Intervista a Hannah Arendt [di Guenter Gaus]

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https://www.carmillaonline.com/2006/11/24/intervista-a-hannah-arendt/Pubblicato il 24 Novembre 2006 · in Interviste · [Il 28 ottobre 1964 la televisione della Repubblica federale tedesca trasmise la seguente conversazione tra Hannah Arendt e Guenter Gaus, al tempo stimato giornalista e in seguito alto funzionario nel governo guidato da Willy Brandt. Questa intervista ricevette il premio Adolf Grimme e venne pubblicata l’anno successivo col titolo Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache, in Guenter Gaus, Zur Person, Piper, Muenchen 1965. La traduzione italiana si basa sulla versione inglese di Joan Stambaugh.]

Hannah Arendt: Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si puo’ considerarla tale, è la teoria politica. Non mi sento affatto una filosofa, né credo di essere stata accolta nella cerchia dei filosofi, come lei gentilmente suggerisce. Rispetto poi all’altra domanda da lei posta nelle sue osservazioni iniziali, può anche essere vero, come dice lei, che la filosofia è ritenuta in genere una professione maschile, ma non per questo è destinata a rimanere tale per sempre! E’ perfettamente possibile che un giorno vi sia una donna filosofo… (1)

Guenter Gaus: Ma io la considero una filosofa…Be’, non posso farci niente; ma personalmente non credo di esserlo. Sono convinta di essermi congedata dalla filosofia una volta per tutte. Come lei ben sa, ho studiato filosofia, ma ciò non significa che da allora non abbia cambiato strada.

 Vorrei che lei precisasse meglio qual è la differenza tra la filosofia politica e il suo lavoro di docente di teoria politica. L’espressione “filosofia politica”, che io peraltro evito, è straordinariamente sovraccarica di tradizione. Quando parlo di queste cose, in termini accademici o non accademici, ricordo sempre che esiste una tensione vitale tra filosofia e politica. Vi è cioè una tensione tra l’uomo come essere che pensa e l’uomo come essere che agisce di cui non vi è traccia, per esempio, nella filosofia della natura. L’atteggiamento del filosofo di fronte alla natura non è diverso da quello di ogni altro uomo, e quando dice ciò che pensa su di essa egli parla nel nome dell’umanità, ma un filosofo non può essere obiettivo o neutrale rispetto alla politica. Non dopo Platone!

 Capisco cosa vuole dire. Vi è una sorta di ostilità verso la politica nel suo complesso in gran parte dei filosofi, con ben poche eccezioni. Kant è una di queste eccezioni. Tale inimicizia ha una grandissima rilevanza in questo contesto, poiché non è una questione personale, ma dipende dalla cosa stessa.

Lei non vuole avere nulla a che spartire con questa ostilità verso la politica perché ritiene che potrebbe intralciare il suo lavoro? “Non voglio avere nulla a che spartire con questa ostilità”, proprio così! Voglio guardare alla politica, per così dire, con gli occhi sgombri dalla filosofia.

Capisco. Passiamo ora alla questione dell’emancipazione femminile. Ha mai rappresentato un problema per lei? Sì, naturalmente, come tale il problema si ripresenta sempre. Il fatto è che io sono un po’ all’antica. Ho sempre pensato che ci sono delle professioni che non si addicono alle donne, che non vanno bene per loro, se posso esprimermi così. Non è bello quando una donna si mette a dare ordini. Se vuole rimanere femminile, una donna dovrebbe evitare di trovarsi in situazioni simili. Non so se ho torto o ragione. Per quanto mi riguarda ho sempre vissuto secondo questi principi in maniera più o meno inconscia – o meglio, più o meno conscia. Nel mio caso questo problema non ha pesato molto. Per farla breve, ho sempre fatto ciò che mi andava di fare.

Nella sostanza l’obiettivo del suo lavoro – entreremo sicuramente più nel dettaglio in seguito – è la conoscenza delle condizioni che rendono possibile l’azione e il comportamento politico. Le preme esercitare una grande influenza con i suoi scritti oppure crede che ai nostri tempi una simile influenza non sia più possibile, o semplicemente la cosa non le importa poi molto? Sa, non è facile rispondere alla sua domanda. In tutta onestà dovrei limitarmi a dire questo: quando lavoro l’influenza è l’ultimo dei miei pensieri.

