Un potere veramente democratico [di Aldo Capitini]

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http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/09/02/un-potere-veramente-democratico/ Per Aldo Capitini un potere veramente democratico contempla il controllo dal basso e la tensione alla nonviolenza, come segno di apertura alla compresenza di tutti. Della configurazione di questo potere si parla in una raccolta dei suoi interventi politici, che è stata recentemente ripubblicata nel volume “Ripensare la politica. Immagini del possibile e dell’alterità” (ETS, 2019), curato da Emanuele Profumi e Alfonso Maurizio Iacono[1]. Ringraziamo gli editori del volume per la gentile concessione.

Il controllo dal basso[2] Il piano per arrivare ad una società che sia veramente di tutti non è ancora realizzato. Sono ancora poche le cose che tutti hanno liberamente, oltre la vita, l’aria, il sole, un corpo naturale, un cuore, una mente per pensare, una volontà per decidere. Esiste la società civile, che è una creazione storica molto importante, ma essa è ancora troppo imperfetta. Vi esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’autoritarismo dell’uomo sull’uomo: alcune mani hanno ricchezze grandissime, altre mani, pur lavorando tutto il giorno, non riescono a riportare a casa (e quale casa, certe volte!) un guadagno sufficiente; alcuni hanno un potere grandissimo nel comandare, nell’imporre agli altri la loro volontà anche con la forza, e molti altri debbono raccomandarsi e ubbidire per salvare la semplice vita.

Eppure, se si guarda bene, gli sfruttati e gli oppressi sono una immensa maggioranza in confronto a quelli che hanno il potere politico ed economico. Poche persone decidono della pace e della guerra, del benessere e del disagio di tutti. E chi controlla questi pochi potentissimi? Solo gruppi di potere; la moltitudine non è presente. Anche se viene convocata alle elezioni (una buona cosa, certamente) ogni quattro anni, ogni cinque anni, i pochi potenti non si preoccupano, durante i quattro o cinque anni, di dare informazioni esatte a tutti, di aprire scuole per chi non ha nessuna cultura, centri sociali per aiutare gli uomini a ritrovarsi insieme, a discutere e imparare l’uno dall’altro. Anzi, i potenti fanno di tutto perché le persone non si trovino insieme a discutere e a criticare, se occorre; e i grandi industriali sono pronti a dare la settimana lavorativa di cinque giorni agli operai, così la sera dei cinque giorni saranno spossati e non andranno al centro sociale a parlare di politica ed istruirsi liberamente, e nei due giorni liberi scapperanno dalla città a fare i turisti o a pescare.

Per trasformare tutta la società è, dunque, necessario cambiare il metodo, e farla cominciare “dal basso” invece che dall’alto. Bisogna cominciare uno sviluppo del controllo dal basso che dovrà crescere sempre più.

Anzitutto essendo uniti. L’industria lo insegna; ma oggi anche l’agricoltura, perché si è visto che la salvezza della campagna è nelle grandi cooperative, nelle grandi aziende. Essere uniti, ma anche attivi, pronti a dedicare un po’ di tempo, un po’ di energie, un po’ di soldi, a organizzare libere associazioni, perfezionandole sempre più. E bisogna anche cercare di conoscere i fatti, di sapere come vanno le cose politiche, sociali, sindacali, amministrative. Per arrivare a questo è bene avere centri sociali, con libri, giornali, discussioni. Anzi, una cosa fondamentale è riunirsi in una discussione settimanale, specialmente sui problemi della propria località. È vero: ci sono i partiti, i sindacati, le amministrazioni comunali e provinciali, il governo con i suoi ministeri; ma questo non basta, è necessario aggiungere il controllo di tutti dal basso, per criticare, approvare, stimolare, per dare elementi che quelli dall’alto non conoscono e fare proposte a cui essi non hanno pensato.

Noi vogliamo dare un aiuto per questo lavoro di controllo dal basso[3], favorendo la costituzione di Centri per l’orientamento sociale in ogni località, anche piccola, e collegandoli con questo periodico[4], stimolando a formare consigli di gestione nelle aziende, consigli di classe nelle scuole, consigli di assicurati nelle previdenze sociali e nelle mutue, consigli di ammalati nei sanatori e negli ospedali, là dove è possibile. Ognuno deve imparare che ha in mano una parte di potere, e sta a lui usarla bene, nel vantaggio di tutti; deve imparare che non c’è bisogno di ammazzare nessuno, ma che, cooperando o non cooperando, egli ha in mano l’arma del consenso e del dissenso. E questo potere lo ha ognuno, anche i lontani, le donne, i giovanissimi, i deboli, purché siano coraggiosi e di muovano cercando e facendo, senza farsi impressionare da chi li spaventa con il potere invece di persuaderli con la libertà e la giustizia, e l’onestà esemplare dei dirigenti.

