Proteggere il bello è patriottico [di Maria Antonietta Mongiu]

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La Collina – Fa’ che nessuno si perda– Rivista numero Ottobre Dicembre 2018- Dopo la tragedia del ventennio fascista e della guerra i/le Costituenti scrissero, con linguaggio fermo ma tutt’altro che  dogmatico, la Carta della nostra democrazia, inserendo, tra i principi fondamentali, l’art. 9 “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, di recente molto evocato forse per meglio occultarlo come fonte di ispirazione e riferimento normativo viste le disavventure di istruzione e paesaggio, anche in Sardegna.

Per questo mette conto interpellare decisori e opinione pubblica su come sia stato possibile, nell’Italia affamata del secondo dopoguerra, pensare a istruzione, ricerca, paesaggio come fulcri di riscatto e di progresso. Stravaganti, snob o radical chic o peggio talebani?

Niente di ascrivibile a questo trovarobato linguistico che la politica contemporanea usa per sminuire o delegittimare con etichette, variamente combinate, portatori di competenze o di interessi collettivi. Si potrebbe aggiungere di valori patriottici perché la difesa del paesaggio è gesto patriottico, conforme alla Costituzione scritta da persone assai lungimiranti.

Pensarono infatti che in un’Italia distrutta bisognasse avere il coraggio di auto-riconoscersi riconoscendo la cultura,  materiale ed immateriale, su cui Benedetto Croce nel 1922 e Giuseppe Bottai nel 1939 avevano legiferato.

Fu infatti il filosofo, da ministro, il primo a scrivere una legge di tutala del paesaggio. Memorabile la sua Relazione del 1920 che insiste sulla necessità di un “un argine alle devastazioni contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo» e  di «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze d’Italia, naturali e artistiche» per «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia” perché il paesaggio “altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari (…), formati e pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli”.

L’Italia assunse consapevolezza che il paesaggio, storico ed artistico, è il denominatore del paese “dove fioriscono i limoni” – come scrisse con un’insuperata definizione  Goethe nel 1795 – approdo di élites che lo elessero a luogo pedagogico per l’intreccio, irriducibile e irripetibile, di natura e cultura.

I/le Costituenti ebbero forse presente, visto l’alto profilo culturale e morale di chi redasse l’art. 9, la definizione di F. Dostoevski “la Bellezza salverà il mondo” che vorremo diventasse “l’Italia salverà la bellezza” e ancora di più “la Sardegna salverà la bellezza”.

Un’Italia analfabeta sposò l’art. 9 della Costituzione come pietra miliare della democrazia non barattando il paesaggio con un vantaggio momentaneo come sarebbe stato nei decenni successivi e perciò si rabbrividisce all’idea di cosa sarebbe stata l’Italia se il paesaggio non fosse stato tra i fondamenti della Costituzione.

E la Sardegna? Da stare peggio perché una rappresentazione da cartolina occulta l’altra metà della medaglia mentre l’ostentata retorica etnocentrica trasfigura i luoghi le cui classi dirigenti rivelano la loro strutturale debolezza proprio nel contraddittorio rapporto con ambiente, suolo, paesaggio, cultura, materiale ed immateriale.

E’ una lunga storia su cui regna la reticenza, per ovviare alla quale sono necessarie politiche e pratiche di pedagogia sociale e civile, grammatica e sintassi della democrazia. Una paidéia che non può che essere indipendente da erogatori di finanziamenti e sponsor, la cui dimensione e pervasività interpellano sulla funzione intellettuale agita oggi in Sardegna.

Ecco perché sono assai interessanti gruppi e comitati di attivisti, strutturati sul piano delle competenze e sul merito delle problematiche quanto distanti da tifoserie partitiche o paragovernative.

Queste reti, apparentemente informali, pongono domande decisive. I tassi dell’inquinamento in Sardegna sono davvero tra i più alti in Italia? Porto Torres, Sarroch, Ottana, Sulcis Iglesiente godono di tale primato? Se sì quali i progetti per bonifiche e ripristini? La malavita organizzata nelle “rinnovabili” è stata arginata? Perché non contrastare la perdita di sovranità dei privati sulle loro terre visto che l’iter autorizzativo sull’energia passa spesso sulla testa delle istituzioni autonomistiche? Davvero l’agricoltura è in ripresa o perdura il marketing con prodotti importati con la complicità talvolta delle organizzazioni? Perché predatori di terra e di energia trovano disponibilità ed intermediazioni pur essendo evidente l’intenzione di trasformare l’isola in un’eterogestita mega servitù?