 E una volta che il lavoro è finito? A quel punto anch’io ho finito. Ciò che mi preme è comprendere. Per me scrivere significa cercare di comprendere, fa parte di questo processo di comprensione… Certe cose vengono fissate. Se avessi avuto in dono una memoria così prodigiosa da conservare davvero tutto ciò che penso, dubito fortemente che avrei mai scritto alcunché – conosco la mia pigrizia. Per me ciò che conta è il processo stesso del pensiero.

Personalmente, una volta che sono riuscita a riflettere in profondità su una questione, sono molto soddisfatta. Se poi riesco anche a tradurre in maniera adeguata il mio processo di pensiero in scrittura, ne traggo ulteriore soddisfazione. Ma lei mi chiede dell’effetto che i miei lavori hanno sugli altri. Se mi consente una chiosa ironica, questa è una domanda tipicamente maschile. Gli uomini vogliono sempre esercitare una grande influenza, ma per me non è poi così essenziale. Se penso di esercitare dell’influenza? No. Io voglio comprendere, e se altri comprendono – nello stesso senso in cui io ho compreso – allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo.

 Le riesce facile scrivere? Formulare i suoi pensieri? A volte sì, a volte no. Ma in generale posso dirle che non scrivo fintantoché, per così dire, non riesco a scrivere sotto mia stessa dettatura.

 Finche’ non ha sviscerato la questione. Sì. Devo sapere esattamente che cosa voglio scrivere. Non scrivo finché non lo so. In genere faccio un’unica redazione, e quindi me la sbrigo piuttosto in fretta; dipende solo dalla velocità con cui batto a macchina.

 Al momento, al centro della sua opera vi è l’interesse per la teoria politica, l’azione e il comportamento politico. Tenuto conto di ciò, mi sembra particolarmente interessante un passo del suo scambio epistolare col professor Scholem (2), dove lei scrive, se mi è consentito citarla, che “in gioventù non provava alcun interesse per la politica o la storia”. Signora Arendt, nel 1933, a ventisei anni, lei ha dovuto lasciare la Germania perché ebrea. Vi è forse un nesso tra questi eventi e il suo interesse per la politica, o meglio la fine della sua indifferenza verso la politica e la storia? Ovviamente, sì. Nel 1933 l’indifferenza non era più possibile. A ben vedere, non era possibile neanche prima.

Anche per lei? Ovviamente, sì. Leggevo i giornali con attenzione, avevo delle opinioni, ma non appartenevo a un partito, né ne sentivo il bisogno. Sin dal 1931 ero certa che i nazisti avrebbero preso il potere. Discutevo in continuazione di questi problemi, ma non mi sono occupata in manierasistematica di queste cose finché non ho deciso di emigrare.

Avrei un’altra domanda da porle su questo tema. Visto che lei era certa che i nazisti avrebbero fatto di tutto per conquistare il potere, non sentì l’impulso di fare qualcosa per impedirlo – per esempio aderire a un partito – o riteneva che non avesse più alcun senso? Personalmente pensavo non avesse senso. Altrimenti – anche se è difficile stabilirlo con certezza a distanza di anni – avrei probabilmente fatto qualcosa. Pensavo che la situazione fosse disperata.

 Si ricorda di un particolare evento cui può essere fatto risalire il suo cambiamento d’atteggiamento nei confronti della politica? Direi il 27 febbraio 1933, l’incendio del Reichstag, e gli arresti illegali che ne seguirono la notte stessa: la cosiddetta custodia preventiva. Come lei sa, gli arrestati finivano nelle celle della Gestapo o nei campi di concentramento. Ciò che accadde era mostruoso, anche se ora appare nulla in confronto alle cose avvenute in seguito. Per me fu un vero trauma, e da allora mi sentii responsabile, non pensavo più, cioè, che si potesse rimanere degli osservatori, e così ho cercato di rendermi utile in molti modi. Ma ciò che mi spinse a emigrare – se vale la pena di parlarne, visto che è una cosa di nessuna importanza…

La prego, ce lo racconti. Intendevo emigrare in ogni caso. Avevo capito fin dall’inizio che gli ebrei non potevano restare. Non era mia intenzione vagare per la Germania come una cittadina di seconda classe, se posso esprimermi così. Per di più, ero certa che le cose sarebbero andate sempre peggio. Comunque, alla fine, non me ne sono andata così pacificamente. E devo riconoscere che ne vado orgogliosa.