È un errore pensare che basta che uno molto bravo (e chi lo giudica?) o un gruppo di pochi vada al potere anche con la violenza, riesca a cambiare tutto in bene. Noi non ci crediamo. Bisogna prepararci tutti al potere per il bene di tutti, cioè per la loro libertà, per il loro benessere, per il loro sviluppo.

Dal controllo al potere[5] Come passare dal controllo al potere? Il controllo, nelle sue tre forme: informazione esatta, critica adatta, progettazione progrediente, è già potere; accrescere l’una o l’altra delle forme, secondo la propria capacità, è sviluppare l’omnicrazia[6].

Alcuni sociologi distinguono il “potere” dalla “autorità”, nel senso che il primo è la probabilità che la volontà vinca gli ostacoli che incontra, la seconda è la probabilità che un gruppo trovi obbedienza per i suoi comandi. Ma noi, che non consideriamo che l’ambito sociale, possiamo mettere in disparte il fatto semplice della volontà individuale che riesce a realizzare qualche cosa. Qui dobbiamo vedere come il controllo si fa potere entro la società, o acquista “autorità”. Usiamo, dunque, il termine in senso generico: il potere come capacità di realizzare progetti (tra cui proporre norme), con la probabilità di vedere realizzati i progetti e le norme ubbidite.

Qui interviene, con un suo contributo, la persuasione della compresenza[7] in questi modi:

  1. se i progetti e le norme hanno un fondamento evidente e puro nella realtà di tutti, è più probabile che essi incontrino il consenso di molti; la persuasione della compresenza e della omnicrazia è una garanzia che pesa a favore dell’accettazione dei progetti e delle norme, quindi esse hanno un potere, in virtù non del loro riferimento all’interesse individuale, ma di un riferimento alla realtà di tutti.
  2. esiste un ordine sociale che è la convivenza di tutti e non è il semplice interesse individuale; un persuaso della compresenza e dell’omnicrazia può tralasciare la difesa di tale ordine sociale in quanto egli teme di sottoporre tale ordine al proprio vantaggio individuale, e può tralasciare di vedere la difesa dell’ordine sul piano della guerra, la quale oramai viene condotta come strage e può arrivare all’uso, oltre che delle armi chimiche, delle armi nucleari, il che deforma ogni carattere umano della lotta. Ma rimane il semplice ordine sociale come convivenza pubblica, come rispetto di quelle istituzioni che spesso sono strumenti del potere di tutti. E qui è possibile collaborare con chi usa quegli strumenti coercitivi che sono semplicemente applicati a frenare e sviare l’individuo che attenti a tali “strumenti che sono di tutti” e che non segua, quanto potrebbe, la pressione intima della compresenza che lo indurrebbe a tale rispetto. Mentre non è possibile collaborare sul piano della guerra o della guerriglia, che porta a stragi, terrorismo, tortura, cioè ad una violenza che prende la mano rispetto al motivo originario, è possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro la stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto, strettamente condizionata nei modi (quante armi si possono usare che non uccidono!), accompagnata costantemente da un soffio omnicratico; il persuaso della nonviolenza può, personalmente, non usare nemmeno questo tipo di violenza, se il suo compito è di richiamare costantemente al fine; ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra.

Io non potrei stare in un governo che può dichiarare la guerra, ma non avrei difficoltà a stare in un’amministrazione di un ente locale. Questo rispetto all’ordine locale:

  1. non significa accettazione dell’ordine costituito, da difendere ad oltranza, ma il riconoscimento che si può mantenere la convivenza nonviolenta tra gli abitanti di una località, che è di ambito modesto, mentre si può, nello stesso tempo, portare avanti la rivoluzione nonviolenta con le sue tecniche per trasformare le strutture e tutta la situazione locale;
  2. mette in primo piano “l’ente locale” (in Italia, la borgata, la frazione, il comune, la provincia, la regione), perché in queste dimensioni può meglio realizzarsi l’ispirazione nonviolenta e omnicratica, nella diretta conoscenza delle persone e dei problemi, nella permanente democrazia diretta, ricca di profondi motivi etici ed educativi, e aliena da imperialismi atomici!

