La cura ha bisogno del sacro [di Maria Antonietta Mongiu]

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L’Unione Sarda 4 aprile 2020. La città in pillole. Nel tempo in cui la collettività ha percepito crepe nei suoi pilastri e scoperto che sanità e istruzione pubbliche hanno ceduto il primato, può anche accadere di scoprire che, finalmente, la scena può essere rioccupata dalla polis e dalla sua capacità di essere intelligenza critica. Diventa urgenza che sollecita domande appropriate come ogni volta che disastro e spavento non sono alterità.

Si fa realmente collettiva quando immagina di rifondare, a partire da sé, le comunità di prossimità perché, reciprocamente educanti, si operi per il bene comune. Non si tratta di essere partigiani della Costituzione o buoni ma di sopravvivenza. Senza scomodare altro, anche Cagliari e la sua storia soccorrono a comprendere quell’intelligenza che ha inventato l’idea di bene comune e di res publica. Esperienza che sopravvive all’impero romano, diventa intrinseca al dizionario dell’umano, e approda a denominare le democrazie contemporanee.

Dal vocabolario che l’intelligenza collettiva ha stratificato, due parole sono spesso convocate in questo tempo inaudito: farmaco e sacro.  Sono antichissime e rassicuranti. Forse per questo riescono a far breccia se usate in modo autorevole. Sono i fulcri fondanti la coscienza e la concezione del vivere di ogni tempo. Spesso interdipendenti, si riconnettono al primo homo sapiens che con loro ha costruito, in migliaia di anni, quello che siamo. Sono infatti la mappa dell’esistente perché hanno che fare con il numinoso, con la cura e la modifica di sé. Benefiche, se si consiste nella norma condivisa, o malefiche, se agiscono mediatori incompetenti.

Quando la contemporaneità sarà schiacciata dai millenni poca sarà la differenza tra lo sciamano o la sciamana che, nel lungo Neolitico, agiva il sacro nelle cavità del “luogo dei bianchi colli” e mediava cure e patti per uomini e donne che seppellivano nei “luoghi alti” e l’oggi. Ancor meno se si pensa al luogo privilegiato, Stampace, dove perdura tuttora la fusione tra sacro e cura tanto da configurarsi, da millenni, come una sacra civitas.

Ancestrali culti della terra, testimoniati da ex voto, tra cui kernophoroi dedicati a due divinità sotterranee Demetra e Kore, e salutiferi ad Esculapio, a stare solo ai periodi punico e romano. Vi risiede la sintesi di tutto, Efisio, la cui annuale ierofania (il sacro che si mostra) ha bisogno di ritornare alle origini e di liberarsi di tutto il profano perché l’intelligenza collettiva che lo ha voluto come cura ora ha necessità solo di sacro.

 

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