E se i servi si contassero? “Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano” di Luciano Canfora [di Antonio Montefusco]

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http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-se-i-servi-si-contassero/20 febbraio 2020. È una storia di dettagli e di varianti, questa raccontata da Luciano Canfora ne Il sovversivo: una cavalcata nella burrascosa parabola biografica di Concetto Marchesi che parte da lontanissimo (gli anni perlopiù siciliani dell’inizio del ’900 dopo la laurea a Firenze nel 1899) per arrivare alla bagarre post-mortem che si accende in seguito alla commemorazione-apoteosi che Togliatti promosse sia alla Camera che al Senato il 14 febbraio 1957.

Ludovico Geymonat, preoccupato di un troppo precoce «culto della personalità», avanzò, sulle colonne della Stampa di Torino, dei dubbi sulla presunta intransigenza di Marchesi: il latinista aveva prestato giuramento durante il fascismo rimanendo sulla cattedra di Padova.[1] Compromesso con il fascismo, per Geymonat, che pure con Marchesi aveva collaborato: l’attacco, ritenuto vile dai compagni di partito, non aveva molto a che fare con il problema dell’asservimento al regime del grosso dell’intellettualità strutturata in università e accademia, quanto con il decisivo ricomporsi del rapporto tra partito e mondo intellettuale dopo il terribile 1956 e in particolare intorno al manifesto dei 101 (il documento, promosso da Antonio Giolitti, che espresse un radicale dissenso rispetto all’intervento sovietico in Ungheria). Un attacco a Marchesi che era, soprattutto, un attacco a Togliatti e alla sua posizione sia rispetto alla destalinizzazione kruscioviana sia alla rivolta di Budapest.

Per un paradosso della storia – in una storia, come questa, che di paradossi e sottintesi ne ha più d’uno – il 1956, e in particolare il delicato momento di passaggio nella storia comunista costituito dall’VIII Congresso del PCI, fu forse l’unico, eccezionale momento in cui Marchesi e Togliatti espressero una totale sintonia di visione. Marchesi, delegato di Padova, interviene accolto dagli applausi: è un discorso celebre e noto per la tagliente battuta su Stalin, che, più sfortunato di Tiberio, aveva trovato un pessimo storico in Chruščëv (mentre Tiberio aveva almeno avuto la fortuna di ricevere le attenzioni di Tacito).

Il discorso, come nota Canfora in un magistrale close reading (IX.8.4),[2] è complesso, e articola un’analisi raffinata e originale del momento storico che vive il comunismo mondiale, del tutto al di fuori del gergo, e delle litanie, del partito. Il fatto che il XX Congresso del PCUS abbia reso pubblico il Rapporto segreto permette a Marchesi di sviluppare un ragionamento sull’homo novus nei paesi comunisti, proposto come un processo non privo di «incertezze ed errori», all’interno di una visione elitistica della politica e della democrazia; quest’ultima, secondo il latinista, ci può dare il fascismo e può permettere ai lavoratori e contadini di votare contro i propri interessi: da qui, un ruolo pedagogico, di penetrazione e di innalzamento della consapevolezza, è attribuito esplicitamente agli intellettuali comunisti.

Marchesi, che si presenta come il portavoce di questo gruppo, ne espone, con sarcasmo, anche i difetti, soprattutto in coloro – letterati e incoerenti – che sacrificano la realtà delle cose alle belle idee. Il discorso è una summa del travagliato percorso di riflessione di questo intellettuale anomalo e «inquieto» (per riprendere la formula utilizzata da un suo allievo cattolico e suo fidato compagno nella lotta partigiana, Ezio Franceschini).

Ne ravvisiamo almeno tre tratti significativi: l’uso del mondo antico – che Marchesi conosce integralmente e in profondità – come «riserva mentale»[3] per la riflessione sul presente, qui evocato con la coppia Tiberio/Tacito ma anche con l’uso di fonti specifiche di esemplificazione (le fiabe di Esopo, da Marchesi tradotte nel 1929 e pubblicate l’anno seguente); un filosovietismo anomalo, non di scuola, che proviene dalla profonda rielaborazione, originalissima seppure solitaria, di risorse analitiche provenienti dalla cultura bordighiana e dal socialismo radicale ottocentesco; la finale apertura alla Cina, popolo «conservatore e creatore», come inedita sorgente di rinnovamento – ma il termine utilizzato è «resurrezione» – del comunismo.[4]

Canfora non si sofferma su questo colpo d’ala finale di Marchesi, ma è opportuno sottolineare il valore anticipativo di questo nuovo culto cinese rispetto alle correnti di dissidenza della nuova sinistra negli anni seguenti: a sottolineare come, questo uomo dell’Ottocento, che aderisce quarantenne alla scissione di Livorno, abbia avuto la capacità di attraversare epoche difficilissime e diverse con un punto di vista originale e mai riconciliato, appartato ma anche moderno.