Il problema del potere[8] Il problema del potere si scinde oggi in due parti:

  1. si tratta di avere la possibilità di far valere la propria volontà in una data situazione, anche di fronte ad un’opposizione, e si hanno diversi gradi, perché il potere può essere violenza, bruto potere, potenza, ma anche influenza, prestigio, probabilità di trovare obbedienza per un comando;
  2. si tratta di esprimere una propria proposta che sia nell’interesse di tutti, sulla base di una garanzia (che nel primo caso manca).

Vediamo meglio la cosa, perché la differenza è notevolissima. Abbiamo visto concretarsi una posizione nuova, che è nell’interesse sommo, della passione per la realtà di tutti, dell’apertura alla compresenza[9]: se questa passione diventa centrale nel proprio animo, avviene una rivoluzione interna o conversione o trasformazione della coscienza e della stessa psiche, dei sentimenti e abitudini dell’individuo. Nel suo agire in mezzo agli altri, egli ha un modo per manifestare questa trasformazione interna che sta avvenendo in lui, e questo modo è l’interesse aperto e visibile per la nonviolenza, nella complessità progressiva delle sue realizzazioni, delle sue acquisizioni, delle sue conquiste. Questa tensione alla nonviolenza è la garanzia che viene data della preminenza dell’interesse per i singoli esseri, fino all’orizzonte di tutti, sopra qualsiasi legame con istituzioni, con Stati, chiese, sette.

La prima forma del potere trova la legittimità del suo esercizio nella forza o nel diritto, che producono una superiorità del potere su altri, mentre nel secondo caso appare una garanzia nuova, che è questa: se vedete che ho la tensione alla nonviolenza, questo è segno della mia apertura alla compresenza di tutti.

Che cosa vuol dire questo? Che nella prima forma del potere voi avete la sicurezza che vi dà una volontà che raduna intorno a sé, in vari modi, una certa forza; nella seconda forma del potere voi sapete che è necessaria la fiducia nel valore della compresenza di tutti. Le istituzioni, gli Stati, le chiese, le sette, sono pronte ad assumere la prima forma del potere, e anche ad usare più o meno la costrizione, anche il ricatto, e perfino l’esclusione. Dall’altra parte, nella seconda forma del potere, c’è indipendenza dalle istituzioni, perché uno si pone in rapporto con la compresenza. La scelta di questa seconda forma dà inizio ad un lavoro di costruzione coraggiosa e di continua scoperta, che sarà lungo, ed avrà il suo prezzo, perché può far perdere alcune cose che si sarebbero potute ottenere con la prima forma del potere, quella che usa la forza, sia pure razionalmente.

Per avere potere, cioè la possibilità di farsi valere, che è di agire con risultati desiderati sulle cose e sulle persone, la volontà si costituisce e mantiene la vitalità del proprio strumento corporeo, si fornisce di mezzi e strumenti per influire e far decidere, organizza apparati amministrativi o gruppi o si vale di quelli esistenti. Le gradazioni del potere sono tante. Si va dall’usare una certa energia e prontezza, come è nel caso citato dal Machiavelli, di quello che con la tromba ed energici comandi mette in ordini una folla sparsa di individui, al caso di colui che si vale di un’intera burocrazia e dell’ufficio “più grande del mondo”, come è il Pentagono degli Stati Uniti, per “far valere” la propria volontà. Il potere può incontrare altri poteri e contropoteri.

Lo sviluppo della democrazia in quanto cerca di allargare il potere al maggior numero possibile di individui, superando le difficoltà conseguenti alle diversità di razza, di classe sociale, di ricchezza, di cultura, tende al potere di tutti, ma non lo raggiunge effettivamente. Se San Francesco nel Medioevo poneva una distinzione tra il potere delle autorità e la scelta nonviolenta (“poiché non posso correggere ed emendare le colpe con la predicazione, l’ammonizione e l’esempio, non voglio diventare un carnefice che punisce e frusta come fanno i poteri di questo mondo”), tale distinzione resta anche oggi, visto che la democrazia, nelle forme finora realizzate, si vale di alcuni strumenti che possono non essere accettati. Possiamo anche dire la cosa in questi termini: la democrazia, anche la meglio sviluppata, lascia il posto per la posizione di chi metta in primo piano il suo rapporto con la compresenza di tutti.

