La rinascita di Matera, una marcia durata sessant’anni [di Edek Osser]

vista-d-insieme

Il Giornale dell’arte edizione online, 18 gennaio 2019. Raffaello De Ruggeri: «La cultura rende inevitabile ciò che è improbabile».

Raffaello De Ruggeri, sindaco di Matera, ripercorre la storia degli ultimi sei decenni del centro lucano, che da «infamia della nazione» è diventata Capitale Europea della Cultura per il 2019. De Ruggieri è stato animatore e protagonista attivo di questo successo. Il ruolo di Capitale Europea della Cultura non ha soltanto un grande significato simbolico: ci saranno importanti riflessi economici su tutto il territorio.

«È il risultato straordinario e impensabile di una marcia durata sessant’anni che può essere riassunta in un concetto che mi ha colpito di recente: la cultura rende inevitabile ciò che è altamente improbabile. Tanti anni fa, racconta De Ruggieri, di Matera e del suo territorio anch’io, come quasi tutti, avevo un’idea negativa: pensavo di vivere in un luogo triste, miserabile, senza speranza, da abbandonare. Nell’ottobre del 1956, a Roma, andai a una conferenza sulla Basilicata tenuta da un geografo, Giuseppe Isnardi. Per la prima volta ne sentii parlare bene. Lì ho incontrato Umberto Zanotti Bianco, archeologo, ambientalista, tra i fondatori di Italia Nostra. Fu lui a farmi riflettere: “Prima di parlar male della tua terra, mi disse, devi conoscerla e devi stabilire se è una terra matrigna o materna. Se è materna hai il dovere di fermarti e lavorare per lei”».

A quell’epoca lei era ancora studente?
Sì, mio padre mi aveva mandato a studiare giurisprudenza a Roma perché mi voleva lontano dalle distrazioni provinciali di Matera che potevano ostacolare lo studio.

Era già iniziata la campagna contro i Sassi di Matera, il centro antico?
Il primo aprile del 1948 in un comizio epocale sulla piazza di Matera, Palmiro Togliatti aveva lanciato la «maledizione» definendo i Sassi «infamia della nazione». Ancora più duro De Gasperi: nel 1950, dopo una visita a Matera, disse che quella vergogna andava cancellata. E fu deciso l’esodo: i 16mila abitanti dei Sassi impacchettati e trasferiti perché «vivevano nell’inferno». Quell’inferno andava abbandonato: visto da sinistra, era il luogo fisico della subalternità sociale, della oppressione di classe; visto dalla Democrazia Cristiana, era la sofferenza di un popolo avvilito dalla miseria e che veniva riscattato dalla carità politica del Governo. Veniva dato loro un lavoro, ma consisteva nel costruirsi una casa. Un trucco diabolico che consentiva di definire i Sassi la «cattiva coscienza» del popolo, il modello da cancellare.

Quindi nel 1956, quando lei studiava a Roma, questo era già avvenuto.
Certo, e quelle idee erano ormai nelle vene dei materani. È stato allora che ho conosciuto personaggi che la pensavano diversamente: Francesco Compagna, Michele Cifarelli, Ugo La Malfa, Pasquale Saraceno, personaggi del mondo meridionale, ma anche Adriano Olivetti. Matera era diventata crogiolo degli intellettuali interessati al futuro del Mezzogiorno. Ho capito allora il privilegio di vivere a Matera. Nel 1959 fondammo, con mio fratello Michele, il circolo «La Scaletta» per rispondere alla domanda: chi siamo, figli della miseria o della storia, come ci diceva Carlo Levi? Cominciammo a esplorare il territorio, a recuperare i suoi valori identitari. Abbiamo scoperto così l’ignorato complesso degli insediamenti rupestri del materano.

È stato negli anni Sessanta che avete trovato alcuni dei tesori d’arte che circondano Matera?
Siamo stati fortunati, perché abbiamo scoperto cose straordinarie come la Cripta del Peccato Originale, una chiesa rupestre, trasformata in ovile, con 41 mq di affreschi longobardi dipinti 500 anni prima di Giotto. Abbiamo anche vissuto con rabbia la sparizione di altri affreschi, rubati da alcuni studiosi tedeschi che abbiamo denunciato. In 50 giorni l’Interpol li recuperò in Germania.

Quindi lei, che «nel tempo libero» faceva già l’avvocato, aveva organizzato un gruppo in difesa del territorio e della sua storia.
Sì, ma i Sassi erano ormai abbandonati: 30 ettari, tutto il centro antico, diventati zona dissacrata e infetta. E la gente voleva dimenticare di aver vissuto in grotte di tufo simbolo di uno stigma sociale.

Com’è stato possibile superare questa fase così negativa?
È iniziato un lungo periodo dedicato alla diffusione di valori che la comunità doveva a poco a poco condividere. Spiegavamo a tutti che Matera era una delle rare città al mondo abitata ininterrottamente da oltre 9mila anni. Non poteva essere cancellata.