In questo voluminosissimo (più di 1000 pagine) ritratto in piedi, a tutto tondo, del latinista Concetto Marchesi, Luciano Canfora ritorna su temi che gli sono molto cari, e di cui ha disseminato specimina in molti volumi e pubblicazioni, tra contributi scientifici e scritti rivolti a un pubblico più ampio: il saggio Il sovversivo, pubblicato per Laterza, ne costituisce il punto alto, in equilibrio tra divulgazione e profondità d’analisi.

Per comprendere facilmente la gittata, anche temporale, della riflessione e del lavoro, di scavo bibliografico ma anche, e soprattutto, d’archivio che sottostà a questa biografia – moltissimi sono i documenti inediti usati dallo studioso, spesso conservati in archivi di difficile raggiungibilità e consultabilità[5] – basta pensare che il volume La sentenza, incentrato sulla morte di Giovanni Gentile e sul ruolo anche di Marchesi in essa, uscì nel 1985, provocando una fitta serie di reazioni.[6]

Canfora non torna nel volume su quella polemica, ma rimette a punto, con la solita perizia filologica, la stratificazione del testo, pubblicato su Rinascita (2 luglio 1944) con il titolo di Sentenza di morte; più nello specifico il celeberrimo finale («la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!»), decisivo ai fini dell’implicazione degli alti vertici del partito nell’esecuzione dell’ex ministro, risulta un’interpolazione, attribuibile a Li Causi e Curiel: non si trattava, però, di un’aggiunta impropria al testo, ma anzi ne esplicitava quanto Marchesi aveva già scritto in stile allusivo, facendo ricorso a metafore di derivazione massonica (l’analisi è a IX.10.3).

Tuttavia, nella ricostruzione biografica questo dettaglio assume un significato di più ampie conseguenze, soprattutto alla luce del ruolo che Marchesi rivestì nel contribuire a una riattivazione (ma sarebbe meglio dire a un consolidamento), prima, dell’attività politica comunista nell’Università di Padova, e poi alla costituzione del CLN Veneto, con la geniale mossa di installarlo nel palazzo del Bo, dove Marchesi era rettore (nel gruppo dei nominati dal governo Badoglio nel settembre 1943).

A pochi metri di distanza aveva la sua sede il ministero della Educazione Nazionale della Repubblica Sociale Italiana, nella persona di Carlo Alberto Biggini, che resterà in contatto quasi “amichevole” con il rettore anche quando, da clandestino, lanciò il giustamente celebre, e straordinario, Appello agli studenti.

Sono tematiche storiograficamente delicatissime, con qualche rischio di scivolamento e sulle quali pesano vulgate sempre più intrise di revisionismo in malafede. Canfora riesce nella doppia operazione di disincrostare il mito di Marchesi dall’operazione postuma, in cui lo aveva imbalsamato il partito, e di restituirne una coerenza di fondo pur nella inesausta ricerca di un intellettuale raffinatissimo.

Il discorso di Togliatti alla camera, che lo pretendeva seminatore di dubbi, e quello di Secchia di pochi giorni dopo (il 17 febbraio 1957), che invece lo descrive intransigente esponente di una lotta partigiana inconclusa e in parte tradita, sono le due facce (non del tutto compatibili) di un mito che si è riverberato nella letteratura critica, a suo modo abbondante, su questa figura-chiave della cultura italiana della prima metà del ‘900. Semplificando brutalmente, si può affermare che se ne vede ancora il cono d’ombra sul racconto di Ezio Franceschini, che nel suo profilo del maestro raccontò della conversione in articulo mortis del pur impenitente anticlericale (ottocentescamente ostile al potere politico della Chiesa), quasi attualizzazione dei dubbi seminati da Marchesi nel ritratto di Togliatti e in parte riversati nell’ammirazione per la letteratura cristiana antica e la sua spiritualità negli scritti del latinista.[7]