La democrazia attuale attribuisce alla maggioranza un potere che qualche volta è eccessivo rispetto ai diritti delle minoranze; fa guerre di Stato contro Stato; conferisce alle polizie il potere di torturare (come avviene in tutti i Paesi) e molte volte un soverchio intervento nell’ordine pubblico; non è sufficientemente aperta a ciò che potranno dare o vorranno essere i giovanissimi e i posteri; preferisce strumenti coercitivi e repressivi a strumenti persuasivi ed educativi; si lascia sopraffare dalle burocrazie trascurando il servizio al pubblico anonimo; concentra il potere preferendo l’efficienza al controllo, e finisce col non considerare sufficientemente i mezzi e le loro conseguenze, pur di raggiungere un fine.

La lotta per razionalmente contrastare questi difetti e queste involuzioni della democrazia, è oltremodo doverosa, ma può non essere sufficiente, e c’è il posto – dicevo – per la posizione di chi, attraverso un interesse preminente per la compresenza manifestato nella tensione alla nonviolenza, dà la migliore garanzia di essere di qua da quei difetti e da quelle involuzioni.

C’è nel fondo di questa indipendenza rispetto alle istituzioni attuali una contrapposizione che si può esprimere così: la democrazia conserva riferimenti al procedere della natura, l’omnicrazia tende ad essere sempre meglio attuatrice della compresenza. Per la democrazia la vitalità, la forza, talvolta la costrizione, la rivoluzione e la guerra o la guerriglia hanno il loro posto; per l’omnicrazia la compresenza si presenta come valore costante e l’individuo unito alla compresenza ha una “forza” maggiore di tutte le altre forze. L’individuo, che quanto a natura rimane talvolta privo di ogni potenza, e non ha la comune vitalità, né la ricchezza o cultura, non è semplicemente un essere meritevole di “assistenza”, ma è un essere che ha un potere, per cui egli conta o conterà, in quanto la compresenza gli è assolutamente vicina[10].

Il funzionamento dell’assemblea[11] La tensione esclusivamente politica è portata a trascurare e deprezzare le assemblee, perché la politica ha per fine sommo la conquista e la conservazione del potere. L’esperienza ce lo conferma: la svalutazione dei soviet nell’Unione sovietica, il modo di imporre la propria volontà da parte del Pentagono e del Presidente americano, la non assunzione del compito di moltiplicare assemblee popolari dal basso da parte del Partito comunista italiano dopo il 1948. In questo momento storico spetta ad un’altra tensione, quella dell’apertura nonviolenta, di mantenere ferma la reverenza e la valutazione per l’assemblea; l’assemblea, come prima cosa in ogni campo, come quella che esplica un controllo continuo e imprime una direzione ad ogni associazione ed ente.

Naturalmente questo va fatto in modo concreto, e non come rivoluzione del caos e dell’inconcludenza o della sopraffazione. Dopo la Liberazione dal fascismo e avendo istituito nella mia città, e poi altrove, un Centro di orientamento sociale (COS) per libere assemblee popolari periodiche (il lunedì e il giovedì alle ore 18), aperte ai problemi amministrativi e generali di carattere politico, sociale, educativo, culturale, mi proponevo di portare “il principio del COS” in ogni campo, oltreché in ogni luogo, quartiere o parrocchia. E scrissi al Ministro della Giustizia con la proposta che noi del COS avremmo istituito nelle carceri della città riunioni periodiche (con tutte le garanzie per l’ordine) sul tipo di quelle del COS, per i due ordini di problemi amministrativi e culturali-sociali che anche i carcerati possono avere, nei limiti della loro condizione.

Pensavo all’enorme vantaggio educativo, sociale, culturale, liberativo, per tutti i carcerati. Il Ministero non mi rispose. Il mio progetto era di portare il principio del COS in ogni ente, anche ospedali e enti di previdenza ed assistenza, e perfino, come forza di educazione, nei manicomi (cosa che oggi si sta facendo, con ottimi risultati, a Perugia, a Gorizia e altrove).

