La speranza di Luna e Caterina [di Maria Antonietta Mongiu]

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L’Unione Sarda 15 gennaio 2019. La città in pillole. “Voglio dare un’immagine di Dublino talmente completa ed esatta, che se la città dovesse improvvisamente scomparire dalla faccia della terra, potrebbe essere ricostruita esattamente uguale grazie al mio libro” , così James Joyce presentando l’ Ulysses come carta d’identità della città da cui fuggì nel 1904.

Come per tanti, ogni altrove sarebbe stato meglio del borgo natio che si trasformò, anche per lui, in insistita ossessione. La frase illumina sul fatto che occuparsi della città è roba complessa e, se la si vuole descrivere, qualche precauzione joyciana è d’obbligo.

Come nell’ars rethorica la premessa è l’inventio:  reperire/ritrovare idee e argomenti per dirne. Lo scavo nella frase/mantra  di Joyce, nei giorni dell’anniversario della morte (13 gennaio 1941), indirizza all’ossessione del dettaglio nella ricostruzione dei luoghi e alla precisione delle parole usate nel reinventare geografie.

Se Dublino della sua biografia andava scomparendo la geografia di Dublino, da quella materica alla immaterialità di fiumi, vento gelido, mutevole cielo, e odori così diversi dai nostri, andava a coincidere, sorprendentemente, con quella dei suoi personaggi. L’imago urbis dal 1904 è infatti diventata carta d’identità delle narrazioni joyciane e sempre più luogo dell’immaginario. Talmente potente da condizionare la narrativa del Novecento e diventare, per li rami, immaginario di massa.

Per stare a noi, potremo prospettare l’odissea  di Don Sebastiano e di Donna Vincenza Sanna Carboni e dei loro comprimari, immersi nella “demoniaca tristezza” di  quel ”nido di corvi”, narrata  da Salvatore Satta nel Giorno del giudizio, senza Joyce?

L’epica con lui smise di abitare il mare e le terre incognite dell’originale omerico per farsi materia urbana, dove ogni tessera è strumento per portare allo stato di coscienza un indicibile sottosuolo occultato. Dalle invisibili alle numinose, mille tessere formano e spiegano la città in cui nessuno può essere escluso.

Is Mirrionis allora non è solo l’insieme di stratificazioni archeologiche e architettoniche di Tuvu Mannu, di Monte Claro, di San Michele o la dignità, oggi disattesa, della città-giardino del secondo dopoguerra ma è il fitto dialogo pieno di speranza e di futuro di Luna e di Caterina che attraversano la città, immortalate da Sergio Atzeni in Bellas mariposas.

Abbiamo ancora la stessa speranza di città non dimidiata che troppe volte è stata disattesa.

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