Helen Frankenthaler e la New York School [di Roberto Salvadori]

Helen_Frankenthaler-1956

repubblica.it/micromega-online/helen-frankenthaler-e-la-new-york-school/11 luglio 2019. La folgorazione di fronte alle opere di Jackson Pollock. Il capolavoro “Mountains and Sea”. I rapporti con il mondo artistico d’avanguardia della New York School. Il successo internazionale negli anni ’60. La sperimentazione incessante. Ripercorriamo la carriera della grande pittrice americana Helen Frankenthaler, una delle avventure più emozionanti dell’arte del XX secolo.

Cerco di immaginarmela questa bella ragazza bruna, dallo sguardo luminoso, ricca fin dall’infanzia di talento artistico. Cresciuta nella parte “chic” di Manhattan (l’Upper East Side) in un’agiata e colta famiglia di origine ebraica, nel 1950 a ventidue anni Helen Frankenthaler inizia a muoversi nel mondo artistico che la circonda, quello costruito nel corso degli anni Quaranta da una comunità di pittori, musicisti, scrittori d’avanguardia che verrà etichettata New York School.

Il 1950 è davvero un anno chiave per Helen. Appena finiti gli studi – prima alla Dalton School di Manhattan col messicano Rufino Tamayo (espatriato perché in rotta con i muralisti di estrema sinistra del suo paese) e poi in un esclusivo istituto femminile del Vermont, il Bennington College, con l’astrattista Paul Feeley che ne dirigeva il dipartimento artistico – conosce il più influente critico d’arte dell’epoca, Clement Greenberg, con il quale intreccia un’intensa relazione sentimentale destinata a durare per cinque anni.

Il quarantunenne Greenberg aveva tutte le qualità per attrarre la ragazza Helen, la cui adolescenza era stata traumatizzata dalla morte prematura del padre, giudice della Corte suprema dello Stato di New York, quando lei aveva solo undici anni. Oltre a essere un convinto fautore dell’abstract expressionism e una personalità di punta della scena newyorkese, era anche un personaggio affascinante. Nato nel Bronx in una famiglia della media borghesia ebraica, era editor della “Partisan Review”, una delle più famose riviste politico-letterarie, e critico d’arte del settimanale progressista “The Nation”.

Poteva inoltre vantare una vasta cultura umanistica, stava raccogliendo una ricca collezione d’arte contemporanea ed era poliglotta – padroneggiava yiddish e francese, inglese e italiano, latino e tedesco. Nessuno meglio di lui poteva introdurre, guidare, orientare Helen nell’ambiente artistico-culturale di New York.

Fu appunto Greenberg, nell’estate del 1950, a suggerirle di perfezionarsi nella scuola di Hans Hofmann, che dal 1932 era stato maestro di numerosi esponenti dell’avanguardia americana. Prima di Helen anche altre artiste della New York School avevano frequentato i corsi dell’insegnante tedesco: Linda Lindeberg e Lee Krasner nella seconda metà degli anni Trenta, Jane Freilicher e Joan Mitchell nella seconda metà degli anni Quaranta. Per Helen fu importante l’impatto con le opere astratte di Hofmann precorritrici del tachisme: l’allieva avrebbe fatto tesoro delle sue macchie (stains) di colore quando di lì a un anno elaborerà la sua originale tecnica soak-stain.

Insieme a Greenberg, nell’autunno del 1950, visita la personale di Jackson Pollock allestita nella galleria che Betty Parsons aveva aperto fin dal 1946 in 15 East 57th Street, una delle più eleganti arterie di Midtown Manhattan. Era la prima volta che Pollock esponeva in quella sede poiché Peggy Guggenheim, decisa a trasferirsi a Venezia, nel 1947 aveva chiuso la galleria Art of This Century (ubicata in 30 West 57th Street) che fin dal 1943 aveva ospitato le precedenti personali dell’artista. Helen rimase folgorata da quel che vide. “Lì c’era tutto. Volevo viverci in quella terra. Dovevo proprio viverci, e padroneggiarne il linguaggio”.