Venni arrestata e dovetti lasciare il paese illegalmente – glielo racconterò fra un attimo – e fu per me una grande soddisfazione. Pensavo: almeno ho fatto qualcosa! Almeno non sono “innocente”. Nessuno avrebbe potuto dirlo di me! L’opportunità me la offrì l’organizzazione sionista. Avevo diversi amici tra i suoi dirigenti, in particolare ero molto amica dell’allora presidente Kurt Blumenfeld, ma non ero una sionista, né i sionisti cercarono mai di reclutarmi. Comunque, in un certo senso, ne subivo l’influenza, in particolare per quanto riguarda la critica, l’autocritica che i sionisti avevano suscitato nel popolo ebraico. Ne subivo l’influenza e ne capivo l’importanza, ma politicamente non avevo nulla a che spartire col sionismo.

Ebbene, nel 1933 Blumenfeld e un altro uomo che lei non può conoscere mi contattarono e mi dissero che volevano fare una raccolta di tutte le affermazioni antisemite che ricorrevano negli ambienti più ordinari: per esempio nelle associazioni, in ogni genere di associazioni professionali, sulle riviste specializzate, in breve quel genere di cose di cui all’estero non si viene mai a sapere nulla.

Al tempo fare qualcosa del genere significava rendersi complice di quella che i nazisti definivano “propaganda dell’orrore”. I sionisti non potevano occuparsene, perché, nel caso in cui fossero stati scoperti, avrebbero messo a repentaglio l’intera organizzazione… Così mi chiesero: “Vuoi farlo tu?”, e io risposi: “Certo”. Ne ero ben felice; innanzitutto perché mi sembrava un’ottima idea, e poi perche’ mi confortava pensare che, dopo tutto, si potesse pur fare qualcosa.

Fu arrestata per questa attività? Sì. Venni scoperta, ma fui molto fortunata. Uscii dopo otto giorni perché avevo fatto amicizia con il funzionario che mi aveva arrestato. Era un tipo affascinante! Era stato appena promosso dalla polizia criminale alla sezione politica e non aveva la minima idea di come comportarsi. Che cosa doveva fare? Mi ripeteva di continuo: “In genere mi trovo di fronte a qualcuno, consulto gli schedari e capisco come stanno le cose. Ma che devo fare con lei?”.

 Questo accadeva a Berlino? Sì, a Berlino. Purtroppo ho dovuto mentire a quest’uomo,
non potevo certo mettere a repentaglio l’organizzazione. Gli raccontavo delle storie fantasiose e lui non faceva che dirmi: “L’ho portata io qui dentro, sarò io a farla uscire. Non prenda un avvocato! Gli ebrei hanno pochi soldi ormai. Risparmi il denaro!”.

Nel frattempo l’organizzazione mi aveva procurato un avvocato – ovviamente tra i suoi membri – ma io me ne sbarazzai, perché l’uomo che mi aveva arrestato aveva una faccia così  schietta e onesta che decisi di fidarmi di lui, convinta che fosse più sicuro che affidarsi a un avvocato, spaventato quanto me.

Riuscì quindi a uscirne e a lasciare la Germania? Uscii dal carcere, ma dovetti passare il confine illegalmente… l’inchiesta era ancora aperta.

 Nel carteggio che ho menzionato in precedenza, signora Arendt, lei ha respinto con forza, giudicandola superflua, l’esortazione di Scholem a non dimenticarsi della sua appartenenza al popolo ebraico. Lei scrive, cito ancora, “la mia ebraicità appartiene a quei dati di fatto indiscutibili della mia vita che non ho mai desiderato di cambiare di una virgola, nemmeno durante l’infanzia”. In proposito avrei alcune cose da chiederle. Lei è nata a Hannover nel 1906, suo padre era un ingegnere, ed è cresciuta a Koenigsberg. Ricorda che cosa significava per una bambina appartenere a una famiglia ebrea nella Germania prebellica? In tutta onestà non mi è possibile rispondere in termini generali alla sua domanda. Per quanto mi riguarda, non ho preso coscienza in famiglia della mia identità ebraica. Mia madre non era affatto religiosa.