Allo stesso tempo, invece, l’analisi critica del metodo di studio di Marchesi, tratteggiata con accuratezza da Antonio La Penna in un volume ancora per certi versi irrinunciabile, che però proponeva l’immagine di uno studioso la cui incapacità di assimilazione del metodo materialista (fra altre cose) lo lasciava preda alle contraddizioni, epistemologiche e anti-filologiche.[8] Rincarava la dose, su questo tema e più specificamente sull’incomprensione di alcuni risultati della critica tedesca, Sebastiano Timpanaro, che però almeno avanzava un elemento di peso: la caratteristica dello studioso Marchesi di essere «capace di caratterizzare globalmente lo stile di un autore».[9]

Si può dire che Canfora faccia di questa peculiarità un punto di forza per penetrare nella ricerca di Marchesi e nel suo corpo a corpo con l’attualità a partire dal mondo antico, quasi il contrappeso metodologico per poter raccontare Marchesi rispetto alla richiamata mitologizzazione post-mortem che si era costituito come un punto di fuga su cui erano accumulate le distorsioni della memoria dei testimoni, più o meno interessati.

Nell’impossibilità di dar conto della mole di acquisizioni della ricostruzione, si dovrà almeno riportare per sommi capi quelle che sembrano le correzioni alla immagine vulgata di Marchesi e, appunto, influenzata da quella mitologizzazione: da escludere, dunque, l’origine famigliare contadina; è improbabile che egli abbia partecipato al convegno fondativo di Livorno nel 1921; infondata sembra anche la notizia – diffusa, tra gli altri, anche da Musatti in risposta a Geymonat[10] – che il professore abbia giurato per rispondere a un ordine del partito, interessato a mantenere il presidio nei luoghi cruciali della vita culturale del paese.

Ne discendono conseguenze di un certo peso: l’adesione al PCd’I avvenne sulla base di posizioni di sinistra, antielettorali e non allineate al gruppo torinese gramsciano, che si impadronì in seguito della direzione del partito; su questa base con tutta probabilità, Marchesi, che non aveva mai rivestito posizioni direttive, visse in una posizione appartata l’affermazione del regime, cercando anzi di premunirsi rispetto a possibili rappresaglie nei suoi confronti (il 25 giugno 1923 prenderà una seconda laurea in Giurisprudenza).

Più difficile individuare il momento della ripresa di contatto con il gruppo comunista padovano, che avvenne dopo un lungo periodo durante il quale il partito pareva praticamente estinto sul territorio nazionale e con una dirigenza ormai installata all’estero. Questi contatti si stringono proprio in un momento in cui l’attività dei militanti si realizza nella politica “entrista”, una tipologia di intervento che puntava ad inserire elementi classisti nella pubblicistica fascista.[11]

Ma la ripresa dei contatti dell’ex bordighiano – tema, questo, su cui aveva insistito già Franceschini[12] – non comportano né un allineamento alla linea del partito e alla sua evoluzione nel complicato quadro geopolitico dell’epoca né, da parte dei dirigenti del partito, una soggezione nei confronti dell’ormai acclamato e autorevole docente.

La relazione è complicata, tormentata, piena di andirivieni, e si mantiene in questa feconda tensione lungo tutta la guerra partigiana: i giorni della clandestinità all’indomani dell’appello agli studenti si svolgono, per Marchesi, all’ombra della propria rete di contatti e senza il quadro protettivo del partito (che anzi ritiene di doverlo punire perché non si è dimesso da rettore); ne seguono una serie di iniziative personali e autonome del latinista, tra cui il colpo di scena dell’appello nonché il seguente ruolo di primo piano nella lotta partigiana in Svizzera, da dove sarà responsabile degli aviolanci di approvvigionamenti di munizioni dei resistenti in Italia, ma anche in Italia, dove parteciperà agli effimeri tentativi delle repubbliche partigiane. Marchesi diventa dirigente di fatto del comunismo italiano, perché, nonostante le sue relazioni sembrano derivare più dalla sua attività di accademico e forse anche dalla sua adesione alla massoneria, il suo impegno rimane coerentemente rivolto ai militanti comunisti: così, ad esempio, negli aviolanci, pur governati sotto l’ombrello degli alleati angloamericani, egli vigila affinché vengano destinati anche alle zone presidiate dai garibaldini.