La mostra esibiva opere sconvolgenti. Drip paintings realizzati soprattutto quell’anno, in uno dei momenti più creativi dell’artista: capolavori come Autumn Rhythm, Number 30, 1950, Number One, 1950, Number 27, 1950, Number 21, 1950. Pollock era all’apice della carriera. Ormai da tre anni ricorreva alla tecnica del dripping sgocciolando i colori sulle tele: “Non dipingo sul cavalletto. Preferisco fissare le tele sul muro o sul pavimento. Sul pavimento mi trovo più a mio agio. Mi sento più vicino al dipinto, quasi come fossi parte di lui, perché in questo modo posso camminarci intorno, lavorarci da tutti e quattro i lati ed essere letteralmente dentro al dipinto”.

Sempre nel 1950 Helen aveva assistito a un episodio di contestazione collettiva che aveva scosso l’ambiente artistico e l’opinione pubblica di New York. Per la prima volta un compatto gruppo di artisti d’avanguardia aveva imposto la propria presenza polemica. In ventotto avevano firmato una lettera di protesta indirizzata al presidente del Metropolitan Museum Roland Redmond, accusato di avere escluso gli espressionisti astratti dalla grande mostra della pittura americana contemporanea che stava allestendo.

La lettera aperta fu pubblicata il 23 maggio dal “New York Times” e il giorno dopo un editoriale della “Herald Tribune” attaccò i firmatari – erano diciotto pittori e dieci scultori – definendoli irascibles. L’agitazione degli “irascibili” durò sei mesi e sul numero di “Life” del 15 gennaio 1951 quindici di loro vennero immortalati, in un celebre scatto della fotografa di moda Nina Leen, vestiti da banchieri. Il messaggio era chiaro: la serietà non è di casa solo fra chi indossa giacca e cravatta, ma anche fra tele e barattoli di vernice.

Nella fotografia si riconoscono artisti del calibro di Rothko, Pollock, Still, Motherwell, de Kooning, Gottlieb, Reinhardt, Baziotes. C’è un’unica donna fra tanti maschi: una talentuosa pittrice surrealista, l’ebrea romena Hedda Sterne approdata a New York nel 1941 e moglie di Saul Steinberg dal 1944, In tarda età si sarebbe rammaricata: “Sono più nota per quella dannata foto che per 80 anni di lavoro”.

In questo clima incandescente il 1951 è anche l’anno dell’esordio di Helen Frankenthaler. In due distinte occasioni: una mostra collettiva in primavera, una esposizione personale in autunno. Dal 21 maggio al 10 giugno partecipa, insieme a una novantina di artisti della New York School, al Ninth Street Show allestito in un vasto spazio destinato alla demolizione dal gallerista-mercante d’arte triestino Leo Castelli.

Rifugiatosi da Parigi a New York nel 1941 per sfuggire alle persecuzioni razziali, Krausz (questo il suo vero cognome) aveva aperto la galleria al 420 di West Broadway dedicandosi agli espressionisti astratti. Il Ninth Street Show era la risposta degli “irascibili” all’esclusione dal Metropolitan Museum (“lo consideravamo un po’ come il primo Salon des Indipendents”, ricorda il gallerista).

L’evento ebbe un grande successo di pubblico e di critica. Era la prima volta che entrava in scena nel dopoguerra con tutte le sue sfumature e le sue personalità l’avanguardia newyorkese. Il manifesto e il catalogo li aveva ideati Franz Kline. La ventitreenne Helen esponeva accanto a Clement Greenberg, Elaine e Willem de Kooning, Joan Mitchell, Lee Krasner e Jackson Pollock, Robert Motherwell, Hans Hofmann, Ad Reinhardt, Robert Rauschenberg, per citare solo alcuni dei più prestigiosi.