Ma il punto da chiarire è di vedere quale è la struttura giusta del principio dell’assemblea. Un funzionamento dell’assemblea che presuma di essere da sé tutto, e che funzioni secondo la maggioranza, senza alcun margine per le minoranze e per chi è fuori di quell’assemblea particolare, non è l’esatta struttura, corrompe l’attuazione democratica, e durerà poco: sarà sostituita da funzionari.

La struttura dell’assemblea ha non soltanto una direzione verticale nel senso di controllo di ogni autorità soprastante, ma una direzione orizzontale nel senso del rapporto federativo con tutte le altre assemblee. E perché l’esigenza della compresenza prevalga su quella del potere – che finirebbe per seppellire l’assemblea soppiantata da qualche astuto tiranno –, non è necessario soltanto sviluppare un senso critico per non farsi ingannare, una continua informazione per conoscere i problemi e giudicare le soluzioni, ma anche ricorrere molte volte alla garanzia che è data dai persuasi nonviolenti della realtà di tutti.

Presso costoro si è sicuri di trovare la pazienza e la costanza di persone che amano l’assemblea come una parte visibile della compresenza, e non la considerano semplicemente un mezzo in nome dell’efficienza. Fare dell’assemblea anche un “fine” oltre che un mezzo, una soddisfazione e un sacrificio valido in sé stesso, è di chi considera la compresenza non un mezzo, ma un fine.

Nei riguardi dell’assemblea si riproduce il difetto che è nei rivoluzionari non pienamente consapevoli di ciò che di “diverso” è portato dalla rivoluzione. La mancanza di un punto sicuro di riferimento nella contrapposizione fa sì che molte volte la rivoluzione sia semplicemente un’imitazione. Oggi si può vedere chiaramente la “compresenza” come punto di riferimento per la contrapposizione, e dovremmo aver forza per non cedere alla imitazione. La prima e antichissima “imitazione” è stata quella della natura: la natura o vitalità violenta procede per violenza? Il pesce grande mangia il pesce piccolo? Ci si preserva uccidendo? Ebbene, anche noi facciamo uno sforzo eguale di realizzazione violenta. I tentativi di stabilire un orientamento diverso dalla natura o vitalità violenta hanno toccato culmini alti, come quello di amare i nemici, che imitando la natura vorremmo invece sopprimere.

I rivoluzionari contro il tiranno non debbono “imitare” il tiranno, semplicemente sostituendo la persona, ma mutare tutto il sistema. E se noi mettiamo al centro della trasformazione sociale l’assemblea, non vogliamo principalmente che essa “serva”, cioè dia risultati miglio dell’opera di un funzionario fornito di pieni poteri. Non per utilità, non per una efficienza maggiore, si sceglie l’assemblea, ma per una valore in sé, perché è una parte viva della compresenza. E perciò se ne accettano gli eventuali inconvenienti, o svantaggi o disutilità. Ma può anche darsi che si accresca inaspettatamente l’efficienza, e l’assemblea renda più concreta, più pulita, più aderente l’amministrazione o gestione; cioè che si realizzi il Vangelo:  “Cercate il regno dei cieli, il resto vi sarà dato per sovrappiù”. Ma sarà difficile ottenere dai politici che strumentalizzano tutto e dai superficiali pragmatisti, dai fedeli della tecnica, questo primato dell’assemblea come un valore per sé stessa.

Coloro che contrappongono semplicemente l’assemblea all’autorità non fanno, dunque, che imitare il modo con cui la “autorità” esercita il potere, e quindi l’assemblea sarà presto o tardi chiusa, dopo che ha servito per conquistare il potere. Una cosa del genere è avvenuta per il Concilio Vaticano secondo, aperto a stabilire nuove direttive sulla base dell’assemblea (per quanto ciò è possibile in un’istituzione in cui il potere scende dall’alto e il cui capo è infallibile).

Ma quando, chiuso il Concilio, qualcuno ha cercato di continuare la ricerca di nuove direttive e forse anche di riforme, si è sentito dire che non si poteva continuare e che il Concilio oramai era chiuso. L’assemblea non è per imitare il vecchio potere, ma per stabilire un potere con modi nuovi, e di questi bisogna essere consapevoli; sono da costruire e articolare come mai è stato fatto (mediante gruppi di lavoro, commissioni di inchiesta, d’iniziativa, d’intervento, formabili e dissolvibili secondo il bisogno), realizzando un modo nuovo di esercitare il potere, avendo come riferimento non la volontà in un comando, ma la compresenza: l’assemblea tendente non ad imitare una volontà onnipotente, ma a creare l’omnicrazia, il potere che ha tutti presenti[12].