Suo padre è morto in giovane età. Sì, mio padre è morto quand’era ancora giovane. Suona tutto molto strano. Mio nonno era il presidente della comunità liberale ebraica e consigliere comunale a Koenigsberg. Vengo da una vecchia famiglia ebrea. Comunque, la parola “ebreo” non veniva usata quando ero bambina. Mi ci sono imbattuta per la prima volta ascoltando le battute antisemite – che è meglio non ripetere – dei bambini per le strade. Da quel momento ho avuto, per così dire, un’”illuminazione”.

 Fu un trauma per lei? No.

 Non le venne da pensare: ora sono qualcosa di particolare? Be’, vede, questa è un’altra faccenda. Non fu affatto un trauma per me. Mi sono detta: così stanno le cose. Se ho avuto la sensazione di essere qualcosa di particolare? Certo! Ma non è il caso che mi dilunghi sulla questione ora.

 In che senso si sentì diversa? Oggettivamente, penso che avesse a che fare con la mia
ebraicità. Per esempio, da bambina – benché da bambina un po’più grandicella, in questo caso – sapevo di avere delle fattezze ebraiche, di essere diversa dagli altri bambini. E ne ero pienamente consapevole, ma non nel senso che mi sentissi inferiore: semplicemente le cose stavano così. Peraltro anche mia madre, la mia cerchia familiare, per così dire, erano un po’ fuori dalla norma. Erano così particolari, anche rispetto alle famiglie di altri bambini ebrei o di altri bambini nostri parenti, che non era facile per un bambino capire che cosa vi fosse di speciale.

Mi piacerebbe saperne di più sulla peculiarità della sua cerchia familiare. Lei ha detto che sua madre non ritenne necessario soffermarsi sulla sua identità ebraica finché lei non ne fece esperienza sulla strada. Forse sua madre aveva perso quel senso della propria ebraicità che lei rivendica nella sua lettera a Scholem? Non svolgeva più alcun ruolo nella sua vita? Si era completamente assimilata, o almeno così lei credeva? Mia madre non aveva una grande predisposizione per la teoria. Non credo avesse le idee molto chiare in proposito. Come mio padre, anche lei proveniva dal movimento socialdemocratico, dal circolo dei “Sozialistische Monatshefte” (3).

La questione dell’ebraismo non svolgeva alcun ruolo nella sua vita. Ovviamente era un’ebrea. Di certo non mi avrebbe mai battezzata! Penso che mi avrebbe preso a schiaffi se fosse venuta a sapere che avevo ripudiato l’ebraismo. Era qualcosa di impensabile, per così dire. Fuori discussione! Ma la faccenda si è fatta ovviamente molto più seria negli anni Venti, quand’ero ragazza, di quanto non fosse mai stata per mia madre. E quando sono diventata adulta il problema si è fatto molto più pressante per mia madre di quanto non fosse in precedenza. Ma ciò era dovuto a delle circostanze esterne.

Per quanto mi riguarda, per esempio, non credo di essermi mai considerata una tedesca – nel senso dell’appartenenza a un popolo e non della cittadinanza, se mi è consentita questa distinzione. Mi ricordo di una discussione con Jaspers – doveva essere il 1930 -> in cui lui mi diceva: “ovviamente lei è tedesca!”, e io ribattevo: “ma se si vede bene che non lo sono!”. Comunque la cosa non mi infastidiva, non la vivevo come un segno di inferiorità, in alcun modo.

Ma per tornare ancora alla questione della peculiarità della mia famiglia, va detto che tutti i bambini ebrei facevano esperienza dell’antisemitismo, e molti ne pagavano le conseguenze. La differenza nel nostro caso è che per mia madre era fondamentale non farsi mai umiliare. Bisogna difendersi! Quando i miei insegnanti facevano delle osservazioni antisemite – in genere non nei miei confronti, ma di altre ragazze ebree, per lo più studentesse ebree provenienti dall’Est – avevo l’ordine di alzarmi immediatamente, abbandonare la classe, tornare a casa e fare un resoconto dettagliato di ciò che era avvenuto.

A quel punto mia madre scriveva una delle sue numerose lettere raccomandate e per me la questione era chiusa. Avevo un giorno di vacanza in più ed era meraviglioso! Ma quando le osservazioni giungevano dagli altri bambini, non mi era permesso riferirne a casa. Non era ammesso: dalle offese degli altri bambini bisognava sapersi difendere da soli. Perciò queste cose non rappresentavano affatto un problema per me. Vi erano delle regole di comportamento che, per così dire, garantivano la mia dignità, e mi sentivo protetta, assolutamente protetta, a casa.