Dopo questa esperienza collettiva Frankenthaler ebbe in autunno la sua prima personale nella galleria che il quarantaduenne Tibor de Nagy, editore e mercante d’arte di origine ungherese, aveva inaugurato nell’inverno di quell’anno in East 53rd Street come luogo d’incontro fra scrittori e artisti della seconda generazione di abstract expressionism. “La galleria – avrebbe ricordato Helen – era vivace e inventiva, offriva delle opportunità. Vi era un forte senso di cameratismo e di energia, di sperimentazione”.

Nello stesso momento in cui Helen Frankenthaler entra così a far parte del mondo artistico newyorkese e si avventura a percorrere vie inesplorate un’ansia di sperimentazione pervade altri ambiti creativi, differenti territori espressivi. New York School non è soltanto pittura e scultura, ma anche jazz, letteratura, musica – e soprattutto intreccio di suggestioni fra i diversi ambiti.

Mondi d’avanguardia che s’incrociano in caffè, atelier, club, gallerie situati in una zona di Lower Manhattan delimitata in orizzontale da First e Sixth Avenues e in verticale da 8th e 12th Streets. In questa parte del Greenwich Village si concentrano punti di ritrovo come la Cedar Tavern frequentata tanto dai pittori dell’espressionismo astratto quanto dagli scrittori della beat generation Ginsberg, Burroughs, Kerouac, Corso.

Un ruolo cruciale nello sviluppo dell’espressionismo astratto lo svolge l’Eighth Street Club inaugurato nell’estate del 1949 in un loft dell’omonima via. Fungeva da luogo di aggregazione collettiva dei tanti artisti che avevano, come Motherwell, il proprio studio in quei paraggi. Nelle loro riunioni e conversazioni i pittori non si limitavano a parlare di pittura, ma discutevano anche di argomenti come la spiritualità zen o la filosofia esistenzialista o la psicologia gestaltica.

Negli anni Quaranta New York è una metropoli magnetica. Attira a sé artisti, scrittori, intellettuali provenienti da ogni parte degli Stati Uniti e da ogni nazione d’Europa. Là approda chi desidera lasciarsi alle spalle l’angusto provincialismo dell’America profonda e chi è in disperata fuga da guerra e persecuzione. Tutti desiderosi di costruire nuovi mondi nella capitale culturale del Nuovo Mondo. Nel 1940 da Lowell ci arriva Jack Kerouac che definiva se stesso uno “scrittore jazz” e il cui metodo di scrittura era una “prosa spontanea”.

Nel 1941 dalla Francia ci ritorna Peggy Guggenheim in compagnia del surrealista Max Ernst aprendo la galleria che per prima lanciò Pollock. Nel 1947 da Kansas City ci arriva Charlie Parker che una notte, improvvisando su Cherokee, inventa Ko Ko, primo brano in stile bebop.

A New York era giunto da Los Angeles anche John Cage, compagno di Rauschenberg, che nel 1951 dette vita all’innovativo Music of Changes: influenzato da buddismo zen e I Ching cinese, teorizzava che il compositore, invece di creare musica con logiche intenzionali, ha da essere un “liberatore del suono” con tecniche aleatorie e casuali. Nel 1951 da Ann Arbor ci arriva Frank O’Hara, la cui concezione della poesia come cronaca dell’atto che la produce era suggestionata non solo da Rimbaud e Verlaine, ma anche dal modus operandi di Kline, Pollock, de Kooning.

Risulta chiara insomma la consonanza fra dripping di Pollock (che privilegia l’automatismo della mano rispetto alla vigilanza dell’occhio, l’indipendenza del dipinto rispetto all’intenzionalità del pittore), improvvisazione del bebop di Parker, scrittura spontanea di Kerouac, aleatorietà di Cage. C’è anche qualcos’altro, però, che accomuna questi geni. La loro sregolatezza. Non va dimenticato che gli “irascibili” erano dei ribelli.

Che la loro era una controcultura. Che praticavano forme di vita alternative. Che l’esplorazione dell’inconscio passava per molti di loro non soltanto attraverso il linguaggio dei sogni, la pratica dei gesti incontrollati, l’affidarsi all’indeterminatezza e all’automatismo, il ricorso a tecniche aleatorie, ma anche attraverso i paradisi artificiali della droga e dell’alcol.