Quando è avvenuto il cambiamento che ha portato alla svolta?
Era il 1968. Decidemmo di entrare in politica «per far votare i Sassi e le chiese rupestri». In quegli anni «La Scaletta» ha fatto eleggere due sindaci, assessori comunali e provinciali di tutti i partiti. Nel 1969 comprai per primo una casa nei Sassi abbandonati e ci andai a vivere con mia moglie tra lo stupore dei materani. Volevo affermare l’idea, dare una testimonianza.

Ma sono passati ancora molti anni prima che i Sassi venissero recuperati.
Nel 1977 una commissione internazionale avrebbe dovuto affidare il piano urbanistico di quella città abbandonata. Nessuno vinse il concorso. Fu deciso che il destino dei Sassi non poteva essere affidato a uno studio privato: spettava al Comune. Il 30 ottobre dell’81 il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini inaugurò il primo cantiere di recupero nei Sassi. Nell’86 la vera svolta: una legge dichiarò che i Sassi erano un patrimonio «di interesse nazionale» e finanziò con 100 miliardi di lire un programma per il loro restauro urbanistico e ambientale. Lanciammo un altro messaggio: bisognava rendere abitabili i Sassi per ridare vita ai rioni con le loro funzioni.

Quali sono stati i passi successivi?
Una volta partito il piano di recupero, abbiamo lasciato l’attività istituzionale. Ma il nuovo corso stava mercificando i Sassi risanati. Si imitavano altri luoghi turistici: ristoranti, bed&breakfast, bar, alberghi; stavano prevalendo gli egoismi personali. I Sassi perdevano così la loro capacità di ispirare emozioni e ispirazione. Questo è un luogo di produzione creativa naturale. Dovevamo creare nei Sassi le funzioni adatte per dare alla città il suo ruolo culturale evitando la commercializzazione. Nel 1998 ho creato la Fondazione Zètema. Programma basato sul detto contadino: «Chi impara senza operare, vuol raccogliere senza seminare». Con la Fondazione ho provocato uno scandalo meridionale: abbiamo attuato interventi di conservazione, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale senza essere alimentati dai fondi pubblici delle istituzioni locali.

Da dove è arrivato il denaro?
Ho sempre pensato che nel Mezzogiorno ci sono più soldi che progetti. Così noi abbiamo presentato progetti «esemplari» a finanziatori esterni alla regione. Abbiamo puntato su due temi: le testimonianze della civiltà rupestre come segno distintivo e la perennità della vicenda umana sul territorio. Come terminale dell’oggi abbiamo creato il Museo della Scultura Contemporanea, il Musma, unico al mondo in grotta, che espone opere donate, anche da grandi artisti. I finanziamenti più importanti sono venuti dall’8 per mille della Presidenza del Consiglio, da fondazioni bancarie, dal progetto Sviluppo Sud e di recente da Banca Prossima di Intesa Sanpaolo. Abbiamo restaurato e aperto la Cripta del Peccato Originale, altre chiese rupestri, il sito preistorico di Filiano. A settembre 2014 è stata inaugurata la «casa di Ortega»: un artista spagnolo che nel 1990 ha lasciato a Zètema la sua casa materana. Nel palazzo accanto creeremo una simbiosi tra botteghe artigiane e residenze di artisti, perché l’arte torni a vivere nei luoghi dei mestieri. L’idea di Matera Capitale della Cultura è partita nel 2007 con un’associazione di giovani, «Matera 2019». Poi si è creata un’unione con il Comune che ha coinvolto la Regione. Slogan del progetto: la cultura è l’elemento che permette all’uomo di progettare il futuro verso i traguardi del bene comune.

Ma perché, secondo lei, la Commissione Europea ha scelto Matera?

Abbiamo dichiarato che il punto cruciale della nostra proposta non era fondato sul patrimonio materiale, ma sul cittadino da trasformare in abitante culturale. E siamo riusciti a convincerli. Quando siamo andati da loro, i commissari hanno visto, in diretta da Matera, la gente impegnata in uno «spettacolo» creativo e ironico sui «lavori culturali». C’erano perfino finti medici che misuravano la «febbre culturale» ai cittadini. Li abbiamo incontrati qui da noi soltanto il 7 ottobre scorso.

Come ha vissuto l’annuncio che Matera ce l’aveva fatta?

A migliaia eravamo in piazza ad aspettare, in angoscia. La tensione si è poi risolta in un pianto collettivo. Una comunità sottomessa, miserabile, cafona, indifesa, umiliata, che dopo questo lunghissimo percorso è tornata ad avere l’orgoglio dell’appartenenza. Davanti c’è il periodo più delicato e stimolante: dobbiamo governare la vittoria. Un amico, don Tonino Bello, mi diceva: «Solo chi spera e chi sogna cammina». Io continuerò a sognare e a camminare.


*
L’intervista con Raffaello De Ruggeri è stata pubblicata nel numero 165 di «Vernissage» di dicembre 2014, allegato al numero 384 de «Il Giornale dell’Arte»

Lascia un commento