 Lei ha studiato a Marburgo, Heidelberg e Friburgo con i professori Heidegger, Bultmann e Jaspers e si e’ occupata soprattutto di filosofia e, quindi, di teologia e greco. Come è arrivata a scegliere queste materie? Be’, sa che le dico, me lo sono chiesto spesso anch’io! Posso solo dirle che ho sempre saputo che avrei studiato filosofia. Sin dall’età di quattordici anni.

 Perchè? Avevo letto Kant. Ma detto ciò, lei potrebbe chiedermi: perché ha letto Kant? Per me le cose stavano più o meno in questi termini: o studiare filosofia o farla finita, per così dire. Non perchè non amassi la vita! Al contrario! Come ho detto in precedenza, avevo questo bisogno di comprendere… Nel mio caso il bisogno di comprendere si è manifestato molto presto. Vede, a casa c’erano tutti questi libri; bastava allungare le mani e tirarli giù dagli scaffali.

 A parte Kant, ci sono altre letture di cui ha un ricordo particolare? Sì, in primo luogo la Psychologie der Weltanschauungen  [Psicologia delle visioni del mondo], pubblicata, mi pare, nel 1920 (4). Avevo quattordici anni. Poi ho letto Kierkegaard e le due cose si integravano a meraviglia.

 Ed è qui che entra in scena la teologia? Sì, le due cose si integravano a tal punto che mi parevano quasi coincidere. Mi chiedevo soltanto come ci si potesse occupare di teologia essendo ebrei… come si potesse fare; non ne avevo proprio idea, capisce? Avevo delle forti perplessità che si sono poi dissolte da sé col tempo. Col greco le cose stavano diversamente. Ho sempre amato molto la poesia greca, e la poesia in genere ha avuto una grande importanza nella mia vita. Così ho scelto anche il greco. In fondo era la scelta più comoda, perché lo conoscevo di già.

 Complimenti! No lei esagera.

 Le sue doti intellettuali, signora Arendt, si sono palesate molto presto. Non è che quando andava a scuola o da giovane studentessa ciò ha contribuito ad allontanarla, magari dolorosamente, dalle normali relazioni quotidiane? Le cose sarebbero andate cosi’ se ne fossi stata consapevole. Il fatto è che io credevo che tutti fossero come me.

 Quando ha capito che le cose non stavano così? Piuttosto tardi. Preferisco non precisare quanto tardi. La cosa mi imbarazza; ero incredibilmente ingenua, in parte per l’educazione che avevo ricevuto a casa. Non si discuteva mai dei voti, perché lo si considerava un argomento non degno. Ogni genere di ambizione era considerata poco dignitosa. Comunque, la situazione non mi era del tutto chiara. Talvolta provavo un senso di estraneità rispetto agli altri.

 Un’estraneità che credeva dipendesse da lei? Sì, assolutamente. Ma questo non ha niente a che vedere col talento. Non l’ho mai collegato a esso.

 Così le è capitato ogni tanto di provare disprezzo per gli altri in gioventù? Sì, è capitato, e molto presto. E ne ho anche sofferto perché sapevo che non era giusto, che non era lecito, eccetera

 Quando lasciò la Germania nel 1933 si trasferì a Parigi dove lavorò in un’organizzazione il cui compito era di far emigrare giovani ebrei in Palestina. Vuole dirmi qualcosa in proposito? Questa organizzazione trasferiva dei giovani ebrei di età compresa tra i tredici e i diciassette anni dalla Germania alla Palestina e li alloggiava presso dei kibbutz. E’ per questo che conosco piuttosto bene questi insediamenti.

E dai loro primi passi. Sì, dai loro primi passi. A quel tempo avevo grande rispetto per loro. I ragazzi ricevevano una formazione professionale e una nuova formazione scolastica. In alcuni casi sono riuscita a far entrare di nascosto anche dei ragazzi polacchi. Si trattava di un lavoro sociale ed educativo regolare. Nel paese vi erano dei grandi campi in cui i ragazzi venivano preparati al trasferimento in Palestina, andavano a lezione, imparavano a coltivare la terra e, soprattutto, mettevano su’ qualche chilo.