Per farsene un’idea basta leggere The Town and the City di Kerouac, apparso nel 1950 ma iniziato nel 1945, o ricordare la lunga dipendenza dall’alcolismo di Elaine e Willem de Kooning, oppure rifarsi alla testimonianza che di Pollock ci ha lasciato Peggy: “Era un uomo contraddittorio. Così timido e difficile da presentare alla gente e nervoso. Arrivava sempre sbronzo e per questo non avrebbe potuto farcela da solo”.

Una notte d’agosto del 1956 a soli quarantaquattro anni l’artista si sarebbe schiantato ubriaco al volante della sua auto, proprio come era accaduto un anno prima a un altro ribelle, l’attore James Dean, morto a ventiquattro anni sulla sua Porsche in un incidente stradale.

È in questo contesto complessivo che nel 1952, a ventiquattro anni, Helen Frankenthaler crea Mountains and Sea. Un’opera che fece epoca e aprì nuove strade. Un capolavoro. La sua rilevanza storica è presto detta: con una tecnica inedita Helen faceva virare l’abstract expressionism verso i nuovi orizzonti del color field painting di seconda generazione (teorizzato da Clement Greenberg nel 1955) e, in prospettiva, della lyrical abstraction (teorizzata da Larry Aldrich nel 1969). Con Mountains and Sea l’arte americana si inoltrava in direzione degli anni Sessanta.

Ci fu chi lo capì subito al volo. Quando Greenberg invitò Morris Louis e Kenneth Noland a venire da Washington per vedere la tela nello studio di Helen, Louis intuì che era “un ponte fra Pollock e quel che era possibile”. Frankenthaler aveva aperto il varco che dalla concitata pulsione emotiva e gestuale dell’action painting conduceva al più pacato e sereno linguaggio dei campi di colore fino allo stile spontaneo, sensuale, romantico che avrebbe caratterizzato gli astrattisti lirici.

Attualmente esposta nella National Gallery di Washington, l’opera fu realizzata da Helen al ritorno da una vacanza a Cape Breton nella parte settentrionale della penisola canadese della Nuova Scozia, laddove i rilievi montuosi effettivamente costeggiano le acque dell’Oceano atlantico.

E’ un dipinto di monumentali dimensioni (2,97 x 2,19 metri) realizzato mediante la pionieristica tecnica della soak-stain (imbibizione a macchia), inzuppando dall’alto il tessuto di una tela non tesa e senza imprimitura distesa per terra con colori a olio diluiti nella trementina o nel cherosene per ottenere effetti fluttuanti e aloni paragonabili a quelli dell’acquerello. Le macchie di colore venivano poi manipolate dall’artista mediante rulli o spazzole, sì da contemperare controllo e spontaneità.

Pur non essendo un’esplicita rappresentazione di paesaggi marini e montani della Nuova Scozia, l’opera vi allude – o, meglio, ne evoca la risonanza – con strisciate di blu che intersecano zone di verde. A differenza di Jackson Pollock, la flatness (la piattezza bidimensionale dei dipinti enfatizzata da Greenberg) viene declinata da Helen Frankenthaler privilegiando la fluidità rispetto all’energia del movimento, puntando su luminosità e vivacità dei campi di colore, focalizzandosi sul rapporto fra spazio e colore, lasciando affiorare la memoria degli astrattisti da lei amati: Kandinskij, Mirò, Gorky, de Kooning.

Subito dopo Mountains and Sea e nei tre anni successivi Helen continua a percorrere la strada da lei stessa inaugurata. Uguale tecnica, analogo stile in opere come Window Shade No. 2 ,1952, che ripropone su scala ridotta aggrovigliate volute di colore colato alla Pollock, o 10/29/52 ,1952, che esplicitamente allude al paesaggio (mai però l’artista si era chiesta se un “quadro è un paesaggio, se è pastorale, o se qualcuno ci vedrà un tramonto. Mi chiedo soltanto se ho fatto un bel quadro”).