Allo stesso tempo, forte resta il nocciolo radicale ed “estremista” del punto di vista di Marchesi, difficilmente docile alla svolta nazionale di Salerno: la sua visione della lotta partigiana resta quella di uno stadio iniziale di una rivoluzione italiana, e anche in seguito, a guerra conclusa, resterà tipico della sua analisi dell’Italia democratica la denuncia di una continuità con il fascismo, derivata dalla mancata realizzazione di quella epurazione (l’esigenza di un bagno di sangue) che egli aveva preconizzato prima della liberazione. Dirigente di fatto, ma non “sfruttato” nelle sue potenzialità (come possibile ministro, per esempio), proprio per questo suo autorevole dissenso “da sinistra”.

L’acquisizione davvero più sorprendente viene però dalla rilettura dei saggi di letteratura classica di Marchesi. Canfora segue il filo delle diverse edizioni di questi saggi, che Marchesi non ha mai ripubblicato senza ritoccarli pesantemente, aggiungendo e correggendo. Filo conduttore è soprattutto la fortunatissima Storia della letteratura latina, libro che ebbe, secondo Canfora, un «notevole peso» nella «vita di una nazione» (VIII.5.2): è una posizione implicitamente polemica nei confronti di Timpanaro, che aveva risolutamente rifiutato il confronto tra quest’opera e quella di De Sanctis, vero padre della nazione su un piano politico-culturale.[13]

In sistema coi volumi – soprattutto il Tacito – nella Storia attraverso le sue diverse edizioni alcuni nodi sono particolarmente sensibili alle sollecitazioni dell’attualità: in particolare, le pagine su Sallustio e alcune vicende-chiave della storia romana (soprattutto la vicenda rivoluzionaria, dai Gracchi a Cesare a Catilina).

Le varianti fanno sistema, e mostrano l’evoluzione del bordighiano verso un pensiero sistematico che giunge a risultati sovrapponibili con Gramsci. Se il ritratto di Catone cambia radicalmente tra la prima edizione (1923-1924), in cui egli è esempio positivo di oppositore, e la quinta, del 1939, quando diventa «maniaco, ottuso», probabilmente fastidioso pungolo per chi ha ingoiato l’indigesto rospo del giuramento, il case study per eccellenza è Sallustio, esempio per eccellenza di pentitismo politico (da catilinario a cesariano a catoniano).

Nella stessa edizione del 1939, l’autore del De coniuratione Catilinae viene rappresentato, con una forzatura al limite della inesattezza storica, come un cesariano fino alla fine: «Ci si può chiedere se questi radicali, e vicini nel tempo, capovolgimenti del nucleo centrale del ritratto di Sallustio, non costituiscano una sorta di diagramma degli andirivieni mentali e tormentosi ripensamenti di un comunista isolato a Padova tra caduta della Spagna, al patto russo-tedesco, lo scoppio della guerra e l’estinzione (così allora parve) del partito.» (VII.2.3) In particolare, la riflessione sulla rivoluzione romana permette a Marchesi di approdare a posizioni di “cesarismo” di sinistra, in cui la critica al parlamentarismo – affinata nell’analisi della vicenda fallimentare dei Gracchi – lo induce alla conseguente idealizzazione del ruolo dell’esercito di armati per garantire a una rivoluzione il suo successo.

I punti di contatto con Gramsci sono, come si capisce immediatamente, davvero rilevanti, e possono essere spiegate con il comune punto di partenza, e cioè le pagine di Mommsen; anzi, proprio il confronto con Mommsen permette anche di allargare a Gramsci il deficit di analisi classista in entrambi gli autori: laddove allo studioso tedesco (ottimo conoscitore di fonti non solo letterarie ma anche epigrafiche) era ben chiara la struttura schiavistica della società romana, nessuna riflessione è concessa da Marchesi a Spartaco e al tema della schiavitù.

