Continentali in fuga per il Coronavirus: adesso capiranno cosa significa vivere in Sardegna? [di Vito Biolchini]
Chissà cosa sarà venuto in testa a queste migliaia di persone che, abbandonate le loro case nelle zone rosse del nord Italia, si sono rifugiate in Sardegna sperando di trovare nelle loro ville al mare un rifugio sicuro dal Coronavirus, quasi che: 1 – qui il virus non sarebbe mai arrivato; 2 – in caso di epidemia, sarebbero state curate meglio che non nelle loro regioni di appartenenza. Il loro status economico dovrebbe presupporre un livello alto di istruzione; eppure ad analizzare i loro comportamenti sembra che siano state richiamate da una voce potente (della disperazione, dell’egoismo, del denaro: fate voi) che ha aperto loro il Mar Rosso e indicato la Terra Promessa, cioè la Sardegna. Ma l’isola che queste persone vivono d’estate non è evidentemente quella dei restanti nove mesi l’anno e nei quali i fuggiaschi non si sono mai inoltrati. E questo noi sardi lo sappiamo bene. Queste persone sono venute dunque in Sardegna non perché la conoscono, ma esattamente il contrario. Anni, forse decenni di frequentazione delle nostre spiagge, non gli hanno insegnato nulla di noi. Siamo stati solamente lo sfondo delle loro vacanze, gli indigeni da cui apprendere con stupore che nelle nostre città c’erano università, servizi pubblici, perfino i pullman. Ma avere comprato una casa in Sardegna non li ha quasi mai minimamente resi empatici nei confronti di una comunità che li ha accolti per tanto tempo. Se avessero avuto a cuore il nostro destino, non sarebbero venuti qui con il rischio di provocare danni giganteschi. La loro Sardegna esiste solo d’estate. Ma lo capiranno adesso, nella desolazione delle loro villette a schiera, immersi in una natura ancora ostile, silenziosa, con i rapporti sociali ridotti all’osso, con i servizi che non funzionano o funzionano male, con la sanità che è quello che è, con le caserme dei carabinieri che fanno orario d’ufficio, senza trasporti, senza riscaldamento (il freddo che c’è nelle nostre case d’inverno neanche a Milano, mai), lo capiranno adesso cosa significa vivere nell’isola? È l’unica speranza che ho: che capiscano. Perché il dibattito se anticipare Sa Die de Sa Sardigna (stanandoli casa per casa e rimandandoli indietro da dove sono venuti) non mi appassiona e forse a questo punto potrebbe avere perfino delle controindicazioni sanitarie. Per questo io dico: accogliamoli tutti. Aiutiamoli a casa nostra. Con i mezzi limitati che abbiamo, ma accogliamoli. È una buona occasione per far comprendere a questa fetta della classe dirigente italiana cosa significhi essere sardi. Con i nostri pregi e i nostri difetti, con i limiti della nostra condizione e con le opportunità che arrivano dal vivere in un’isola come questa. Nel bene e nel male. Perché nei momenti peggiori dobbiamo essere persone migliori. E all’egoismo rispondere con la generosità.
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