Nel vasto Open Wall ,1953, una figura orizzontale celeste-blu su sfondo azzurro tiene congiunte due ampie aree longitudinali e linee di colore. Fino alla metà degli anni Cinquanta le sue tele appaiono densamente dipinte. Solo dopo il 1956 le opere di Helen riacquistano l’ariosità degli inizi. Eden ,1956, Round Trip ,1957, o Nude ,1958, esibiscono estese porzioni di tela non dipinte che conferiscono uguale peso pittorico agli spazi pieni e a quelli vuoti (pratica adottata anche da Louis e Noland).

La metà degli anni Cinquanta segna una repentina svolta nella vita della New York School e in quella di Frankenthaler. Con l’improvvisa morte violenta di Pollock il mondo artistico newyorkese restò orfano nel 1956 del suo maggiore protagonista. Quanto a Helen, nel 1957 grazie a Greenberg entrò in contatto col secondo uomo importante della sua vita – privata e artistica: Robert Motherwell. Amore travolgente. L’anno dopo erano già sposati. Matrimonio destinato a durare tredici anni.

Nel loro ambiente erano soprannominati golden couple in riferimento all’agiatezza delle loro famiglie. Helen aveva dunque scelto un altro uomo più anziano di lei (di diciannove anni Greenberg, di tredici Motherwell) e un’altra personalità di eccezionale rilievo culturale. Solo le grandi donne sanno accompagnarsi con uomini alla loro altezza. Motherwell era non soltanto uno dei più importanti pittori della sua generazione – certamente quello più influenzato dal surrealismo -, ma anche un intellettuale di vasta cultura.

Figlio di un banchiere, Motherwell era nato a Aberdeen (Washington) nel 1915. L’infanzia l’aveva trascorsa in California. Aveva fatto il classico Grand Tour in Europa a vent’anni – con tappa nella scozzese Motherwell. Aveva poi frequentato le migliori università: Stanford, Harvard, Columbia. Studi d’arte (anche un anno a Parigi per occuparsi di Delacroix) e laurea in filosofia. A venticinque anni, nel 1940, era approdato a New York, entrando in contatto con i surrealisti esuli dalla Francia: Duchamp, Masson, Ernst.

Insieme al surrealista cileno Matta, che lo avviò alla pratica del disegno “automatico”, nel 1941 aveva compiuto un lungo e istruttivo viaggio in Messico, frequentando lo studio del surrealista austriaco Wolfgang Paalen, che aveva già incontrato l’anno prima a New York visitandone una mostra insieme a Pollock, Baziotes e Gottlieb. Frutto dell’esperienza messicana, le sue prime opere Little Spanish Prison ,1941, e Pancho Villa, Dead and Alive, 1943.

Al ritorno dal soggiorno messicano, aveva svolto un ruolo di eccezionale rilievo nella diffusione del surrealismo nei circoli artistici newyorkesi. Ce l’aveva messa tutta – come Peggy Guggenheim, che nel 1944 ospiterà la sua prima personale, e il surrealista inglese Stanley William Hayter, che aveva combattuto in Spagna e dato vita al suo celebre studio d’incisione Atelier 17 – nel propagandare fra gli espressionisti astratti della New York School i principi dell’arte creativa e rivoluzionaria, dell’associazione libera e dell’automatismo.

Nel 1947 Motherwell aveva fondato con Harold Rosenberg, Pierre Chareau e John Cage la rivista “Possibilities” (di cui apparve solo il numero dell’inverno 1947-48) con illustrazioni di Baziotes, Pollock, Rothko. Nel 1948 aveva iniziato la celebre serie Elegy to the Spanish Republic, che avrebbe sviluppato per tutto il resto della vita come una sorta di prolungata “lamentazione o canto funebre”. Una infinita serie di ovali verticali o di rettangoli, reiterati in diverse forme e gradi di compressione o distorsione, prevalentemente giocati sui colori del nero e del marrone. E nel 1951 aveva anche pubblicato un’antologia, The Dada Painters and Poets.

