L’Etnocrazia fa fortuna con la paura [di Nicolò Migheli]

trump

La Nuova Sardegna, 9 novembre 2018. Il vento che superficialmente chiamiamo populismo non smette di spirare per il mondo. Buon ultimo Jair Bolsonaro diventato presidente del Brasile.

Anche quest’ultimo si ispira a quello che Umberto Eco definì Ur fascismus, il fascismo perenne che si incarna in maniera proteiforme nei popoli a seconda del periodo storico; ben diverso da quello degli anni ’30, espansionista. Questo tenta di rinchiudersi nei confini nazionali. Per ora.

Il fascismo come retroterra culturale, razzista, xenofobo e suprematista, omofobo, misogino. La religione come ideologia politica, ossessione per l’ordine e la sicurezza. Si è passati dalla liberté, égalité, fraternité dell’illuminismo, a liberismo economico variamente declinato, discriminazione, comunitarismo. Fu Friedrich von Hayek, uno dei padri della scuola di Chicago, a dire che la democrazia non era necessaria per la libertà dell’economia.

Il Cile di Pinocet come esempio. L’Europa  di Visegrád più Austria e Italia, la Turchia di Erdogan, le Filippine di Duterte, l’India di Modi, il Pakistan di Khan -si potrebbe continuare- paesi in cui è in atto o si sta tentando la costruzione di una etnocrazia, il dominio di un gruppo nazionale sugli altri con gradi diversi di autoritarismo. La democrazia ridotta allo scheletrino delle consultazioni elettorali variamente manipolabili. L’avvento di Trump negli Usa è stato l’elemento scatenante. L’inconcepibile.

La colonna di migliaia di migranti centroamericani che si avvicinano alle frontiere statunitensi è stato un regalo ai repubblicani per il midterm; Trump l’ha usata come colpo contundente. Jean-Louis Harouel, un pensatore conservatore francese, riporta la differenza radicale tra destra e sinistra ai fondamenti del cristianesimo. La sinistra figlia del millenarismo, del regno di Dio in questo mondo dove si realizza l’uguaglianza e la felicità. Mentre la destra discende dal pensiero gnostico.

La felicità e la fortuna sono di chi saprà conquistarsele, non esiste una via sociale per la liberazione, solo l’individuo ne è degno perché sua è la responsabilità del successo. Nella costruzione etnocratica vi è in più la richiesta dell’appartenenza al gruppo dominante, con cui si condividono lingua e tradizioni, colore della pelle, una storia comune. La discriminazione come condizione di salvezza.

L’etnococrazia inventandosi un nemico, riesce a compattare e raccogliere le istanza popolari agitando paure continue perché non è solo – benchè importante- il disagio economico, la retrocessione dei ceti medi, la causa. Questo non spiegherebbe il successo dell’estrema destra in paesi ricchi come la Germania, la Svezia o l’Olanda. C’è qualcosa di più che scava nell’insicurezza strutturale di questa contemporaneità, nella folla solitaria, nelle relazioni lasche, nella caduta dei solidarismi familiari.

È un ritorno al passato che si immagina rassicurante e felice. Ogni tempo però ha avuto i suoi drammi e il nostro non ne ha di meno di quello dei nostri avi. Una deriva che sta investendo anche la Chiesa Cattolica dove l’ultraconservatore cardinale Burke, con il sostegno del teorico americano della nuova destra Steve Bannon, ha promosso una guerra senza quartiere contro il Pontefice; tanto che il cardinale Angelo Becciu ha pronunciato la parola scisma in una sua omelia a Ozieri.

È vero che queste considerazioni sono eurocentriche. Però l’Occidente negli ultimi secoli ha influenzato anche i paesi con altre tradizioni culturali, per cui sono estendibili anche a loro. L’etnocrazia dando risposte semplici tenta di esorcizzare un mondo sempre più complesso, interdipendente. Il futuro che ci attende non sarà facile, lo dice la demografia.

Nel 2050 la Terra sarà popolata da 9,5 miliardi di persone. Mutamenti climatici, scarsezza delle risorse, svuotamento delle istituzioni transnazionali, migrazioni bibliche, porteranno all’amplificarsi delle guerre già in atto e impossibili da vincere. I nazionalismi estremi sono la soluzione peggiore, aggraveranno il problema. Per ora non si intravvede alternativa. Per ora.

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