NOTE

[1] Questo articolo è l’insieme di alcuni interventi pubblicati in Aldo Capitini, Il potere di tutti, Guerra edizioni, Perugia 1999. Ringraziamo di cuore Giuseppe Moscati e la “Fondazione Aldo Capitini” per averne generosamente concesso la ri-pubblicazione.

[2] Articolo n.1 (Gennaio 1964) del mensile “Il potere è di tutti”, edito dal 1964 al 1968, sotto la sua direzione.

[3] “L’espressione “dal basso” vuol dire esattamente di muovere dai singoli esseri, nella loro esistenza e molteplicità, nelle loro condizioni anche elementari di vita, di benessere, di cultura. S’intende che l’apertura nonviolenta valorizza al massimo questo principio, ma sulla linea di procedere fino alla compresenza. Non può ciò che è “dal basso” pretendere all’assolutezza, se non è nel quadro dell’universalità della realtà di tutti. Altrimenti non è più dal basso, ma è oligarchia o tirannia di un gruppi di pochi, o olocrazia, se è tirannia che una “massa” esercita su altri”, Aldo Capitini, Omnicrazia, in A. Capitini, Il potere di tutti, Op. Cit., pag. 120.

[4] Capitini aveva già realizzato questi centri (i C.O.S.) in diversi luoghi dell’Italia centrale, a cavallo tra la fine della dittatura fascista e la nascita della nuova Repubblica. Qui si riferisce al mensile “Il potere è di tutti”.

[5] Aldo Capitini, Omnicrazia, in A. Capitini, Il potere di tutti, Op. Cit., pp. 160-62.

[6] Questa parola significa, letteralmente: potere di tutti e di ciascuno. È la realizzazione di un potere nonviolento capace di esprimere e rispettare la compresenza di tutti. Per Capitini, infatti, essa “pone come superiore al mondo degli interessi particolari la compresenza, che è la realtà di tutti e dei valori in un infinito accrescimento, e promuove non i modi della guerra e dell’autoritarismo dall’alto, ma i modi della nonviolenza e della permanente valorizzazione di tutti dal basso come assemblea e produzione dei valori (…). E l’apertura alla compresenza è proprio l’attenzione per ogni singolo individuo, l’insaziabile tensione alla sua singolarità, non in un “momento” di essa, bensì nella sua “continuità”. Questa continuità viene prolungata e resa infinitamente complessa, se la nostra apertura è rivolta anche a ciò che l’essere individuo dà misteriosamente e secretamente, non percepito da altri e talora anche inconsapevolmente, mediante la compresenza, nella quale ognuno dà, anche colui che sembra aver meno ed esser meno, come gli incapaci, gli stolti, gli ammalati, i morti. (…). L’omnicrazia progredisce tutte le volte che il potere di uno si esplica strettamente connesso con il potere di ogni altro, nella sua singolarità e possibilità di libertà e sviluppo come singolo. Ibid., pp. 134/137/146

[7] “La compresenza non è un’associazione con un suo statuto, tra un numero di persone con un fine, ma è un’unità aperta, di  là da ogni immagine che si possa avere nella mente. (…). Dal mondo della natura fatto di vitalità e di potenza, che lascia “finire” l’individuo essere vivente, mi apro alla realtà che dà uno sviluppo ad ogni essere individuo: la compresenza, che ristabilisce prontamente l’eguaglianza della cooperante realtà di tutti. (…). La compresenza comprende tutti gli esseri che siano mai nati, anche minuscoli ed effimeri, anche lontanissimi e mai percepiti e impercettibili. (…). La compresenza che scioglie ogni singolo dandogli un’infinita possibilità, e così stabilisce la sua unità, è imparagonabile; si potrebbe avvicinare alla creatività, purché si gettasse via il concetto del mondo: che un essere è creatore, e un altro no; perché questa infinita possibilità creativa è del singolo e della compresenza, e ogni volta che è del singolo è anche della compresenza, cooperante. In termini del mondo si direbbe: massima individualità e massima socialità, ma nel mondo sappiamo quanti limiti circondano la formula, e il frequente tramontare dell’uno o dell’altro termine della formula. (…). La compresenza non esclude nessuno, ma non è nemmeno (una critica che potrebbe esser fatta) un insieme, naturalisticamente inteso e di fatto, di individui, perché comprende anche i morti, è unificata dalla produzione del valore, è aperta ad una realtà che si liberi dal male e dalla morte, e si realizzi in modi ulteriori e nuovi. (…). Perché l’unificazione per la compresenza non è di fatto, come congregare tutti gli esseri in quanto sono nati, ma in quanto con la nascita sono produttori di valori; ciò che li unisce è il produrre i valori, e il valore li unisce perciò nell’attività, in qualche cosa che è tensione e oggetto di tensione, a cui ogni compresente partecipa”, in Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, in A. Capitini, Scritti filosofici e religiosi, Protagon, Perugia 1994, pp. 270/261/288-9/306/419.