Il deficit era già stato tematizzato da La Penna, e ribadito da Timpanaro; Canfora, però, condividendo con Marchesi il primato del politico nonché una radicale critica del paradigma democratico, rileva a ragione come, nel quadro di questo specifico cesarismo – alla base della evoluzione staliniana del pensiero di Marchesi – emerga la figura del pauper plebeius atque proletarius come «attore di un immenso e incompiuto dramma storico»: questa interpolazione d’autore compare nella edizione della Storia del 1939 e resta invariata fino all’ultima edizione del 1953, a riprova di una sostanza del ragionamento anche sociale seppure nel quadro di una visione a lunghe campate cronologiche.

Non vi è però nessuna illusione di una possibile autodeterminazione di questo attore. Già nella traduzione delle favole di Esopo, nel commento alla favola dei castrati, sgozzati uno per volta, quando l’ultimo si rende conto che quando erano tutti insieme potevano «fracassare a testate» l’uccisore, Marchesi ricorda la domanda di Seneca ai proprietari: E se i servi si contassero? La risposta è amara, perché «i servi non si contano mai da sé» a meno che non ci sia «un altro, non servo che insegni loro l’addizione».

Siamo tra concordato e plebiscito (la prefazione alle favole è datata al 1929), e però Marchesi ha già conquistato un quadro interpretativo che avrebbe costituito il suo punto di riferimento nel discorso all’VIII congresso del PCI che abbiamo ricordato più sopra. Vengono a soluzione i nodi sallustiano e cesariano: si tratta di una (definitiva) «conversione» o un «revirement ideologico» rispetto alle posizioni tenute durante la rivoluzione italiana del 1919-20.

Non che questo permetta di suturare tutte le contraddizioni e i turbamenti dell’uomo: Canfora non le nasconde, anzi le mette davanti al lettore, segnalando, però, nel cangiante contesto – non di rado quello geopolitico – una ragionevole spiegazione anche di quegli «andirivieni» che si è detto, e se si vuole, degli errori dell’uomo. Un esempio piuttosto ‘parlante’ sta nel filo delle celebrazioni dei millenari dei personaggi classici, occasione sempre sfruttata dal regime per serrare le fila del mondo intellettuale e impegnarlo direttamente nella propaganda culturale.

Davvero sorprendente vedere Marchesi resistere al culto romano all’epoca del bimillenario virgiliano: tra 1930 e 1932 i saggi dedicati all’Eneide sono un (modernissimo) tributo a Cartagine e ad Annibale eroe «di tutto una parte del mondo che non vuol soccombere» a Roma; questa linea di “resistenza” culturale sembra piegarsi nell’ambigua conferenza su Tacito nell’ambito del ciclo dedicato ai Grandi Umbri nel 1942, addirittura non priva, nella sua versione originale, di uno scivolone razzista. Ciò detto, anche in questo caso la parabola biografica resiste alla semplificante invocazione della caduta e dell’incidente.

Canfora suggerisce di vedere, in questa epoca di entrismo, una doppiezza faticosamente coltivata, con l’illusione, da parte di Marchesi, di lanciare «un messaggio rivolto più a sé stesso e alla cerchia (ristretta) in grado di intenderlo che non all’ampio pubblico dei lettori» (VIII.5.2): lettori (e vicini) come Curiel oppure come tutto quel ventaglio di antifascisti che, negli anni convulsi della lotta partigiana, provarono ad immaginare anche diversi tipi di relazione con il fascismo sociale della RSI (anche questo tema di una certa attualità, in questo momento in cui si inventano e percorrono presunti sovranismi di sinistra).

Per concludere, mi permetto di indicare due ulteriori piste di approfondimento. L’imponente scavo critico di Canfora ha restituito non solo lo spessore di questa figura della storia intellettuale, ma ne ha anche ridefinito le diverse e complesse sfaccettature. Tra le caratteristiche più inaspettate, solo apparentemente laterali rispetto alla biografia politica del personaggio, vanno annoverate senz’altro l’impegno per la scuola e la latitudine dell’originalità del suo pensiero comunista.