Chi oggi difende terra e paesaggio, con indipendenza e libertà intellettuali, è il vero erede di chi lottò per ridare all’Italia la democrazia e di questa misurano il tasso ogni volta che si consumano suolo e ambiente, beni irriproducibili, trasgredendo quanto la Costituzione garantisce per il bene collettivo.

Messa così ogni politica sul governo del territorio  ha implicazioni che oltrepassano il calcolo dei metri cubi; presuppone persino uno sfondo etico che responsabilizza la contemporaneità per i secoli a venire, come insegna l’Enciclica “Laudato sii” in cui il Papa chiama alla presa di coscienza ciascuno e non solo i decisori politici.

Nella retorica dell’Autonomia speciale la domanda ineludibile riguarda cosa sia nelle politiche su terra, suolo, ambiente, paesaggio sulla costa o discosti; distinzione che crea gerarchie, graduatorie, disconoscimenti. Nella realtà il disvalore con cui molti territori sono percepiti li ha ridotti, alla prima pioggia, persino in luoghi pericolosi dove la situazione idrogeologica è ormai emergenza.

Assumersi la responsabilità, individuale e politica, di aver sacrificato interi territori significa ammettere che in Sardegna tardiva è stata l’autocoscienza dei luoghi, dei loro contenuti e valori, e dei misfatti consumati.

Non averli riconosciuti tuttavia non spiega l’assenza di una legge sul consumo di suolo e la sorprendente non estensione del PPR a tutta la Sardegna, il primo varato in Italia nel 2006 in  attuazione del “Codice dei beni culturali” del 2004, che recepiva la “Convenzione europea del paesaggio” del 2000. E’ un fantasma, avvolto da fraintendimenti, ignoto ai più e a molti dei decisori politici, nonostante si tratti della Costituzione.Traccia una traiettoria  fondata su conoscenza, sostenibilità,  riconoscimento dei luoghi come fondamento di pianificazione replicando la triade prospettata dall’articolo 9 della stessa.

La Sardegna si riconosceva il senso di una vicenda storica e ambientale e la varietà dei paesaggi conseguenti dal valore non negoziabile per “ alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia” per dirla con Croce.

Nella deriva delle rivendicazioni con lo Stato è incomprensibile come la politica sia protagonista della  rimozione di uno snodo epocale per l’isola: il paesaggio sardo diventa parte della Costituzione e smette di essere una cartolina o un fondale scenico da usare per qualche mese all’anno.

Ma parte della politica sarda sembra quasi preferire una terra con un gruppo umano, a rischio demografico e culturale perché quasi recluso nel recinto di carnevali, sagre, festival, sempre più da riserva come intravvide Fabrizio De André cantore di un’annunciata tragedia antropologica perché lo stigma eterodiretto era ormai auto-stigma.

La sospensione del “Disegno di legge sul governo del territorio” del 16 marzo 2017,  noto come Legge urbanistica, non assolve una legislatura nel segno della distanza dai contenuti del PPR, approvato da Pigliaru come  assessore e che, da candidato alla presidenza, promise di estendere  a tutta l’isola per non lasciarla digiuna degli strumenti di pianificazione economica e sociale dal basso.

Il suo orientamento fu chiaro quando le istituzioni autonomistiche tacquero col governo per il “Decreto Sblocca Italia” che aggirava il Codice dei beni culturali o quando il DGR 39/2 (10/10/2014) trasformò il Piano casa di Cappellacci, prorogato ormai al 2019, da eccezione a normale governo del territorio.

Su Pigliaru e la sua giunta penderà il sospetto di una scelta di campo su paesaggio e ambiente e ne sono evidenza delibere; disegni di legge; antistorico progetto di metanizzazione senza le necessarie e preventive valutazioni; comportamenti antagonisti e delegittimanti i rappresentati della tutela, obbligati ad applicare le leggi, o gli organismi tecnici dell’amministrazione regionale, che non possono ignorare che chi governa deve essere il garante delle regole specie di quelle che tutelano specificità delicatissime come le aree SIC o la rete Natura 2000.

La delegittimazione poi di associazioni e attivisti indipendenti , ben prima della Legge urbanistica, ha animato assai la cronaca. Mettere infine in concorrenza chi crede nella Costituzione, nello Statuto, nelle regole, col bisogno di lavoro fa rimpiangere il senso delle istituzioni e l’austerità anche verbale di padri e madri Costituenti.