Con questo bagaglio di esperienze artistico-culturali il quarantatreenne Motherwell entra nella vita di Helen. Alle spalle ha anche due matrimoni falliti e due figlie, Jeannie e Lise, da portarle in “dote”. Insieme a lui Helen Frankenthaler attraverserà tutti gli anni Sessanta. E’ il periodo in cui l’artista sperimenta l’uso dei colori acrilici, con risultati sorprendenti come in Canyon ,1965, e si dedica anche all’incisione in collaborazione con l’esule russa Tatyana Grosman, rifugiatasi nel 1943 a New York, che nel 1957 aveva fondato l’Universal Limited Art Editions per stampare libri illustrati e litografie.

Nel 1964 Greenberg include Helen fra gli artisti della mostra “Post-Painterly Abstraction”, che intendeva promuovere la nuova fase, caratterizzata da “apertura e chiarezza”, di transizione dall’espressionismo astratto al color field painting e alla lyrical abstraction. In epoca di femminismo nascente Frankenthaler non ha difficoltà ad affermarsi in maniera indipendente dagli artisti maschi. “Non risento di essere una donna pittrice. Né lo sfrutto. Dipingo”.

Eppure era stato impossibile negli anni Quaranta-Cinquanta per pittrici come Lee Krasner o Elaine Fried sottrarsi al cono d’ombra proiettato dai loro mariti – Pollock e de Kooning. Abstract expressionism era risolutamente macho art. Tant’è che nel 1949 era stata concepibile una mostra intitolata “Artists: Man and Wife”, dove artiste di grande talento partecipavano solo in quanto mogli dei loro mariti – oltre a Krasner e Fried, anche Sophie Taeuber-Arp e Barbara Hepworth-Nicholson.

Negli anni Sessanta i tempi erano decisamente cambiati: le opere di Frankenthaler cominciano ad avere successo anche a livello internazionale, alla Biennale di Venezia nel 1966 e all’Esposizione universale di Montreal nel 1967.

Ed era sempre più evidente che l’universo artistico di Helen solo in minima parte coincideva con quello del marito. Alla fine del decennio risultò altresì evidente che la vita di Helen solo in minima parte coincideva con quella di Robert. Nel 1971, infatti, Motherwell divorziò e l’anno dopo si era già risposato – per la quarta volta – con la trentaseienne pittrice e fotografa tedesca Renate Ponsold.

All’inizio degli anni Settanta si concludeva un’intera fase della vita privata e dell’esperienza artistica di Helen Frankenthaler nel quadro di un panorama dell’arte americana radicalmente mutato rispetto a quello in cui l’artista era cresciuta e maturata. La New York School degli espressionisti astratti e dell’action painting era definitivamente tramontata. Entrano in scena le nuove tendenze: pop art, minimalism, conceptualism, iperrealism.

In una società e in un mondo artistico profondamente diversi Helen si godrà una vita lunga e appagante (all’età di sessantasei anni avrebbe sposato il banchiere Stephen M. DuBrul) e porterà a compimento una carriera artistica sempre più ricca di successi, sempre più suggestiva. Regalandoci una delle avventure più emozionanti dell’arte del XX secolo, come mi hanno confermato le opere ammirate nel giugno 2019 in occasione della mostra “Sea Change: A Decade of Paintings, 1974-1983” allestita dalla Gagosian nella sede di Roma.

Come ogni artista approdato alla “classicità”, Helen Frankenthaler è evergreen. In ogni epoca, in ogni stagione ha qualcosa da dare, da dire a ciascuno di noi. Mette in scena sulle sue tele forme dotate di un’esistenza propria, che si espandono sulla superficie piatta con colori esuberanti e leggiadri, vibratili e sensuali – calde risonanze di memorie e sentimenti.

Ciascun quadro – con la sua peculiare identità, con la sua speciale fisionomia – è un episodio di una sperimentazione incessante, un tassello di una produzione complessiva che in definitiva costituisce un tutto unico.

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