Sul primo piano, credo che vada ricordato il dibattito, aspro ma decisivo, con Banfi in merito al mantenimento del latino nella scuola media; la posizione di Marchesi, favorevole a questa idea che oggi ha una forte apparenza regressiva, si inseriva all’interno di una visione certamente elitistica delle discipline umanistiche, che però conviveva con un’apertura molto moderna ai saperi tecnici e ai rapporti tra le scuole, liceali e non. Una ripubblicazione e una messa a punto di quel dibattito sarebbe un interessante punto di partenza per riprendere, su basi più storicamente fondate, l’eterno dibattito sull’utilità dei classici e del liceo nel nostro comparto scolastico superiore.[14]

Sul secondo piano, mi limito a segnalare come, nella eccezionale risposta a Benedetto Croce del 1945, vada sottolineato il tratto “europeista” (di nuovo in parziale dissenso con il PCI) del progetto di Marchesi. Lo scambio con Croce, che è sviluppato a partire dal saggio La persona umana nel comunismo, dove emergono le coordinate ottocentesche (e per alcuni aspetti prescientifiche) della cultura marxista di Marchesi, permette a Canfora di definire il posto del classicista nella cultura italiana novecentesca.[15]

Si tratta, però, di un europeismo che sembra avere poco a che fare con la tradizione di Ventotene, ma che invece potrebbe essere avvicinato al pensiero, esso stesso originalissimo e poco docile all’inserimento nelle scuole di pensiero dell’epoca, di Silvio Trentin, co-protagonista con Marchesi di quel CLN veneto che si sviluppa e si installa nel rettorato padovano. Canfora segnala come il rapporto con Trentin sia stato piuttosto decisivo per la visione di piena apertura, personale e ideologica, che Marchesi ha sempre espresso nei confronti del Partito d’Azione (ulteriore punto di dissenso con Togliatti).

Non credo sia azzardato pensare a un influsso anche ideologico del pensiero di Trentin, che proprio in quegli anni elabora dei progetti costituzionali per la Francia, l’Italia e l’Europa dagli accenti anarchici e con forte insistenza sull’autogestione e sul federalismo democratico.[16] Sono altri testi che meriterebbero una ripubblicazione, perché vivificherebbero finalmente la nostra «riserva mentale» con elementi nuovi e utili per l’oggi.

* Università Ca’ Foscari di Venezia

NOTE

[1] «La Stampa», 16 febbraio 1957.

[2] Si citerà da L. Canfora, Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano, Roma – Bari, Laterza, 2019, con riferimento specifico ai paragrafi, organizzati in 11 “parti”, a loro volta divisi in capitoli. Data la sede, si sono ridotte al minimo indispensabile le annotazioni.
[3] L’espressione è usata a più riprese da Canfora.
[4] Tra le varie edizioni, il Discorso all’VIII Congresso si può leggere in C. Marchesi, Umanesimo e comunismo, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 113-120.
[5] Una lista del tutto parziale è inserita nell’apparato del volume (sotto il titolo Indice dei principali inediti).
[6] L. Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile [1985], Palermo, Sellerio, 2005.
[7] E. Franceschini, Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto, Padova, Antenore, MCMLXXVIII, pp. 135 ss. Il valore di questo capitolo finale nella biografia di Franceschini è esplicitato fin dall’inizio: «Non posso iniziare queste agine, Dio sa quanto impegnative per la mia coscienza ed il mio spirito, mentre anch’io aspetto la “Signora della vita”, senza una confessione, che non stupirà nessuno, ma spiegherà tante cose che qui saranno dette.»: siamo alla p. 129.
[8] A. La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo. Con un saggio su Tommaso Fiore, Firenze, La Nuova Italia, 1980: vedi soprattutto p. 93.
[9] S. Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, in «Belfagor», 35, 1980, 6, pp. 631-669: 633.
[10] «L’Avanti», 17 e 21 febbraio 1957 e poi, trent’anni dopo, in Chi ha paura del lupo cattivo?, Roma, Editori Riuniti, 1987.
[11] Politica che ha il suo esempio più celebre proprio in Eugenio Curiel, vicino a Marchesi, e nei suoi interventi sul «Bò».
[12] Franceschini, Concetto Marchesi, cit., p. 98.
[13] Timpanaro, Il «Marchesi», cit., pp. 637-638; di diverso avviso La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 96.
[14] Vedi già L. Sichirollo, La polemica Banfi-Marchesi, in «Quaderni di Storia», 5 (1977).
[15] Una sorta di saggio nel saggio è infatti il capitolo «Ex longiquo reverentia». I conti con Croce, IX.3.
[16] Vedine la parziale edizione in S. Trentin, Scritti inediti. Testimonianze studi, a c. di P. Gobetti, Parma, Guanda editore, 1972.

 

 

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