One Comment

  1. nt

    Professoressa Mongiu, no dhi fatzo is cumplimentos (po custu e po àteru chi iscriet e chi lígio in Sardegnasoprattutto) comente no ndhe fatzo mai a mie etotu (chi seo meda prus pagu de Fostè) ca seus sèmpere – totus – asuta, a prus pagu, de su chi depeus e podeus fàere.
    Bògio aciúnghere solu calecunu cunsideru.
    Noso, totus, cunsideraus abberu pagu de su chi est e faet s’economia dominante chi connoscheus, una ECONOMIA DE GHERRA PO PRINCíPIU, MÉTIDU E ISCOPU e cun totu is ‘méngius’ prodotos de totu is gherras: ISFRUTAMENTU e DISTRUTZIONE de gente (o no funt isfrutamentu e distrutzione is mortos de fàmene, de disisperu e disocupaos?), distrutzione de cosas e de su logu faendho de totu su Pianeta unu muntonàrgiu bombardau.
    Cosa de talebbanos, de ISIStas, de assatanaos po su DINARE coment’e círculu vitziosu (e piticu su vítziu!…) de una economia chi no tenet s’iscopu de campare, de vívere cun dignidade umanamente e méngius, ma totu su chi depet fàere est a massimizare su profitu individuale a dónnia costu: su ‘capitale’ REALIZZA candho sa cosa (cussa eja, RES!) e fintzes sa gente dh’at fata a DINARE e su DINARE si no dhu faet a PRUS, MEDA PRUS DINARE, est sa fine/morte sua!
    Est su DINARE sa ‘pàtria’ de is meres de custa economia assurda, disumana, infame, assatanada faendho unu isvilupu chi no est progressu.
    E in custu, che a su “Dragu” distruidore de s’Apocalisse, che est tragandho totu e a totus!
    Sa Costitutzione italiana giai est bella (is Costituentes portànt ananti de is ogos e incarnadas puru totu is infamias de su nazifascismu), cunsideru a parte chi in cussa bella costitutzione est iscrita sa dipendhéntzia infame de is Sardos e de sa Sardigna, po su prexu de is pistadores de abba inghiriagrastos chi funt ‘pulíticos sardos’ po torracontu personale aintru de totu is gàbbias de colore verdebiancorosso.
    Ma ojamomia si pentzaus a is ‘rimédios’!!! No solu a s’infame bombardamentu de is duas citades giaponesas (duas ca no bastaiat una!!!), ma de bombas atómicas custa economia e atores assurdos assatanados ISISTas po su dinare ndhe ant fatu iscopiare prus de duamila, solu “per prova”, e no foedheus de cantas ndhe ant fabbricau e chistiu prontas “all’uso” (e po no nàrrere de àteros ‘gioghitedhos’) furandho fintzes a is mortos de fàmene su necessàriu po sa vida e fintzes su sàmbene a is anémicos.
    E noso, democràticos e ‘orrúbios’ o fascistas niedhos o in colore de canes fuindho prexaos puru ca faendho custu disacatu “dànno lavoro”!
    Is partios, is ‘políticos’ e guvernos de dónnia colore e bisura si prenent sa buca de ‘disoccupazione’ e de ‘occupazione’ ma funt totus cun ambaduos peis incracaos in s’aceleradore de un’economia assurda e delincuente (si salvi chi può, ca in su círculu vitziosu de custa economia no creo, e giai s’ischit, chi is ‘atores’ siant totus prexaos de custu ‘giogu’!!! In is gherras bochint e si bochint is generales puru).
    Ma noso seus abberu tropu pagu impegnaos a pentzare una economia prus pagu disumana, comente iat a tocare a fàere po no nosi istichire asuta de is peis de is ‘elefantes’ chi nos’istrecant, totus ISIStizaos a dhis andhare aifatu, cun sa gioventude totu in aviamentu a sa disocupatzione, cun su postu assegurau a fàere nudha o is machines de su no tènnere nudha it’e fàere cantu prus unu tenet it’e fàere.
    E si pentzaus a sa realtade de is Sardos e de sa Sardigna, de unu latu benit de ndhe caciare fintzes is ogos de cantu faent a gana lègia is ‘politicos’ chi ‘contano’ ingabbiaos in totu is gàbbias verdebiancorosso; ma si pentzo a is possibbilidades de nos’iscabbúllere e cambiare tèngio fintzes isperàntzia bona e a dónnia modu teneus totu e totus sa responsabbilidade de sa libbertade nosta, si ndh’esseus assumancus cun sa conca de una gàbbia infame.

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