), in G. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Meridiani Mondadori, Milano 2005, [Nicolini, § 342], p. 549.

[xix] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Id., Tutti i romanzi, Meridiani Mondadori, Milano 1973, vol. II, p. 769.

[xx] Thomas Dumm, Apologia della solitudine, trad. it. di C. D’Amico, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 181. Qualche anno prima George Steiner aveva scritto: «L’amore più intenso […] è una negoziazione tra solitudini», in Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (2003), trad. it. di S. Velotti, Garzanti, Milano 2007, p. 67.

[xxi] Cfr. G. Vico, Princìpi di Scienza nuova, cit., §§ LVIII-LIX, [Nicolini, §§ 229-230], p. 517.

[xxii] Il fondamentale principio fu affermato da Fichte nelle opere del 1796-1797. In ben altro contesto teorico, lo hanno ampiamente coltivato nel Novecento soprattutto Husserl e le molteplici discipline fenomenologiche. Sulla questione, come sulla critica di Sartre a Hegel, io discussi dettagliatamente in due libri, La comunità come fondamento. Fichte Husserl Sartre (Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1965) e Fichte. L’intersoggettività e l’originario (Guida, Napoli 1986). D’altra parte, in un terzo libro, Il senso del fondamento (Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1967, 2a ed., Editoriale Scientifica, Napoli 2008), cercai di spiegare che il cuore dell’antropologia è il dinamismo dialettico che originariamente gioca tra il costituirsi dell’io e il nascondersi della comunità.

[xxiii] Anche nella filosofia dell’esistenza di Karl Jaspers è centrale il paradosso della «solitudine» in tensione dialettica con la «comunicazione». Ma l’una è soltanto una «dolorosa sopportazione» nell’«attesa» del «dono» dell’altra e vale come accesso alla libertà. La «solitudine» così è pensata in modo puramente etico. Il che viene richiamato con forza da Giuseppe Cantillo (tra l’altro, in Con sé/oltre sé, Guida, Napoli 2009, p. 80).

[xxiv] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 415. Troppo spesso rinascente nel mondo, anzi ora minacciosamente all’attacco, si mostra l’incubo leviatanesco e, peggio, concentrazionario a cui, mentre intelligenza ed amore sono in fuga non si sa dove, il bisogno sociale di ordine offre facile pretesto e fraudolenta legittimazione per imporre ai popoli la sottomissione totale. Di questo incubo, presente nella società contemporanea capitalistica e democratica, nel secolo scorso si è data una rappresentazione esemplare nelle analisi di Michel Foucault, con il modello biopolitico della società disciplinare, basata sul controllo massivo dei corpi. Ma in questo esordio di nuovo secolo, dinanzi ai profondi mutamenti indotti dall’economia globale e dalla politica neo-liberale, l’incombenza leviatanesca sembra trovare la sua rappresentazione più calzante nel modello psicopolitico del controllo delle menti. Così, secondo Byung-Chul Han, la cui dichiarata ispirazione filosofica è in Gilles Deleuze, la pratica invasiva dei big data, rendendo leggibili dal potere i nostri desideri, anche inconsapevoli, funziona come un pan-opticon digitale, assai efficiente nel selezionare gl’individui privi di valore economico e come «spazzatura» espellerli dal sistema. Gl’individui integrati invece hanno l’illusione di essere liberi: il potere non li controlla, soltanto perché li riduce a controllori di se stessi per suo conto: «il soggetto digitalizzato, interconnesso, è un panottico di se stesso» (Byung-Chul Han, Psicopolitica, trad. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma 2016, pp. 79 e 73).

[xxv] Jean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica [1960], trad. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 202.

[xxvi] Ivi, pp. 192-193

[xxvii] Ivi, p. 208.

[xxviii] Ivi, pp. 179-182.

[xxix] S. Freud, Il disagio della civiltà, cit., pp. 556, 560, 562.

[xxx] Jean-Jacques Rousseau, Rousseau jugé de Jean-Jacques. Dialogues [1771], intr. di M. Foucault, A. Colin, Paris 1962, p. 13. Cfr. anche trad. it. E. Melon Cantoni, in Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 1129.

[xxxi] Ivi, p. 133. Cfr. anche trad. it., p. 1198.

[xxxii] Su questo diffuso stato d’animo: Mariapaola Fimiani, L’etica oltre l’evento, Quodlibet, Macerata 2015, p. 147.

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