Il nostro compito era di vestirli da capo a piedi, cucinare per loro, ma soprattutto procurar loro i documenti, trattare coi genitori e, prima ancora, procurar loro dei soldi. In ciò consisteva gran parte del mio lavoro. Lavoravo insieme a delle donne francesi e questo è più o meno quello che facevamo. Forse lei vuole sapere ora perché ho deciso di intraprendere questo lavoro?

Certo. Vede, io venivo da una formazione puramente accademica e, da questo punto di vista, il 1933 ha lasciato su di me una traccia indelebile. Anzitutto in senso positivo e poi negativo. Forse farei meglio a dire prima in senso negativo e poi positivo. Oggi molti pensano che per gli ebrei l’ascesa di Hitler al potere sia stato uno shock. Ma per quanto riguarda me e quelli della mia generazione posso dire che questo è un curioso equivoco.

Ovviamente si trattava di un fatto grave, ma era politico, non personale. Non avevamo bisogno dell’ascesa di Hitler al potere per capire che i nazisti erano nostri nemici! La cosa era assolutamente chiara ormai già da quattro anni per chiunque avesse un minimo di cervello. E sapevamo anche che moltissimi tedeschi erano dalla loro parte. Ciò non poteva rappresentare una sorpresa o uno shock nel 1933.

 Vuole dire che il vero trauma fu scoprire che gli eventi da politici si stavano trasformando in personali? Non tanto questo. O meglio anche questo. In primo luogo ciò che era politico in senso lato divenne un destino personale al momento dell’emigrazione. In secondo luogo… gli amici si “uniformavano” o si allineavano.

Il problema, il problema personale, non era ciò che facevano i nostri nemici, ma ciò che facevano i nostri amici. Sull’onda della Gleichschaltung (uniformazione) (5), che era relativamente volontaria – in ogni caso, non ancora indotta dal terrore – era come se intorno a noi si fosse creato uno spazio vuoto.

Io vivevo in un ambiente intellettuale, ma conoscevo anche altra gente, e tra gli intellettuali la Gleichschaltung era, per così dire, la regola; non così per gli altri. E non l’ho mai dimenticato. Ho lasciato la Germania ossessionata dall’idea – ovviamente un po’ esagerata – che… mai più! Non mi immischierò mai più in nessun genere di attività intellettuale. Non voglio avere nulla a che spartire con quella genia.

Per di più allora non credevo che gli intellettuali ebrei o tedeschi si sarebbero comportati in maniera diversa se la loro situazione fosse stata diversa. Non lo credevo affatto. Ero convinta che dipendesse dalla professione, dal fatto di essere degli intellettuali. Sto parlando al passato. Ora ne so di più in proposito…

 Note
1. Le ellissi, qui e altrove, rispettano quelle del testo originale e non indicano manomissione del materiale (nota di Jerome Kohn [curatore di Hannah Arendt, Essays in understanding 1930-1954, Harcourt Brace & Company, 1994, di cui i due volumi di Archivio Arendt, Feltrinelli, Milano 2001-2003, sono la traduzione italiana]).
2. Gershom Scholem (1897-1982), sionista tedesco, storico ed eminente studioso del misticismo ebraico, era una vecchia conoscenza di Hannah Arendt. Il 23 giugno del 1963 Scholem le indirizzo’ una lettera molto critica sul suo libro Eichmann in Jerusalem (trad. it. di P. Bernardini, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1964); cfr. Eichmann in Jerusalem:an Exchange of Letters, in “Encounter”, 22, 1964 (trad. it. Eichmann a Gerusalemme. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in Hannah Arendt, Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Unicopli, Milano 1986, pp. 215-228). La citazione è tratta dalla replica della Arendt, datata 24 luglio 1963 (ivi, p. 221) (nota di Jerome Kohn).
3. I “Sozialistische Monatshefte” (Mensile socialista) erano un famoso giornale tedesco del tempo (nota di Jerome Kohn).
4. Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen (trad. it. di V. Loriga, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950), fu pubblicata originariamente a Berlino nel 1919 (nota di Jerome Kohn).
5. Il termine
Gleichschaltung, o uniformazione politica, indica il diffuso cedimento, all’inizio del periodo nazista, al mutato clima politico, motivato in genere dal desiderio di preservare la propria posizione o di trovare un lavoro; denota, inoltre, la politica nazista di trasformare le organizzazioni tradizionali – gruppi giovanili e ogni altro genere di associazione o circolo – in organizzazioni specificamente naziste (nota di Jerome Kohn).

 

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