[8] Aldo Capitini, Omnicrazia, in A. Capitini, Il potere di tutti, Op. Cit., pp. 88-91.

[9] Sull’apertura alla compresenza Capitini scrive anche che: “L’apertura non è ad una moltitudine di esseri semplicemente viventi, a cui allungare la vita e assicurare che godano invece di soffrire: è ad una moltitudine in una profonda unità crescente, a gente che già nella compresenza dà tanto; e può essere nell’aspetto un pezzente, uno sciancato, uno stolto. Mi apro alla compresenza che abbia questo di infinito: di portare il futuro liberato continuamente nel presente, di migliorare la condizione, di rendere libero ogni sopraffatto, di fare incomparabilmente capace colui che è schiacciato. Questa apertura verso tutti è un atto libero che nessuno può dare o togliere.” Ibid., pp.87-88.

[10] Capitini ritorna varie volte sull’idea che l’omnicrazia è espressione di un potere sociale maggiormente democratico di quello delle democrazie storicamente realizzate. Si legga, per esempio, anche questo passaggio: “Nella vita politica e sociale lo stesso moto ha aperto la libertà rivendicata e ottenuta, ad essere libertà per tutti, e possibilità di libertà concreta per tutti, quindi struttura politica e sociale di libertà e di giustizia, tendendo a superare il potere di gruppi fondato sulla violenza o sulla proprietà. Anche qui il superamento dell’autoritarismo, cioè del diritto di alcuni di dominare o sfruttare tutti gli altri, ha fatto il posto ai sistemi democratici che internamente lavorano per essere sempre più democratici, fino a diventare omnicratici, nei quali ogni cittadino abbia il massimo potere, dia il massimo contributo alla formazione delle leggi e al controllo nella esecuzione”, in Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, in A.Capitini, Scritti filosofici e religiosi, Op. Cit., pag. 334.

[11] Aldo Capitini, Omnicrazia, in A. Capitini, Il potere di tutti, Op. Cit., pp. 130-33. “Il principio che l’assemblea ha il potere è valido, perché è ciò che assomiglia più di ogni altra cosa alla realtà di tutti, che è dal basso e omnicomprensiva. L’assemblea è una molteplicità che porta in sé l’unità, e perciò è il primum, la presenza del potere”, Ibid., pag. 119.

[12] A questo proposito, Capitini afferma anche: “Per il superamento democratico della tecnocrazia e della burocrazia chiuse nei modi detti prima, sono necessari lo sviluppo culturale di tutti e una crescente generale pressione per occupare tutti i posti del potere, accompagnata dai due strumenti che sono le assemblee e l’opinione pubblica. (…). Proprio qui occorre fare la rivoluzione più decisa, che prende questi aspetti: 1. ridurre la durata del potere e ammettere il diritto di revoca quando dal basso si ritenga errato quell’uso del potere; 2. creare molti organi intermedi e gruppi di lavoro per decisioni più particolari e per i controlli; 2. imporre ad ogni livello la convocazione frequente e periodica di assemblee; 4. fornire all’opinione pubblica largamente le proprie informazioni ed ascoltare le critiche e le proposte. Anche il potenziamento dell’opinione pubblica è un modo di estensione del potere di tutti, perché tutti in essa vengono ad esercitare una certa influenza; e per questo bisogna difendere e svolgere i diritti della libertà di espressione, informazione e controllo, come anteriori ad ogni altro, come quelli che assicurano un certo potere a tutti”, Ibid., pp. 128/122.

 

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